Il mirino galileiano è il più antico e semplice tra i mirini oculari utilizzati in fotografia e cinematografia, e discende direttamente dal cannocchiale di Galileo Galilei (Pisa, 1564 – Arcetri, 1642), da cui eredita il principio ottico fondamentale: un sistema di lenti divergente–convergente che restituisce all’occhio un’immagine diritta (non capovolta) e con ingrandimento unitario o prossimo all’unitario. Dal punto di vista della storia della tecnica, la migrazione del cannocchiale in un dispositivo di puntamento visivo per le fotocamere si compie con l’avvento delle macchine a cassetta e delle pieghevoli a soffietto tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, quando l’industria abbandona la sola visione sul vetro smerigliato posteriore e cerca soluzioni compatte, robuste e a basso costo per aiutare l’inquadratura. In questo contesto, i primi mirini elementari sono i mirini a traguardo (o “sportivi”), poi evoluti in veri mirini galileiani a due lenti con cornici di inquadratura, fino alle varianti Albada con cornice riflessa e, successivamente, alle realizzazioni a zoom accoppiato nelle compatte e nelle cineprese.
Fonti storiche e museali descrivono bene questa transizione: i repertori del patrimonio scientifico lombardo documentano come, accanto ai mirini a riflessione e al pozzetto, i mirini galileiani siano stati adottati in massa dagli apparecchi pieghevoli e dalle compatte per la loro luminosità e semplicità costruttiva; tali mirini, però, introducono parallasse alle distanze brevi, vizio che sarà colmato solo dalla visione TTL (through-the-lens) nelle reflex e, in epoca digitale, dai monitor e dagli EVF (Electronic ViewFinder).¹
Nel periodo di consolidamento del piccolo formato (anni Venti–Trenta), il mirino galileiano diventa un segno distintivo delle fotocamere a telemetro e delle compatte. I sistemi a telemetro integrano all’interno del mirino una sovrapposizione a immagine sdoppiata per la messa a fuoco; anche se il percorso di mira resta separato da quello dell’obiettivo, l’insieme costituisce un compromesso preciso e veloce per generazioni di fotogiornalisti. Un esempio emblematico del secondo dopoguerra è la Canon P (1959), che adotta un mirino galileiano luminoso con cornici per 35 mm, 50 mm e 100 mm, e telemetro ad ampia base; la macchina incarna l’idea di mirino come finestra ampia, priva di blackout e indipendente da batterie, in grado di fornire cornici luminose per più ottiche senza ricorrere a prismi o specchi.² Questo è anche il periodo in cui le compatte e alcune box camera di largo consumo — come la Fototecnica Filmor (Torino, circa 1951, formato 6×9 su pellicola 120) — impiegano mirini galileiani “puri”, spesso in posizione superiore rispetto all’obiettivo, destinati a un’utenza che privilegia rapidità e semplicità.³
Un capitolo a parte merita il mirino Albada, ideato dall’olandese Lieuwe Evert Willem van Albada (1868–1955). La sua variante introduce un elemento semiriflettente anteriore e una cornice disegnata sul lato posteriore, che appare flottante sull’immagine osservata: questo accorgimento permette di avere un riquadro di inquadratura sempre leggibile senza schermare la scena, migliorando la velocità di inseguimento dei soggetti e riducendo gli errori di composizione tipici dei mirini a traguardo. Il Museo di Fisica dell’Università di Torino conserva mirini Albada firmati Zeiss Ikon dei primi anni Trenta, testimonianza di una industrializzazione matura del concetto.⁴
La storia aziendale dei marchi associati a questo tipo di mirino fornisce coordinate utili. Voigtländer, fondata nel 1756 a Vienna (poi a Braunschweig), è considerata il più antico nome della fotografia industriale ed è tra le prime case a offrire ampia varietà di mirini per i propri apparecchi; la produzione fotografica storica si interrompe nel 1972, anche se il marchio sopravvive come licenza.⁵ Canon, nata in Giappone nel 1937, e Leitz/Leica (le cui radici risalgono a Ernst Leitz nel 1869 a Wetzlar), hanno segnato con le gamme a telemetro — e relativi mirini galileiani con cornici — un modello progettuale che sopravvive ancora oggi nelle riedizioni e nei sistemi ibridi moderni, nei quali la finestra ottica convive con un display digitale. Per contro, il progresso della SLR e del pentaprisma dagli anni Quaranta–Cinquanta in poi ha ridotto la centralità del mirino galileiano sui corpi professionali con ottiche intercambiabili, senza però cancellarlo: la sua robustezza e indipendenza energetica restano qualità preziose in molti contesti.
