Eugene W. Smith, all’anagrafe William Eugene Smith, nacque il 30 dicembre 1918 a Wichita, Kansas, e morì il 15 ottobre 1978 a Tucson, Arizona. La sua carriera lo consacrò come una delle figure più complesse e tecnicamente rigorose del fotogiornalismo del XX secolo. Dotato di una sensibilità umanistica fuori dal comune e di una visione ossessiva per la precisione fotografica, Smith fu uno dei pionieri della fotografia documentaria intesa come strumento di denuncia e trasformazione sociale. La sua produzione, spesso frutto di lunghissime immersioni nei contesti trattati, è caratterizzata da un’attenzione maniacale al dettaglio, una tecnica di stampa altamente sofisticata e un impiego narrativo della sequenza fotografica che superò i limiti della fotografia editoriale per farsi vera e propria opera autoriale.
Formazione e prime esperienze professionali
Fin da giovanissimo, Eugene W. Smith si avvicinò alla fotografia con un approccio profondamente artigianale. A soli 13 anni iniziò a lavorare nella camera oscura allestita nella sua abitazione, dove imparò i fondamenti dello sviluppo chimico e della stampa in bianco e nero. La sua prima macchina fotografica fu una Voigtländer, presto sostituita da una Graflex e poi da una Leica II, strumenti che gli permisero di affinare un linguaggio visivo fatto di rapidità, precisione e discrezione.
Durante gli anni universitari alla Notre Dame University, Smith maturò un interesse sempre più marcato per la fotografia documentaria, influenzato dal lavoro di Lewis Hine e Dorothea Lange. I suoi primi servizi fotografici si concentrarono su temi sociali, come la povertà urbana e il lavoro minorile. Questo lo portò a collaborare con importanti testate tra cui Newsweek e Life, che ne intuirono il talento narrativo. Tuttavia, la sua attenzione al rigore etico lo mise spesso in conflitto con le politiche redazionali, portandolo a scontrarsi più volte con i photo editor e a sviluppare un’autonomia radicale nei suoi progetti.
Nel corso degli anni ’30 e ’40, Smith sviluppò una metodologia basata su un controllo assoluto del processo fotografico, dalla scelta dell’attrezzatura all’elaborazione della stampa finale, prediligendo sempre un’estetica ad alta densità tonale. Impiegava prevalentemente pellicole Kodak Panchromatiche, che esponeva a sensibilità superiori per ottenere un contrasto elevato, compensando poi in fase di sviluppo con bagni rivelatori diluiti, spesso di sua composizione. Questo gli consentiva di ottenere negativi ricchi di dettaglio, perfetti per il sistema zonale di stampa fine art che avrebbe raffinato per tutta la vita.
Tecnica, stile e metodo di lavoro
Tra gli aspetti più rilevanti del lavoro di Eugene W. Smith vi è l’incredibile complessità tecnica che sta dietro ogni sua immagine. Smith era noto per la sua pazienza estrema in camera oscura, dove impiegava ore, talvolta giorni, per stampare un singolo negativo. Il suo approccio si rifaceva a un’idea quasi pittorica della fotografia: non bastava l’attimo colto sul campo, ma occorreva modellare la luce durante la stampa attraverso un uso sapiente di mascherature (dodging) e bruciature (burning). Questi interventi erano talmente articolati che talvolta prevedevano anche più di dieci mascherature per singola stampa, realizzate con cartoncini ritagliati a mano e montati su aste mobili per gestire la distribuzione della luce.
Smith stampava quasi esclusivamente su carta baritata a doppia emulsione, che gli consentiva di controllare meglio la gamma tonale. Spesso impiegava bagni di selenio o di oro per aumentare la durata archivistica delle stampe e intensificare i neri. Il risultato era un’immagine visivamente magnetica, capace di veicolare emozioni profonde senza alcuna retorica.
Nel reportage sul campo, Smith prediligeva attrezzature leggere come le Leica IIIg o le Nikon S2, ma non disdegnava l’uso del medio formato, soprattutto con Rolleiflex, quando voleva ottenere una maggiore profondità di campo e una grana più fine. Lavorava spesso con diaframmi chiusi e tempi relativamente lenti, sfruttando la luce naturale al massimo delle sue possibilità. La messa a fuoco era sempre manuale, e Smith la eseguiva con una precisione chirurgica anche in condizioni di luce limite. La sua attenzione per la composizione e la simmetria lo portava a scattare decine, a volte centinaia di fotogrammi per una singola scena, nella ricerca ossessiva della perfezione.
