Rodney Lee Smith nacque il 31 dicembre 1947 a Long Island, New York, e si spense il 13 giugno 2016 a Somesville, sull’isola di Mount Desert, nel Maine. Nel lungo arco della sua carriera seppe unire una profonda conoscenza delle tecniche analogiche con un’estetica colta e quasi surreale, che rese i suoi scatti immediatamente riconoscibili.
Rodney giunse alla fotografia attraverso un percorso non convenzionale: figlio di un professionista dell’industria tessile e di una madre pittrice amatoriale, trascorse l’infanzia immerso in un ambiente in cui la tela e la stoffa venivano analizzate con lo stesso occhio critico. All’età di dieci anni iniziò a usare una Kodak Brownie Hawkeye, semplice apparecchio a otturatore unico che gli permise di comprendere le basi dell’esposizione. Ne dette conferma l’uso delle pellicole in bassa sensibilità, normalmente ISO 10–25, per cui fu necessario arrestarsi con tempi di posa di un secondo o più, mentre il diaframma fisso restava intorno a f/11, vincolando ogni immagine a soggetti immobili e a scene ben illuminate. Lo sviluppo avveniva in un piccolo tank rotante su cui Rodney versava soluzione D‑76, a temperatura ambiente, muovendo moderatamente il cestello per ottenere una granulosità regolare e evitare gradienti tonali indesiderati.
Durante gli anni del liceo ricevette in regalo una Leica M3 con ottica Summicron 50 mm f/2, con la quale cominciò a misurare l’effetto della profondità di campo studiando la distanza iperfocale e giocando con diaframmi aperti per isolare i soggetti dallo sfondo. Adoperò con regolarità pellicole Tri‑X 400 e Plus‑X 125, avviando la pratica del controllo della curva caratteristica (H‑D curve) attraverso l’uso di un MacBeth Step Tablet che gli consentiva di prevedere la resa delle luci e delle ombre in stampa. Nel laboratorio domestico imparò a combinare tempi di sviluppo variabili, oscillanti tra 5 e 12 minuti, e temperature calibrate tramite termometri a immersione, per ottenere dettagli tanto nei mezzitoni quanto nelle alte luci.
Il passaggio alla University of Virginia rappresentò una svolta: studiò Storia dell’Arte e Religioni Comparate, ma dedicò le ore libere alla darkroom universitaria, dove poteva contare su ingranditori Durst di grande precisione e su carte baritate RC di grammatura elevata. Qui approfondì la tecnica del contact printing, realizzando lastre di vetro e stampando direttamente a contatto su carta sensibile, procedimento che garantiva una trasposizione fedele della grana e massima nitidezza. Si accostò anche alle emulsioni ortocromatiche, sperimentando filtri Ross e Rosco per modificare la resa tonale del cielo e dei tessuti nei primi scatti in bianco e nero.
Alla fine degli studi universitari, una borsa di studio lo condusse a Firenze, dove frequentò laboratori di restauro e conservazione di stampe. Lì apprese l’arte del ritocco manuale delle stampe su carta baritata, utilizzando polveri vegetali per tamponature di registro e fissando i negativi con bagni di acido e tiosolfato di sodio mantenuti a 20 °C per un fissaggio duraturo. Queste competenze artigianali si fusero con il suo gusto classico: Smith padroneggiò le tecniche di decentramento camera e tilt movements su apparecchi a banco ottico, scattando con una Deardorff 8×10″ su lastre tipo Polaroid Type 55 per un’applicazione immediata del risultato e una messa a fuoco chirurgica su architetture e ritratti.
Nel giro di pochi anni sviluppò un gusto per l’equilibrio formale mutuato dai maestri rinascimentali, traducendo le regole della prospettiva in composizioni fotografiche in cui le linee orizzontali e verticali conducevano lo sguardo attraverso la scena. L’approccio contemplativo, unito a una sorprendente cura per il dettaglio, tracciò le basi di una poetica visiva che avrebbe definito tutta la sua carriera.
Evoluzione stilistica e tecniche fotografiche
Nella seconda metà degli anni ’70, Rodney passò gradualmente al formato medio con una Rolleiflex 2.8E su film 120 6×6. Il sistema bioblocco a specchio singolo e l’obiettivo Planar 80 mm gli garantivano una notevole nitidezza e un perfetto controllo della distorsione. Decise di confermare il suo amore per il bianco e nero, esercitando con rigore la tecnica del filtro arancione 8A per aumentare il contrasto tra cielo e paesaggio. Il tempo di esposizione venne quasi sempre mantenuto sotto 1/250 s, mentre il diaframma oscillava tra f/4 e f/11 in funzione della profondità di campo voluta.