Nel cinema, lo stesso principio si traduce in mirini a oculare separati o viewfinder da regia indipendenti, spesso zoomabili, utili per la previsualizzazione delle inquadrature sul set. Le cineprese portatili del XX secolo alternano mirini galileiani e reflex (con prismi semiriflettenti) per conciliare continuità di visione e precisione TTL: la letteratura enciclopedica ricorda come i mirini galileiani assicurino visione continua, mentre le soluzioni reflex intermittenti dividono il fascio luminoso o sfruttano superfici speculari dell’otturatore, a prezzo di una maggiore complessità.⁶
Da dispositivo “povero”, il mirino galileiano ha dunque accompagnato l’intera parabola della fotografia amatoriale e professionale, dai folding alle telemetro, dalle box alle compatte e alle cineprese, mantenendo una identità funzionale chiara: luminosità, rapidità, assenza di blackout e assenza di consumo. In cambio, chiede al fotografo di conoscere e gestire i suoi limiti geometrici (parallasse e differenza di prospettiva) e, quando serve, di affiancarlo con telemetri, cornici e adeguate distanze di lavoro per garantire la fedeltà compositiva richiesta dal soggetto.
Caratteristiche tecniche e principio ottico
Il mirino galileiano è un cannocchiale rovesciato: obiettivo divergente (lente negativa) davanti e oculare convergente (lente positiva) dietro. A differenza del cannocchiale kepleriano, la combinazione produce un’immagine diritta, con campo abbastanza ampio e ingrandimento tipicamente inferiore o vicino a 1× (es. 0,73×, 0,85×, 1,0×, 1,5× a seconda dei modelli). Il percorso non attraversa l’ottica di ripresa: la mira è disassata rispetto all’obiettivo, ed è qui che nascono i due tratti distintivi del sistema: parallasse e differenza di prospettiva. La parallasse è la distanza tra l’asse del mirino e l’asse dell’obiettivo; la differenza di prospettiva è la diversa posizione relativa del punto di vista del fotografo rispetto a quello della lente di ripresa. Entrambe crescono quando ci si avvicina al soggetto: a distanze brevi la cornice che si vede nel mirino non corrisponde perfettamente al fotogramma registrato, e la prospettiva risulta leggermente traslata.⁷
Per mitigare questo effetto, i progettisti hanno adottato diversi accorgimenti: cornici con trattini di correzione a distanze ravvicinate; cornici multiple per lunghezze focali diverse (es. 35/50/90–100 mm); ingrandimenti calibrati per restituire visione ampia attorno alla cornice (utile nel reportage per “vedere al di là” del riquadro); mirini zoomabili accoppiati all’ottica nelle compatte con zoom (così che l’angolo di campo del mirino segua quello dell’obiettivo). Nelle telemetro classiche, il telemetro a coincidenza è sovrapposto alla finestra del mirino come “patch” centrale a immagine sdoppiata, accoppiato alla rotazione della ghiera di messa a fuoco: quando le due immagini coincidono, il piano di fuoco è corretto. In questo modo si uniscono rapidità di mira e precisione di messa a fuoco pur restando fuori dal percorso ottico TTL.⁷
