venerdì, 14 Novembre 2025
0,00 EUR

Nessun prodotto nel carrello.

Diana Markosian

Diana Markosian nasce nel 1989 a Mosca, in una famiglia di origine armena. La sua infanzia è segnata da un evento cruciale: nel 1996, all’età di sette anni, lascia la Russia insieme alla madre e al fratello per trasferirsi in California, mentre il padre rimane a Mosca. Questo spostamento, avvenuto in modo improvviso e senza saluti, diventerà il nucleo tematico di gran parte della sua produzione artistica, incentrata su memoria, assenza e migrazione.

Dopo il trasferimento negli Stati Uniti, Markosian intraprende un percorso accademico di eccellenza: si laurea summa cum laude in Storia e Studi Internazionali presso l’Università dell’Oregon nel 2008, e a soli vent’anni consegue un Master of Science in Giornalismo alla Columbia University (2010). Questa formazione le fornisce strumenti analitici e narrativi che confluiranno nella sua pratica fotografica, caratterizzata da una forte componente documentaria e autobiografica.

La carriera di Markosian inizia precocemente: a vent’anni lavora come fotogiornalista freelance, realizzando reportage in contesti ad alta tensione geopolitica. Nel 2011, inviata in Azerbaijan per Bloomberg News, viene respinta alla frontiera a causa del cognome armeno, episodio che segna la sua consapevolezza delle implicazioni politiche dell’identità. Negli anni successivi, collabora con testate internazionali quali National Geographic, The New Yorker, The New York Times, Foreign Policy, Amnesty International, consolidando la sua reputazione nel fotogiornalismo globale.

Parallelamente agli incarichi editoriali, Markosian sviluppa progetti personali che esplorano la dimensione intima della storia. Tra i primi lavori significativi vi è Inventing My Father (2013-2014), dedicato al tentativo di ricostruire il rapporto con il padre dopo quindici anni di separazione. Segue 1915 (2015), un’indagine sulla memoria del genocidio armeno, realizzata attraverso ritratti e paesaggi che evocano la perdita e la resilienza.

Il 2016 rappresenta una tappa decisiva: Markosian diventa membro nominato di Magnum Photos, entrando nel circuito delle più influenti agenzie fotografiche. Nel frattempo, la sua ricerca si orienta verso una scrittura visiva interdisciplinare, che integra fotografia, video, testi diaristici e materiali d’archivio. Questa evoluzione culmina nel progetto Santa Barbara (2020), pubblicato da Aperture e selezionato tra i migliori libri dell’anno da MoMA e TIME Magazine. L’opera, ispirata a una soap opera americana degli anni ’80, ricostruisce la migrazione della madre dall’ex URSS agli Stati Uniti, interrogando le dinamiche di desiderio e sacrificio che hanno plasmato la storia familiare.

Nel 2024, Markosian pubblica Father, secondo monografia edita da Aperture, dedicata al processo di riconciliazione con il padre. Il libro, accompagnato da mostre alla National Portrait Gallery di Londra, al Foam di Amsterdam e alle Rencontres d’Arles, è stato accolto come uno dei lavori più intensi sulla tematica dell’assenza e della riconnessione.

Tra i riconoscimenti più rilevanti:

  • Prix de la Photo Madame Figaro – Arles (2025)
  • World Press Photo Award (2019)
  • Chris Hondros Emerging Photographer Award (2015)
  • Magnum Foundation Grant (2018)
  • Elliott Erwitt Fellowship (2018)
  • Firecracker Grant (2014)
  • Selezione per la Joop Swart Masterclass (World Press Photo)
  • Inserimento in Forbes 30 Under 30 (2017)

Oggi, Diana Markosian è considerata una delle voci più innovative della fotografia documentaria contemporanea, capace di coniugare rigore giornalistico e sperimentazione narrativa, con una attenzione costante alla dimensione autobiografica e alla politica della memoria.

Stile fotografico e approccio teorico

Il linguaggio visivo di Diana Markosian si colloca in una zona di confine tra fotografia documentaria, autobiografia e costruzione narrativa, con una tensione costante verso la ibridazione dei linguaggi. La sua pratica nasce da un’urgenza personale: raccontare la memoria familiare, la migrazione e le assenze che hanno segnato la sua biografia. Da questa matrice intima si sviluppa un metodo che combina rigore giornalistico e sperimentazione artistica, trasformando la fotografia in dispositivo di indagine identitaria.