Ma ciò che rende unico il suo metodo è la struttura narrativa delle sequenze. Smith considerava la fotografia non come un’immagine singola, ma come parte di un discorso visuale più ampio. Ogni servizio era costruito come un racconto, con un’introduzione, uno sviluppo e un climax. Questo approccio fu rivoluzionario per il fotogiornalismo, perché rese la sequenza fotografica un dispositivo espressivo autonomo, dotato di un linguaggio proprio.
Opere principali
Tra i progetti più significativi di Eugene W. Smith vi è “Country Doctor” (1948), realizzato per Life. Questo lavoro segue il dottor Ernest Ceriani in Colorado, offrendo uno sguardo intimo sulla vita di un medico di campagna. L’opera è fondamentale per comprendere la capacità di Smith di raccontare la complessità umana attraverso l’uso sapiente della sequenza narrativa. L’equilibrio tra immagini di azione e momenti di introspezione, unito alla perfetta orchestrazione della luce ambientale, rende questo reportage uno degli esempi più alti del fotogiornalismo umanista.
Un altro progetto emblematico è “Spanish Village” (1951), ambientato a Deleitosa, in Spagna. Smith visse per settimane nella comunità, documentando ogni aspetto della vita quotidiana. Le fotografie colpiscono per la loro sobrietà e per la densità drammatica: non c’è esotismo, ma solo una cruda rappresentazione della condizione rurale sotto il franchismo. Ogni immagine è costruita con una precisione geometrica, ma mai fredda: l’uso della luce laterale, della profondità di campo limitata e dell’interazione gestuale tra i soggetti crea un pathos straordinario.
La sua opera più intensa e devastante è senza dubbio “Minamata”, realizzata negli anni ’70 in Giappone. Questo lungo reportage documenta gli effetti dell’inquinamento da mercurio provocato dalla Chisso Corporation nella città di Minamata. Le immagini sono caratterizzate da una crudezza estrema, come la celebre fotografia “Tomoko Uemura in Her Bath”, in cui una madre fa il bagno alla figlia deforme. Questa immagine, tecnicamente perfetta, fu anche al centro di un dibattito etico che Smith affrontò con una lucidità rara, rifiutando ogni logica sensazionalistica.
Va ricordato anche il progetto, purtroppo incompiuto, intitolato “Pittsburgh Project” (1955-1957), un ambizioso tentativo di raccontare la complessità urbana di una città industriale americana. Smith raccolse più di 17.000 negativi, ma il lavoro non venne mai pubblicato integralmente. La sua estenuante ricerca di un ordine narrativo perfetto gli impedì di portarlo a termine, ma le immagini superstiti testimoniano un livello di osservazione e rigore compositivo che non ha eguali nella storia della fotografia.
Anni finali
Negli ultimi anni della sua vita, Eugene W. Smith affrontò numerose difficoltà, sia fisiche sia economiche. Le ferite riportate durante la realizzazione del reportage a Minamata — fu aggredito da agenti della Chisso — ne limitarono fortemente la mobilità. A ciò si aggiunsero gravi problemi finanziari e un isolamento crescente dal mondo dell’editoria, che faticava a recepire la sua visione intransigente del mestiere fotografico.
Smith si ritirò a Tucson, dove iniziò a insegnare fotografia all’Università dell’Arizona, cercando di trasmettere ai giovani la stessa passione e lo stesso rigore che avevano guidato la sua carriera. Insegnava non solo le tecniche di ripresa e stampa, ma soprattutto il valore etico del documento fotografico. Per lui la fotografia doveva essere verità, responsabilità e arte, e non tollerava compromessi editoriali o superficialità di approccio. Questa sua radicalità ne fece una figura isolata, ma anche profondamente rispettata.
Durante questo periodo Smith lavorò a un archivio sistematico della sua opera, cercando di ordinare le migliaia di negativi accumulati nel corso di decenni. Si dedicò anche alla stampa fine art delle sue fotografie più celebri, ricorrendo ancora una volta a processi estremamente controllati. Il suo laboratorio a Tucson era un vero e proprio sancta sanctorum della fotografia, dove ogni dettaglio — dalla temperatura dei chimici alla gradazione della carta — era monitorato con precisione scientifica.
Morì il 15 ottobre 1978 per un ictus cerebrale, lasciando incompiute numerose opere, ma anche un corpus fotografico tra i più influenti e tecnicamente raffinati del Novecento.