Il mirino Albada rappresenta un perfezionamento rilevante: un elemento semiriflettente anteriore e una cornice disegnata sul lato posteriore generano una cornice virtuale luminosamente sospesa sulla scena, ben leggibile anche con sfondi chiari. Vantaggi: leggibilità della cornice, minor occlusione della visione periferica, migliore inseguimento di soggetti in movimento. In ambito storico, questi mirini compaiono come accessori per fotocamere a ottica fissa o a passo a vite, prodotti — tra gli altri — da Zeiss Ikon nei primi anni Trenta; l’adozione sistematica su corpi compatti e telemetro avverrà lungo tutti gli anni Trenta–Cinquanta.⁴
Sotto il profilo fotometrico, i mirini galileiani sono intrinsecamente luminosi: l’occhio guarda una scena reale attraverso poche lenti e con trattamenti antiriflesso essenziali, senza i decadimenti di luminanza tipici di vie ottiche complesse. Questo giustifica la loro fortuna in epoche pre-elettroniche: la leggibilità rimane elevata in quasi ogni condizione, e il mirino funziona anche a macchina spenta. Il rovescio della medaglia è l’assenza di informazioni TTL: profondità di campo, preview del diaframma, lettura esposimetrica nel mirino e visualizzazione accuratezza fuoco (come con microprismi/immagine spezzata su vetro smerigliato) non sono intrinsecamente disponibili, se non con sovrapposizioni o indicatori meccanici. Il trade-off tecnico è chiaro: semplicità e affidabilità in cambio di fedelecza geometrica solo a distanza e di integrazione con altri dispositivi (telemetro, cornici, indicatori).
Dal punto di vista meccanico-ergonomico, l’ingrandimento del mirino è una grandezza chiave. Valori attorno a 0,72–0,85× offrono un buon compromesso tra visione periferica (spazio oltre la cornice per “prevedere” ingressi in campo) e leggibilità delle informazioni; un 1,0× consente, a seconda dell’estrazione pupillare e della diottrica dell’oculare, di mantenere entrambi gli occhi aperti, con fusione parziale dell’immagine reale e di quella incorniciata, favorendo un tracciamento naturale del soggetto. I progettisti regolano anche la posizione della cornice per compensare non solo la parallasse verticale, ma pure quella orizzontale, introducendo spesso marcatori che avvertono l’utente di cambiare il punto di mira quando la distanza scende sotto soglie note (es. 1 m).⁷
Sul piano dei limiti intrinseci, tre punti meritano attenzione. Primo: l’errore di parallasse rende il mirino galileiano inadatto alla macro pura e alla fotografia riproduttiva di precisione; in questo ambito si preferiscono pozzetto, vetro smerigliato o sistemi TTL. Secondo: il mirino galileiano non scala in modo semplice con teleobiettivi spinti, perché l’angolo di campo diventa talmente stretto da richiedere ingrandimenti e estrazioni pupillari poco confortevoli e un allineamento chirurgico fra cornice e fotogramma. Terzo: con zoom ad ampia escursione, il mirino galileiano necessita di meccanismi accoppiati (spesso puramente ottico–meccanici) per seguire l’angolo di campo; tali soluzioni esistono, ma aggiungono complessità e, in generale, non raggiungono la perfetta coincidenza TTL. Nonostante ciò, nel reportage, nella street e nella fotografia familiare, il bilancio rimane spesso a favore del mirino galileiano per velocità, leggerezza e robustezza.
