August Sander nacque il 17 novembre 1876 a Herdorf, un piccolo centro minerario nella regione tedesca della Renania-Palatinato. Fin dall’adolescenza entrò in contatto con la fotografia grazie a un episodio determinante: accompagnando un fotografo professionista in una miniera dove il padre lavorava, ebbe modo di osservare e comprendere il potenziale del mezzo fotografico. Fu così che cominciò a interessarsi alla camera oscura e, con il supporto economico di uno zio, allestì un proprio laboratorio artigianale. Si trattava di un approccio ancora elementare, ma già fondato sull’osservazione tecnica e sulla sperimentazione diretta con lastre di vetro, processo che avrebbe segnato in modo indelebile il suo stile fotografico. Dopo il servizio militare obbligatorio, svolto tra il 1897 e il 1899, dove fu impiegato come assistente fotografo, lavorò in vari studi in giro per la Germania e successivamente in Austria, perfezionando le sue competenze tecniche e la sua sensibilità visiva. Si stabilì a Linz nel 1901, diventando prima socio e poi proprietario dello studio fotografico Greif, uno dei più frequentati della città.
Negli anni iniziali della sua carriera, il suo stile si muoveva ancora nell’alveo del pittorialismo, ovvero una corrente che cercava di conferire alla fotografia un’estetica simile a quella della pittura accademica, con atmosfere sognanti, filtri soft, stampe virate. Tuttavia, con il passare del tempo, Sander si distaccò da queste pratiche, ritenendole inadeguate alla rappresentazione oggettiva del reale. Cominciò a sviluppare un linguaggio visivo asciutto, basato sulla nitidezza, la frontalità, l’assenza di abbellimenti, anticipando i principi della Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività), movimento estetico e culturale tedesco che esaltava il rigore formale e la neutralità dello sguardo.
Nel 1910 si trasferì a Colonia, città che sarebbe diventata il suo centro operativo e creativo. Qui aprì uno studio fotografico e si avvicinò ai circoli intellettuali progressisti, stringendo legami con pittori, scrittori e architetti. Cominciò a riflettere in modo sistematico sulla possibilità di usare la fotografia come strumento di indagine sociale. La sua ambizione era di andare oltre il ritratto individuale, costruendo un corpus coerente capace di rappresentare l’intera società tedesca attraverso tipologie umane, un progetto che avrebbe preso forma nella sua opera più celebre: “Menschen des 20. Jahrhunderts” (Uomini del ventesimo secolo). A partire dai primi anni Venti, Sander concepì quest’opera come un archivio visivo antropologico, suddividendo le fotografie in categorie sociali e professionali: contadini, artigiani, operai, studenti, artisti, borghesi, aristocratici, e persino criminali ed emarginati.
I ritratti di Sander sono pervasi da una straordinaria lucidità compositiva. I soggetti sono spesso fotografati frontalmente, in posa statica, in ambienti familiari o sul posto di lavoro, con uno sfondo sobrio e un uso sapiente della luce naturale. La neutralità della composizione non è un’assenza di stile, ma la volontà di non interferire con la presenza del soggetto. Ogni dettaglio – dall’abbigliamento alla postura, dallo sguardo alla cornice spaziale – è selezionato per restituire l’identità sociale dell’individuo, pur lasciando trasparire la sua unicità. Non c’è ironia, né giudizio morale, ma un equilibrio perfetto tra empatia e distacco analitico.
Nel 1927 intraprese un viaggio in Sardegna con lo scrittore Ludwig Mathar, realizzando circa 500 immagini che costituivano un’esplorazione della cultura contadina isolana. Il progetto, inizialmente pensato come libro, non vide mai la pubblicazione ma rappresentò per Sander un’esperienza chiave per affinare la sua attenzione al paesaggio antropizzato, alla gestualità rurale e alla stratificazione temporale insita nei luoghi.