Uno dei tratti distintivi del suo stile è la messa in scena controllata. Pur partendo da materiali documentari, Markosian introduce elementi performativi, ricostruzioni scenografiche e attori per dare forma a ciò che non può essere fotografato direttamente: il passato, il desiderio, la frattura affettiva. Nel progetto Santa Barbara (2020), ad esempio, la fotografa ricostruisce la migrazione della madre dall’ex URSS agli Stati Uniti attraverso un set cinematografico ispirato alla celebre soap opera americana degli anni ’80. Questa scelta non è mero artificio estetico, ma strategia critica: la soap diventa metafora del sogno americano, mentre la fiction si intreccia con la verità biografica, generando un racconto che espone la politica del desiderio dietro la migrazione.

Sul piano tecnico, Markosian predilige una scrittura visiva stratificata. Le sue immagini alternano ritratti frontali, inquadrature ambientali e still life di oggetti carichi di valore simbolico. La luce è spesso morbida e diffusa, con una gamma cromatica che oscilla tra toni caldi e saturi nelle scene ricostruite e palette neutre nei frammenti documentari. Questa dialettica cromatica riflette la tensione tra memoria e presente, tra immaginazione e realtà. L’uso di profondità di campo ridotta nei ritratti concentra l’attenzione sul volto, mentre gli sfondi sfumati suggeriscono la instabilità del contesto.

Un elemento chiave del suo approccio è la centralità del fotolibro come dispositivo narrativo. Opere come Santa Barbara e Father non si limitano a raccogliere immagini, ma orchestrano sequenze, testi diaristici, dialoghi, fotografie d’archivio e still frame video in una struttura che richiama il montaggio cinematografico. La pagina bianca, il ritorno di motivi iconici (porte chiuse, telefoni, specchi), la ripetizione variata sono figure retoriche che sostituiscono la linearità cronologica con una logica poetica, in cui il senso si produce per risonanza e differenza.

Dal punto di vista etico, la pratica di Markosian si fonda su una trasparenza processuale: la fotografa dichiara la propria posizione, espone il dispositivo di finzione e coinvolge i soggetti nella costruzione del racconto. Questa postura si traduce in una scrittura visiva partecipativa, che evita la violenza dello sguardo e privilegia la co-autorialità. Nei progetti autobiografici, la madre e il padre non sono semplici oggetti di rappresentazione, ma attori consapevoli di una drammaturgia che mira a ricomporre la frattura affettiva attraverso la messa in scena.

Un altro asse di riflessione è la temporalità. Se il fotogiornalismo tradizionale è orientato all’evento, Markosian lavora sul tempo lungo: le sue immagini non cercano la notizia, ma la persistenza di condizioni storiche e biografiche. Questa scelta implica una estetica della lentezza, visibile nella serialità dei ritratti, nella ripetizione di motivi e nella assenza di climax narrativi. Il risultato è una scrittura visiva che pensa la storia come durata, non come sequenza di shock.

Nei lavori più recenti, come Father (2024), la fotografa approfondisce la dimensione performativa e installativa: il libro si accompagna a mostre immersive in cui fotografie, video e oggetti dialogano nello spazio, trasformando la fruizione in esperienza sensoriale. Questa espansione mediale non è mero virtuosismo, ma risposta alla necessità di tradurre la complessità di una storia familiare che si intreccia con la politica della migrazione e con la memoria collettiva.

Lo stile di Diana Markosian si definisce attraverso cinque vettori:

  • Autobiografia come matrice narrativa (memoria, assenza, migrazione).
  • Ibridazione dei linguaggi (fotografia, cinema, testo, archivio).
  • Messa in scena controllata come strategia critica.
  • Etica relazionale (trasparenza, co-autorialità).
  • Espansione mediale (fotolibro e installazione come forme-saggio).

Questi elementi collocano Markosian tra le figure più innovative della fotografia documentaria contemporanea, capace di ridefinire il paradigma del racconto visivo in chiave poetica e critica, con una attenzione costante alla politica dell’intimo.

Le Opere principali

La produzione di Diana Markosian si distingue per la capacità di trasformare la fotografia in narrazione autobiografica e dispositivo critico, con opere che intrecciano documento, finzione e memoria. Ogni progetto è concepito come forma-saggio, in cui immagini, testi e materiali d’archivio dialogano per restituire la complessità di storie individuali e collettive.

Inventing My Father (2013–2014)

Questo lavoro segna l’inizio della ricerca autobiografica di Markosian. Dopo quindici anni di separazione, la fotografa intraprende un viaggio per ritrovare il padre rimasto in Russia. Il progetto si articola in ritratti, fotografie d’archivio e testi diaristici, componendo una narrazione che esplora la frattura affettiva e la ricostruzione identitaria. La fotografia diventa qui strumento di mediazione, capace di colmare – almeno parzialmente – il vuoto generato dalla migrazione.

