Luigi Ghirri, nato a Fellegara di Scandiano (Reggio Emilia) il 5 gennaio 1943 e scomparso a Roncocesi il 14 febbraio 1992, ha ridefinito la fotografia italiana del secondo Novecento attraverso un linguaggio in cui il colore, la sequenza e la riflessione concettuale diventano strumenti di indagine del reale. A differenza del reportage tradizionale, Ghirri ha sviluppato un metodo basato sulla serialità, utilizzando pellicole Kodachrome e inquadrature precise per mettere in rilievo il rapporto dialettico fra natura, architettura e media che plasmano il paesaggio quotidiano. Le sue opere principali, fra cui Atlante, Kodachrome e Viaggio in Italia, non si limitano a documentare, ma interrogano il confine fra finzione e realtà, invitando lo spettatore a una lettura lenta e riflessiva delle immagini.
Dati anagrafici e prima formazione
Luigi Ghirri è venuto alla luce il 5 gennaio 1943 a Fellegara di Scandiano, terzogenito di Pavesio, falegname, e Anna Cagarelli, in un contesto familiare legato al lavoro manuale e alla piccola proprietà agricola che avrebbe lasciato tracce profonde nel suo immaginario visivo. All’età di tre anni si trasferì con la famiglia nella frazione di Braida di Sassuolo, dove trascorse l’infanzia fra campi e ruderi, sviluppando un’occhio attento alle trasformazioni del paesaggio dovute alla modernizzazione del dopoguerra. Terminati nel 1962 gli studi tecnici per geometra a Modena, Ghirri esercitò questa professione per alcuni anni, ma coltivò in parallelo la passione per la fotografia, realizzando i suoi primi scatti con una Comet Bencini, macchina usa e getta di costruzione italiana.
Nel 1970 avvenne il suo incontro con i giovani artisti concettuali modenesi, fra cui Giulio Paolini, Franco Guerzoni e Carla Parmiggiani, che lo introdussero a una ricerca d’area fatta di concettualizzazione dell’immagine prima ancora dello scatto. Da quel momento fino al 1973 Ghirri iniziò a dar corpo ai suoi primi progetti in serie, fra i quali Atlante, nato dal confronto con le pagine di un atlante geografico fotografate a distanza ravvicinata, e Kodachrome, incentrato sui cartelloni pubblicitari della sua città, opere che inaugurano il suo sguardo sospeso fra la mappatura del reale e l’astrazione simbolica.
Sviluppo del metodo: sei “lezioni” per la pratica fotografica
Luigi Ghirri non limitava la sua opera alle immagini, ma concepiva ogni progetto come un’occasione di riflessione teorica e pedagogica. Le sue “sei lezioni di fotografia”, raccolte dagli appunti dei suoi allievi e rese celebri anche attraverso un volume edito da Quodlibet, sintetizzano un percorso di apprendimento che va dalla definizione di un metodo alla costruzione di un bagaglio culturale ampio e trasversale.
1. Scegliere un metodo fotografico
Secondo Ghirri, il primo passo consisteva nel focalizzare l’attenzione su un singolo aspetto tecnico o compositivo, sia esso la luce, l’inquadratura o la profondità di campo, evitando di disperdere le energie in una molteplicità di scelte simultanee. Invitava pertanto a dedicare una serie di scatti a un unico tema, come l’uso di diaframmi chiusi per ottenere grande profondità di campo o, al contrario, a diaframmi larghi per isolare il soggetto dal contesto, in modo da esplorare in profondità le potenzialità narrativo‑tecniche di ciascuna impostazione.
2. Apprendere per gradi: dalla tecnica alla luce
Ghirri sosteneva che, una volta acquisite le nozioni fondamentali di esposizione, messa a fuoco e composizione, l’apprendimento dovesse progredire verso la gestione della luce in tutte le sue declinazioni, dalla luce naturale a quella artificiale, passando per l’uso di riflettori o torce elettriche per creare contrasti selettivi sul soggetto . A suo parere, dominare la luce non era solo saper esporre correttamente, ma saperla manipolare a proprio vantaggio per imprimere alle immagini un’atmosfera precisa e coerente con l’intento comunicativo.
3. Liberarsi del superfluo: minimalismo strumentale
Già quando il digitale era alle primissime armi, Ghirri denunciava la dipendenza dall’attrezzatura come un ostacolo creativo, invitando a uscire di casa con una sola macchina e un unico obiettivo per allenare l’occhio a cercare nuove prospettive piuttosto che a rincorrere l’ultimo accessorio sul mercato. Questa scelta di semplificazione non era mero minimalismo, ma strategia per rendere il processo fotografico più consapevole e meno vincolato dalle caratteristiche degli strumenti.
4. Ampliare il proprio background culturale
Per Ghirri, la fotografia attinge a ogni forma di espressione artistica, dal cinema alla pittura, dalla letteratura alla musica, e non può prescindere da un orizzonte culturale ampio e aperto. Consigliava dunque di non limitarsi a manuali di tecnica, ma di frequentare mostre d’arte, leggere romanzi e saggi, ascoltare concerti e persino studiare la comunicazione pubblicitaria sui cartelloni, perché ogni stimolo esterno arricchisce il proprio vocabolario visivo.