Nel 1929 pubblicò una prima selezione del suo progetto sotto forma di libro intitolato “Antlitz der Zeit” (Il volto del tempo), contenente 60 ritratti accompagnati da un testo introduttivo dello scrittore Alfred Döblin. Il volume fu accolto con grande interesse negli ambienti artistici e intellettuali, ma attirò anche l’attenzione delle autorità naziste, che vedevano in quelle immagini una minaccia all’immagine idealizzata del popolo tedesco. Il libro venne ritirato dal mercato e le lastre originali furono sequestrate e in parte distrutte. Il figlio maggiore di Sander, Erich, membro del Partito Socialista Operaio, venne incarcerato e morì in prigione nel 1944. Sander, pur colpito duramente, non abbandonò la fotografia. Continuò a ritrarre, a documentare, a stampare nel proprio laboratorio. Durante i bombardamenti su Colonia, gran parte del suo archivio fu distrutta, ma migliaia di negativi erano già stati messi in salvo in una casa di campagna.
Dal punto di vista tecnico, Sander rimase fedele all’uso della fotocamera a grande formato, montata su cavalletto e caricata con lastre di vetro, formato che offriva una qualità tonale e una definizione senza paragoni. La scelta di utilizzare lunghe esposizioni e inquadrature misurate si traduceva in una straordinaria chiarezza nei dettagli, che andava ben oltre il semplice realismo per toccare il simbolico. Il processo richiedeva grande preparazione: l’inquadratura doveva essere pensata al millimetro, l’interazione con il soggetto calibrata per ottenere la posa desiderata, il controllo della luce impostato in modo preciso. L’uso della luce naturale, spesso proveniente da grandi finestre laterali, consentiva di modellare le ombre in modo progressivo, ottenendo una tridimensionalità scultorea. Le stampe, realizzate su carta baritata e trattate con attenzione artigianale, garantivano una ricchezza di mezzi toni e una durata nel tempo eccezionale.
Dagli anni Cinquanta, in parallelo all’attività ritrattistica, Sander si dedicò alla fotografia paesaggistica e architettonica, documentando la ricostruzione della Germania e i mutamenti urbani, ma sempre con lo stesso sguardo analitico e distaccato. Nel 1961, pochi anni prima della morte, pubblicò “Deutschlands Spiegel” (Specchio della Germania), ulteriore testimonianza del suo intento di costruire una memoria visiva collettiva.
Il suo lavoro, inizialmente ostacolato dal regime nazista e a lungo trascurato nel dopoguerra, è stato riscoperto a partire dagli anni Settanta, anche grazie al lavoro del figlio Gunther Sander, anch’egli fotografo, che si adoperò per ricostruire l’archivio e promuovere le opere. Oggi, gran parte dell’opera di August Sander è conservata presso la Photographische Sammlung/SK Stiftung Kultur di Colonia, che gestisce oltre 100.000 negativi, stampe e materiali documentari. Le sue fotografie sono esposte regolarmente nei principali musei del mondo e sono considerate un pilastro della storia della fotografia contemporanea, punto di riferimento per artisti, sociologi, storici dell’arte e teorici dell’immagine.
August Sander è stato uno dei primi fotografi a comprendere il valore sistematico del medium fotografico in chiave scientifica, estetica e sociale. Il suo progetto non è mai stato solo un catalogo di volti, ma un tentativo radicale di dare un volto al tempo stesso, un’impresa che affonda le radici nella tradizione illuminista e positivista, ma che non rinuncia alla dimensione poetica della visione. Il suo rigore metodologico, la sua onestà visiva, la sua fede nella possibilità che una fotografia possa raccontare la verità senza manipolarla, hanno fatto di lui un autore imprescindibile.
È morto il 20 aprile 1964 a Colonia, lasciando un’eredità vastissima e ancora oggi oggetto di studio, analisi e reinterpretazione. August Sander non ha mai cercato la spettacolarità, né il compiacimento formale. Ha fatto della semplicità e della chiarezza il proprio stile. Ha creduto nella fotografia come atto di responsabilità, come mezzo per guardare il mondo con occhi limpidi, senza abbellimenti, ma con rispetto profondo.