La letteratura enciclopedica e manualistica sottolinea infine una verità operativa: la differenza tra mirino galileiano e reflex (pozzetto o pentaprisma) è ontologica. Il mirino reflex, riprendendo la luce attraverso l’obiettivo, garantisce coincidenza perfetta tra inquadratura e registrazione, a prezzo di un percorso più lungo, blackout al momento dello scatto (nelle SLR) e, storicamente, maggiori ingombri e costi. Il mirino galileiano, all’opposto, sacrifica la coincidenza a favore della continuità e dell’immediatezza. Questa tensione ha animato l’evoluzione tecnologica fino all’epoca EVF, dove le mirrorless forniscono visione digitale TTL con sovrapposizioni informative ricchissime; eppure, anche oggi, esistono apparecchi con mirini ibridi che simulano una finestra galileiana con cornici elettroniche e possibilità di passare istantaneamente alla visione digitale, segno che il paradigma della “finestra sul mondo” resta un riferimento progettuale e culturale di lunga durata.⁸ ⁹
Utilizzo pratico, vantaggi operativi e limiti sul campo
La pratica del mirino galileiano si riconosce da una postura semplice: occhio all’oculare, altro occhio spesso aperto per mantenere percezione periferica, mani libere di azionare tempi e diaframmi (o la ghiera del telemetro) e fotocamera pronta allo scatto senza ritardi né blackout. I pregi percepiti sono quattro. Primo, la velocità: non si aspetta il sollevamento di specchi o l’accensione di display, non si teme il lag di refresh; si inquadra e si scatta. Secondo, la luminosità: la scena si osserva direttamente, con contrasto naturale anche in controluce, e la lettura delle espressioni resta piena. Terzo, l’indipendenza energetica: il mirino funziona senza batteria, qualità che rimane preziosa in contesti remoti, a basse temperature o in attività di lunga durata. Quarto, la consapevolezza periferica: l’area attorno alla cornice è visibile, e ciò aiuta a “anticipare” ingressi in campo, qualità che ha reso celebre l’uso del mirino galileiano nel reportage e nella street photography.
Questi pregi si accompagnano a limiti che l’operatore deve padroneggiare. Il più noto è l’errore di parallasse su breve distanza. In pratica, se ci si avvicina a soggetti entro 1–1,5 m, ciò che si vede nella cornice non coincide con il fotogramma registrato: si rischia di tagliare margini o di disallineare elementi critici. Le macchine a telemetro di buon livello inseriscono marche di correzione e invitano a spostare leggermente il punto di mira verso l’angolo opposto per riallineare la composizione; altre usano cornici mobili accoppiate alla messa a fuoco. Nei casi estremi — macro, riproduzioni, still life — il mirino galileiano non è lo strumento giusto e si preferisce la visione TTL o il vetro smerigliato.
Un altro limite riguarda la flessibilità focale. Con gli obiettivi intercambiabili, il mirino galileiano richiede cornici dedicate per ogni focale o un mirino esterno da slitta (i celebri finders da 21/24/28 mm, 35 mm, 90/135 mm, ecc.). Questo sistema funziona bene con insiemi discreti di focali, ma è meno pratico se si cambia spesso ottica o si usano escursioni tele spinte. Le compatte con zoom hanno risolto il problema con mirini zoom accoppiati: una camma meccanica muove gruppi ottici nel mirino seguendo l’obiettivo, così che la cornice e l’angolo di campo restino coerenti; si tratta di una soluzione elegante ma non perfetta come la visione TTL, poiché mantiene le differenze di prospettiva e la parallasse.
La messa a fuoco è un capitolo separato. Il mirino galileiano “puro” non fornisce un feedback del fuoco; per questo, nelle telemetro, il mirino integra il patch a immagine sdoppiata. Quando le due immagini combaciano, la distanza obiettivo–soggetto è corretta. È un metodo rapidissimo e accurato per la maggior parte dei soggetti, con un vantaggio operativo: la coincidenza del fuoco può essere stabilita anche in luce scarsa se il patch è ben contrastato, ma esige calibrazione accurata del meccanismo. Con tele oltre 90–100 mm o con macro, l’accuratezza richiesta può scendere, e molti preferiscono sistemi TTL o focus peaking elettronico.
Nei contesti pratici, il mirino galileiano è particolarmente forte in quattro scenari. Reportage e street: l’assenza di blackout e la visibilità oltre cornice permettono di pre-vedere i movimenti e di “entrare” nello scatto quando il soggetto interseca il riquadro, mantenendo la scena viva e reattiva. Ritratto ambientato: a distanze medie, è facile leggere il rapporto fra figura e ambiente, guidati dalla luminosità naturale della finestra ottica. Viaggio e famiglia: la semplicità e l’assenza di consumo energetico liberano dalla gestione delle autonomie e delle fragilità elettroniche. Cinepresa e regia: i viewfinder basati su schema galileiano sono strumenti di previsualizzazione a basso peso e immediati, utili per comporre senza collegarsi alla catena di presa.