5. Rallentare la visione delle immagini
In un’epoca in cui ciascuno di noi è bombardato da centinaia di immagini al giorno, Ghirri ribadiva la necessità di dedicare del tempo a una “lettura riflessiva” delle fotografie, invitando a soffermarsi su ciascuna per comprenderne il contenuto e i moti emotivi che suscita, al fine di trarne motivazione e ispirazione anziché semplice consumo veloce .
6. Interpretare, non fotocopiare
Pur riconoscendo la precisione della macchina fotografica, Ghirri sottolineava che essa non poteva riprodurre sensazioni olfattive, emozioni o rumori di un luogo, e che il compito del fotografo consisteva nel trovare uno stratagemma visivo per trasmettere tali dimensioni, inserendo nella composizione elementi simbolici come un volto sudato per indicare il caldo di un’estate afosa.
Tecnica, attrezzatura e stile
Il rigore concettuale di Ghirri si traduceva anche in una cura maniacale della tecnica e dell’attrezzatura. Amava le pellicole Kodachrome per la loro resa cromatica raffinata e la grana sottile, che permettevano di ottenere tonalità pastello sospese fra realtà e irreale. Per il corpo macchina prediligeva fotocamere analogiche 35 mm come la Nikon F e la Leica M, strumenti che garantivano flessibilità in condizioni di luce mutevoli e una discrezione necessaria per scattare senza alterare l’autenticità della scena .
In camera oscura, Ghirri curava personalmente i tempi di sviluppo e fissaggio, sperimentando diluizioni e immersioni prolungate per calibrare la saturazione cromatica e il dettaglio nei mezzitoni, mentre in fase di stampa utilizzava carte patinate e plurimascherature selettive per accentuare la profondità di campo e i contrasti dinamici . Nel corso degli anni ’80, affiancò all’attrezzatura 35 mm l’uso di macchine di medio formato come Pentax 645 e Mamiya RB67 per progetti in cui la qualità dell’immagine e il formato più ampio erano prioritari, senza però mai abbandonare la compattezza e la libertà di movimento delle sue 35 mm.
Il suo stile è spesso definito “vuoto abitato”, perché molti scatti ritraggono paesaggi spogli o facciate architettoniche prive di figure umane, ma cariche di un senso di presenza implicita, dove il segno dell’uomo è affidato a tracce, riflessi e dettagli che suggeriscono narrazioni più che mostrarle .
Opere e pubblicazioni fondamentali
Fra i progetti in serie che hanno segnato la carriera di Ghirri spicca Atlante (1973), in cui le suddivisioni e i colori delle mappe si trasformano in paesaggi astratti, e Kodachrome (1978), raccolta di manifesti urbani che riflette sul ruolo dei media e della cultura consumistica nell’organizzazione dello spazio.
Nel 1984 curò insieme a Gianni Leone ed Enzo Velati il progetto Viaggio in Italia, libro e mostra itinerante che riuniva le visioni di numerosi fotografi attivi lungo la Via Emilia, costituendo un manifesto non ufficiale della scuola di paesaggio italiana e valorizzando la fotografia come strumento di narrazione collettiva .
Altre pubblicazioni imprescindibili includono Italian Landscape/Paesaggio Italiano (1989), che documenta la stratificazione storica del territorio emiliano, e Lezioni di fotografia (2010), raccolta postuma dei suoi insegnamenti teorici, entrambi riediti in numerose edizioni internazionali.
Mostre, archivi e riconoscimenti
La prima grande antologica dedicata a Ghirri fu allestita presso il CSAC di Parma nel 1979, in occasione della quale presentò per la prima volta il progetto Infinito, 365 fotografie del cielo allineate su una tavola monumentale. Negli anni successivi le sue immagini furono esposte in sedi prestigiose come il Jeu de Paume di Parigi, il Museo Reina Sofía di Madrid (The Map and the Territory, 2017) e, nel 2022‑23, la rassegna Labirinti della Visione al Palazzo del Governatore di Parma, che ha ripercorso la sua riflessione sul paesaggio culturale italiano con oltre 150 scatti.
Il Fondo Luigi Ghirri presso il CSAC conserva oggi più di seicento stampe originali, negativi e materiali inediti che documentano l’intera parabola creativa dell’artista, mentre l’Archivio Luigi Ghirri, istituito dagli eredi nel 1992, gestisce e certifica l’opera del maestro, promuovendone la diffusione e l’interpretazione critica.
Pur non amando parlare di eredità, Ghirri è riconosciuto come uno dei maggiori innovatori della fotografia europea, tanto da ispirare generazioni di artisti e critici a riflettere sul rapporto fra media, spazio e percezione. Il suo invito a “rallentare” la lettura delle immagini e a costruire un proprio **vocabolario visivo” permane centrale nella formazione di fotografi e docenti, mentre le sue mostre e i suoi volumi continuano a essere punti di riferimento imprescindibili per chiunque voglia comprendere l’evoluzione della fotografia contemporanea.