All’inizio degli anni ’80 il suo stile prese una svolta surreale quando iniziò a scattare su formato 4×5″ con la Sinar F2, su lastre panchromatiche a elevata definizione. Il sistema di banco ottico permise di correggere prospettive e piani focali, dando vita a scene in cui figure in abiti eleganti s’inserivano in paesaggi urbani privi di tempo. Le esposizioni, comprese tra 1/8 e 2 secondi, richiesero l’uso di cavalletti professionali in alluminio e di telecomandi per eliminare vibrazioni. Le lastre furono sviluppate con rodinal o metol‑idrochinone a temperature rigorose (18–20 °C), dando una grana marcata se voluta, o finemente controllata ruotando il tank a bassa velocità per un aspetto più pulito.
Il passaggio al colore avvenne in modo graduale: metà anni ’90 vide Smith adottare una Nikon F3 con pellicola Fujichrome Velvia 50 per un lavoro di ritratto in esterni. Velvia, grazie al cristallo ultrafine (4–5 μm), assicurava colori saturi e ombre profonde. Fu provvidenziale l’uso di polarizzatori multicouch Hoya HD per eliminare riflessi indesiderati su superfici vetrate e specchiate, mentre l’esposizione veniva misurata con esposimetro a lettura media, calibrato su ghiaia o cartoncino grigio 18%. L’immagine risultava così vibrante, pur conservando la nitidezza di ogni dettaglio tessile e architettonico.
Con l’avvento del digitale Rodney non sacrificò la sua estetica analogica: scansionava diapositive e negativi con un drum scanner Heidelberg a 4.000 dpi, correggendo le dominanti cromatiche esclusivamente con le curve di Photoshop, senza ricorrere a ritocchi di compositing. In alcuni ritratti ambientali utilizzò la modalità tethered su Canon EOS 5D Mark II, ma manteneva sempre un approccio “senza filtro”: ogni correzione di bilanciamento del bianco (tra 3.200 K e 5.500 K) era moderata, e i file RAW venivano trattati con profili Adobe Standard per preservare la naturalezza dei toni pelle.
Fu sua abitudine creare profili ICC personalizzati utilizzando target X‑Rite ColorChecker Passport, così da riprodurre fedelmente i colori delle stoffe e delle architetture neoclassiche nei set all’aperto. L’illuminazione artificiale compariva rare volte: quando serviva un tocco in più usava softbox Profoto RFi da 2×3 ft e generatori da 500 Ws, posizionando diffusori in seta a tre strati per ammorbidire le ombre e garantire un modello di luce uniforme e divertente.
Ogni fase tecnica—dalla scelta della macchina fotografica alle dissolvenze in camera oscura, dalla stampa su carta baritata all’eventuale passaggio al pigment inkjet—rispecchiava la sua convinzione che la fotografia dovesse rimanere anzitutto un’opera artigianale, espressione diretta della sensibilità del fotografo.
Progetti e commissioni editoriali
Il 1976 segnò per Rodney l’inizio di un progetto di reportage documentario in Israele. Con una Leica M4 su pellicola Tri‑X 400 entrò nei souk di Gerusalemme e ritrasse persone comuni in un’atmosfera carica di storia. Scattò con lente summicron 35 mm f/2 a 1/125 s, diaframmi compresi tra f/5.6 e f/8, sfruttando la luce naturale che filtrava tra portoni in pietra e pergole. Dopo il rientro negli Stati Uniti, selezionò 88 rotoli di negativo e li sviluppò in Metol‑Idrochinone mantenendo i bagni a 20 °C, scegliendo curve di contrasto regolari per evidenziare le espressioni dei volti senza sacrificare il contesto architettonico. Da questo lavoro nacque il volume In the Land of Light: Israel, a Portrait of Its People, che consacrò il suo approccio narrativo e tecnico.
Durante gli anni ’80 si dedicò a ritratti corporate utilizzando la Hasselblad 500 C/M in 6×6 con obiettivi Planar 80 mm, scattando in studio con fondali bianchi e due generatori Profoto D1, uno per la luce principale e uno per il controluce. I tempi di posa a 1/125 s e i diaframmi f/11 garantivano una profondità di campo sufficiente a mantenere nitidezza sia nella giacca sia nelle texture dei tessuti. Queste immagini furono utilizzate da banche, aziende tech e riviste finanziarie per le loro copertine e per ritratti di amministratori delegati.
Nel decennio successivo si aprì alla fotografia di moda: fu chiamato da Vogue UK e Harper’s Bazaar per servizi ambientati tra le strade nebbiose di Londra o in cortili mediterranei. Impiegò la Nikon F3 con il 35 mm f/1.4 e pellicola Velvia, ma per molte uscite ritornò alla Rolleiflex, privilegiando il bianco e nero con sviluppo in D‑76 a 24 °C per un contrasto moderato. Talvolta sfruttava un’unica strobosfera montata sotto la fotocamera (su barra a C‑stand) per risultati di luce drammatica e insolita.