Gli esempi storici aiutano a legare teoria e pratica. La Canon P (1959), già citata, unisce mirino galileiano con cornici multiple e telemetro, diventando un riferimento di chiarezza e rapidità; la Fototecnica Filmor (circa 1951), pur semplice, mostra come un mirino galileiano superiore possa servire al grande pubblico, con dimensioni generose del riquadro e leggibilità elevata; i mirini Albada Zeiss Ikon dei primi anni Trenta testimoniano il passaggio dalle cornici incise a soluzioni a cornice riflessa, di migliore fruibilità per soggetti in movimento.² ³ ⁴
Resta, infine, il confronto moderno. Nell’epoca delle mirrorless, i mirini elettronici offrono anteprima dell’esposizione, istogrammi, aiuti al fuoco, sovrapposizioni e ingrandimenti; i mirini reflex mantengono la loro fedeltà TTL e il ritardo nullo, ma con blackout allo scatto e struttura più complessa. Il mirino galileiano non compete su questi fronti informativi; conserva, però, tre vantaggi assoluti: rapidità senza latenza, luminosità naturale indipendente dall’elettronica, robustezza intrinseca. In molte situazioni reali, questi tre elementi bastano a renderlo preferibile o quanto meno desiderabile come opzione — e spiegano perché i sistemi ibridi contemporanei mantengano una modalità “ottica” che simula la finestra galileiana pur vivendo nel mondo digitale.⁸ ⁹
Fonti
- Mirino – industria, manifattura, artigianato (Lombardia Beni Culturali) — contesto storico e tipologie di mirini: <https://www.lombardiabeniculturali.it/scienza-tecnologia/schede/ST110-00451/>
- Fonte Fotografica – Canon P (1959) — mirino galileiano con cornici multiple: <https://www.fontefotografica.it/epoca2.asp?ID=4372>
- Fototecnica Filmor (1951 ca.) — box 6×9 con mirino galileiano superiore: <https://www.fuorifuoco.it/fototecnica-filmor/>
- Museo di Fisica – Mirino sportivo Albada (Zeiss Ikon) — principio e datazione; van Albada (1868–1955): <http://www.museodifisica.unito.it/index.phtml?Museo&id=685>
- Voigtländer – Wikipedia — fondazione 1756, storia industriale: <https://en.wikipedia.org/wiki/Voigtl%C3%A4nder>
- Treccani – “Mirino” (Enciclopedia) — definizioni tecniche, uso in cineprese: <https://www.treccani.it/enciclopedia/mirino/>
- Mirino galileiano – Wikipedia — principio ottico, ingrandimenti, parallasse, cornici: <
- WeShoot – Corso di fotografia (lezione 17, OVF) — confronto schematico con mirini reflex/galileiani: <https://blog.weshoot.it/2022/05/12/corso-di-fotografia-lezione-17-il-mirino-ottico-ovf/>
- Ollo Store Blog – Mirino ottico vs elettronico — quadro comparativo contemporaneo: <https://blog.ollo.it/mirino-ottico-o-elettronico-differenze/>
Mi chiamo Marco Adelanti, ho 35 anni e vivo la mia vita tra due grandi passioni: la fotografia e la motocicletta. Viaggiare su due ruote mi ha insegnato a guardare il mondo con occhi più attenti, pronti a cogliere l’attimo, la luce giusta, il dettaglio che racconta una storia. Ho iniziato a fotografare per documentare i miei itinerari, ma col tempo è diventata una vera vocazione, che mi ha portato ad approfondire la storia della fotografia e a studiarne i protagonisti, gli stili e le trasformazioni tecniche. Su storiadellafotografia.com porto una prospettiva dinamica, visiva e concreta: mi piace raccontare l’evoluzione della fotografia come se fosse un viaggio, fatto di tappe, incontri e visioni. Scrivo per chi ama l’immagine come mezzo di scoperta e libertà, proprio come un lungo viaggio su strada.


