Lewis “Duke” Baltz nacque il 12 settembre 1945 a Newport Beach, California, e morì il 22 novembre 2014 a Paris, Francia.
Nel corso di quasi cinque decenni di attività, Baltz si affermò come uno dei protagonisti del movimento New Topographics, ridefinendo la rappresentazione del paesaggio antropizzato attraverso una fotografia rigorosamente monocroma e priva di retorica. Le sue immagini di parchi industriali, zone suburbane e margini urbani raccontano la crisi del “sogno americano” e la trasformazione dei territori con uno sguardo “politico” e distante, incentrato sulla geometria degli spazi più che sulla figura umana.
Origini e formazione
La formazione di Baltz ebbe inizio nella Southern California degli anni Sessanta: cresciuto a Newport Beach, frequentò il San Francisco Art Institute dove avvicinò le pratiche visive più sperimentali dell’epoca, per poi conseguire un Master of Fine Arts presso la Claremont Graduate School nel 1971. Fu in quegli anni che sviluppò una visione minimalista del paesaggio, influenzata tanto dalla tradizione americana del “campo aperto” quanto dalle lezioni di teorici e colleghi, sperimentando per le prime volte la resa del bianco e nero in stampe di grande impatto grafico.
Dopo il diploma, lavorò come fotografo freelance in California, approfondendo da autodidatta le tecniche di camera oscura e di stampa, fino a essere chiamato come docente in prestigiose istituzioni: dal California Institute of the Arts all’Università della California (campus di Riverside e Santa Cruz), passando per Yale, l’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi e l’Art Academy of Helsinki. Questo percorso accademico gli permise di affinare una metodologia basata su serie fotografiche, ciascuna studiata come un progetto unitario, e di confrontarsi con una generazione di allievi entusiasti, introducendo concetti avanzati di fotografia documentaria e analisi sociologica del territorio.
La sua adesione al movimento New Topographics, sancita dalla partecipazione al celebre allestimento del 1975 al George Eastman House di Rochester, lo portò a condividere il palco con Robert Adams, Joe Deal, Bernd e Hilla Becher e altri innovatori, ridefinendo il concetto stesso di paesaggio in fotografia. Non fu mai attratto dalla spettacolarizzazione naturalistica: la sua vocazione rimase da subito quella di indagare il vuoto urbano e le architetture marginali, sviluppando una grammatica visuale basata su inquadrature frontali, piani geometrici e una luce piatta ma attentamente calibrata.
Carriera e metodologia tecnica
Fin dai primi lavori, Baltz adottò un approccio tecnico rigoroso: pur essendo spesso associato alla grande fotografia di paesaggio, preferì la leggerezza di una Leica a 35 mm montata su cavalletto, equipaggiata con pellicola a grana fine, rinunciando ai formati maggiori per ottenere una maggiore agilità compositiva sul campo. Di tanto in tanto utilizzò anche una Rolleiflex a medio formato, in linea con una tradizione analogica che gli consentiva di esplorare texture più morbide e dettagli più ricchi, specialmente nelle immagini urbane notturne.
La scelta del 35 mm Technical Pan, una pellicola Kodak a bassa sensibilità ma altissima risoluzione, gli permise di stampare i negativi su carte di formato 8 × 10 pollici, garantendo un grado di dettaglio e una profondità tonale straordinari. Durante le sessioni in camera oscura, Baltz utilizzava sviluppi prolungati e un accurato controllo delle illuminazioni, ottenendo contrasti netti ma con transizioni di grigio delicate, capaci di restituire l’atmosfera “spenta” dei paesaggi artificiali.
L’inquadratura frontale divenne per lui un elemento identitario: ogni immagine è concepita come una pianta topografica, priva di prospettive forzate o punti di fuga accentuati, in cui ogni linea orizzontale o verticale contribuisce a una struttura compositiva definita. Il suo rigore si estendeva alla scelta dei tempi di esposizione e dei diaframmi: prediligeva diaframmi medi (tra f/5.6 e f/8) per bilanciare nitidezza e resa luminosa, mentre i tempi variavano in funzione della luce disponibile, spesso regolata da filtri neutri per uniformare l’esposizione e mantenere il dettaglio nei bianchi più intensi.
Così definita, la sua tecnica si applicava a serie fotografiche monografiche, costruite come lunghe narrazioni visive: ogni soggetto veniva ripreso da diverse angolazioni e distanze, con l’intento di documentare in modo esaustivo le transformazioni del paesaggio dovute allo sviluppo industriale e al malcostume edilizio. L’assenza di figure umane o veicoli nelle inquadrature accentuava la sensazione di desolazione e l’effetto di alienazione urbana, cifra drammatica di tutta la sua opera.
Principali opere
Tra le sue prime e più celebri serie figurano The New Industrial Parks Near Irvine, California (1975), un’indagine sulle aree artigianali sorte ai margini di Los Angeles, e Nevada (1978), documentazione rigorosamente monocroma dei paesaggi minerari e dei parcheggi anonimi sulla strada verso Reno. Nel 1981, con Park City, Baltz esplorò le discoteche e i complessi sciistici delle montagne dell’Utah, mettendo a fuoco la “bolla” turistica attraverso un’estetica spoglia e priva di enfasi.
Il ruolo di Baltz nel volume New Topographics: Photographs of a Man-Altered Landscape (catalogo dell’esposizione del 1975) sancì il suo status di teorico pratico del paesaggio contemporaneo, insieme a una serie di mostre internazionali che lo portarono al MoMA di New York nel 1978 con la storica mostra Mirrors and Windows. In questi contesti, la sua visione si confrontò con quella di fotografi come Stephen Shore e Bernd e Hilla Becher, confermando la validità di un approccio “neutro” e documentaristico.
A partire dagli anni Novanta, Baltz pubblicò volumi fondamentali quali Rule Without Exception (1991), Politics of Bacteria e Docile Bodies, Ronde de nuit (1998), in cui sperimentò la fotografia a colori nei paesaggi urbani europei, mantenendo però lo spirito rigoroso delle sue. Questi lavori rivelano una spiccata sensibilità per l’architettura moderna, dalle periferie parigine ai quartieri di Berlino, mostrando come la tecnica monocromatica potesse essere trasposta in nuance cromatiche fredde e controllate.
Periodo europeo e sperimentazioni tardive
Dalla metà degli anni Ottanta Baltz si stabilì in Europa, dividendosi tra Francia, Svizzera e Italia per realizzare progetti su commissione e insegnare nei principali istituti accademici. Il suo trasferimento nel Vecchio Continente segnò una leggera deviazione stilistica: se da un lato mantenne il rigore formale, dall’altro esplorò serie più narrative, in cui le architetture urbane venivano accompagnate da testi critici che commentavano l’evoluzione delle metropoli contemporanee.
Il catalogo Lewis Baltz, Politics of Space (Steidl, 2017), frutto di un’ampia ricerca e di una conversazione finale con il critico David Campany, ripercorre i primi “progetti topografici” in California e i successivi lavori europei, offrendo un’altra conferma della sua versatilità metodologica. In queste pubblicazioni, Baltz presenta un uso raffinato del colore digitale e un editing delle immagini più “ispirato”, pur senza cedere alla spettacolarizzazione.
Negli ultimi anni di vita, ricorse a sistemi digitali per alcune presentazioni in gallerie, pur preferendo la stampa analogica per il formato catalogo. La sua attività di educatore continuò fino al 2014, anno della sua scomparsa, lasciando un’eredità teorica e tecnica che ancora oggi guida studiosi e praticanti della fotografia contemporanea.