1915 (2015)

Realizzato in occasione del centenario del genocidio armeno, questo progetto affronta la memoria storica attraverso una scrittura visiva che alterna paesaggi, ritratti di discendenti delle vittime e luoghi simbolici. L’opera si distingue per la sobrietà formale e per la capacità di evocare la assenza come categoria estetica: il vuoto diventa segno di una storia rimossa, mentre la fotografia assume la funzione di archivio affettivo.

Santa Barbara (2020)

Considerato il lavoro più emblematico di Markosian, Santa Barbara ricostruisce la migrazione della madre dall’ex URSS agli Stati Uniti negli anni ’90. Il progetto prende il nome dalla celebre soap opera americana, che per la madre rappresentava il modello di vita desiderato. Markosian utilizza attori, set cinematografici e dialoghi sceneggiati per mettere in scena la storia familiare, contaminando documento e finzione. Il libro, pubblicato da Aperture, è stato selezionato tra i migliori dell’anno da MoMA e TIME Magazine, e ha avuto ampia circolazione museale. La forza di Santa Barbara risiede nella sua capacità di interrogare la politica del desiderio dietro la migrazione, mostrando come il sogno americano si costruisca attraverso immagini mediali e sacrifici invisibili.

Father (2024)

Seconda monografia edita da Aperture, Father approfondisce il tema della riconciliazione con il padre. Il progetto combina fotografie contemporanee, materiali d’archivio, video e testi diaristici, componendo una narrazione che riflette sulla assenza, sulla memoria selettiva e sulla possibilità di ricostruire il legame. Le mostre alla National Portrait Gallery di Londra, al Foam di Amsterdam e alle Rencontres d’Arles hanno confermato la rilevanza internazionale dell’opera, che si colloca tra i lavori più intensi sulla politica dell’intimo.

Progetti editoriali e installativi

Oltre alle monografie, Markosian ha realizzato installazioni immersive che accompagnano i libri, trasformando la fruizione in esperienza sensoriale. Fotografie, video e oggetti dialogano nello spazio, ribadendo la volontà di espandere il linguaggio fotografico oltre la bidimensionalità. Questa espansione mediale è coerente con la sua poetica, che concepisce la fotografia come materia plastica, capace di accogliere temporalità multiple e stratificazioni narrative.

Elenco sintetico delle opere chiave

  • Inventing My Father (2013–2014): progetto autobiografico sulla riconnessione familiare; ritratti e materiali d’archivio.
  • 1915 (2015): indagine sulla memoria del genocidio armeno; paesaggi e ritratti commemorativi.
  • Santa Barbara (2020): ricostruzione scenografica della migrazione materna; libro Aperture, mostre internazionali.
  • Father (2024): narrazione sulla riconciliazione con il padre; fotolibro e installazioni immersive.

Fonti 

Curiosità Fotografiche

Articoli più letti

FATIF (Fabbrica Articoli Tecnici Industriali Fotografici)

La Fabbrica Articoli Tecnici Industriali Fotografici (FATIF) rappresenta un capitolo fondamentale...

Otturatore a Tendine Metalliche con Scorrimento Orizzontale

L'evoluzione degli otturatori a tendine metalliche con scorrimento orizzontale...

La fotografia e la memoria: il potere delle immagini nel preservare il passato

L’idea di conservare il passato attraverso le immagini ha...

La Camera Obscura

La camera obscura, o camera oscura, è un dispositivo ottico che ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della scienza e della fotografia. Basata sul principio dell’inversione dell’immagine attraverso un piccolo foro o una lente, è stata studiata da filosofi, scienziati e artisti dal Medioevo al XIX secolo, contribuendo all’evoluzione degli strumenti ottici e alla rappresentazione visiva. Questo approfondimento illustra la sua storia, i principi tecnici e le trasformazioni che ne hanno fatto un precursore della fotografia moderna.

L’invenzione delle macchine fotografiche

Come già accennato, le prime macchine fotografiche utilizzate da...

La pellicola fotografica: come è fatta e come si produce

Acolta questo articolo: La pellicola fotografica ha rappresentato per oltre...

Il pittorialismo: quando la fotografia voleva essere arte

Il pittorialismo rappresenta una delle tappe più affascinanti e...
spot_img

Ti potrebbero interessare

Naviga tra le categorie del sito

Previous article
Next article