Tra il 2000 e il 2010 fu ingaggiato per progetti editoriali dal Smithsonian Magazine, ritratti in bianco e nero di leader culturali e matrone urbane. Scelse compost digitali minimali: Canon 5D Mark II in RAW, flash Speedlite misurati a 1/200 s, softbox orientati per creare mezzetinte morbide e riflettori bianchi per riempire le ombre. Questo lavoro fu presentato in un volume in tiratura limitata, con stampa giclée su carta cotone 310 g/m².
Poco prima della sua scomparsa realizzò un progetto intitolato “Surreal Wedding”, dove unì l’analogico e il digitale: banco ottico 4×5″ per scene con luce naturale e Phase One IQ3 da 100 MP per riprese tethered di dettagli, fondendo le due sorgenti in post‑produzione con maschere di luminanza in Photoshop.
Principali opere di Rodney Smith
Rodney ha lasciato una serie di immagini entrate a far parte del linguaggio fotografico contemporaneo. Tra queste spicca “Ballerina on Bond Street” (1994), realizzata con Rolleiflex 2.8E, Tri‑X 400 e filtro giallo 12A, sviluppata in Rodinal 1+25 a 20 °C e stampata su carta baritata Contrasto 2. La leggerezza sospesa della figura femminile su un marciapiede londinese sintetizza la sua tensione tra eleganza classica e surreale sospensione temporale.
La serie “Gentlemen at Oxford” (2001) fu composta con Mamiya RZ67 Pro II e obiettivo 110 mm su Portra 160, sviluppato in C‑41 a 38 °C; l’adozione del magazzino Polaroid HR‑P gli permise di visionare grezzi istantanei e perfezionare composizione e inquadratura, ottenendo scatti con ampio senso di simmetria e profondità.
“Umbrellas in the Rain” (1998) ritrae passanti con ombrelli su pavé bagnato, scattata con Leica M6 TTL, Summilux 35 mm f/1.4 e Velvia 50, con polarizzatore in Hoya multicouch e tempo di 1/60 s, diaframma f/4. La resa dei riflessi e la saturazione dei colori creano un’atmosfera sospesa tra fotografia di strada e pittura.
Nella serie “Chess Players in Central Park” (2005) Rodney adottò il digitale: Canon 5D Mark II in RAW, EF 85 mm f/1.2 L, luci LED a bi‑colore e flash high‑speed sync per catturare i movimenti delle mani sugli scacchi, inquadrando i giocatori con fondo naturale leggermente sfocato grazie a f/2 e tempi di 1/200 s.
“Surreal Wedding” (2014) unisce banco ottico 4×5″ e Phase One IQ3 100 MP in modalità bracketing HDR a tre scatti, poi fusi con HDR Pro di Photoshop. Il risultato è una scena di cerimonia in cui sposi e invitati fluttuano quasi come in un sogno, grazie all’uso calibrato di esposizioni multiple e maschere di luminanza.
L’insieme di questi lavori mostra come Rodney Smith abbia saputo coniugare la perfetta padronanza delle tecniche analogiche—dalla scelta dei formati e delle pellicole allo sviluppo e alla stampa—con un linguaggio visivo unico, fatto di eleganza, suspense e un pizzico di meraviglia, mantenendo sempre intatta la relazione diretta tra fotografo, pellicola e stampa.
Per maggiori info, potete visitare il sito web istituzionale.

Sono Manuela, autrice e amministratrice del sito web www.storiadellafotografia.com. La mia passione per la fotografia è nata molti anni fa, e da allora ho dedicato la mia vita professionale a esplorare e condividere la sua storia affascinante.
Con una solida formazione accademica in storia dell’arte, ho sviluppato una profonda comprensione delle intersezioni tra fotografia, cultura e società. Credo fermamente che la fotografia non sia solo una forma d’arte, ma anche un potente strumento di comunicazione e un prezioso archivio della nostra memoria collettiva.
La mia esperienza si estende oltre la scrittura; curo mostre fotografiche e pubblico articoli su riviste specializzate. Ho un occhio attento ai dettagli e cerco sempre di contestualizzare le opere fotografiche all’interno delle correnti storiche e sociali.
Attraverso il mio sito, offro una panoramica completa delle tappe fondamentali della fotografia, dai primi esperimenti ottocenteschi alle tecnologie digitali contemporanee. La mia missione è educare e ispirare, sottolineando l’importanza della fotografia come linguaggio universale.
Sono anche una sostenitrice della conservazione della memoria visiva. Ritengo che le immagini abbiano il potere di raccontare storie e preservare momenti significativi. Con un approccio critico e riflessivo, invito i miei lettori a considerare il valore estetico e l’impatto culturale delle fotografie.
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