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Tecnologie StoricheIl pentaspecchio: differenze rispetto al pentaprisma

Il pentaspecchio: differenze rispetto al pentaprisma

Fra le tecnologie storiche che hanno segnato il passaggio dalla visione “a pozzetto” alla visione ad altezza occhio nelle reflex, il pentaprisma occupa un posto cardinale. La sua funzione è tanto semplice da enunciare quanto raffinata da ottenere: raddrizzare e orientare correttamente l’immagine formata dallo specchio reflex e dallo schermo smerigliato, consegnandola all’occhio del fotografo senza inversioni laterali. Il tutto avviene in tempo reale, con perdite di luce minime e una stabilità geometrica che, se correttamente garantita in fabbrica, rende la visione nel mirino una fedele anticipazione del fotogramma. L’adozione del pentaprisma in ambito fotografico si consolida nel secondo dopoguerra, quando diverse scuole progettuali cercano una via per superare i limiti compositivi della mira a pozzetto. La parabola storica conduce a tre riferimenti imprescindibili: la via tedesca con la Contax S (presentata alla Fiera di Primavera di Lipsia nel 1949 da VEB Zeiss Ikon, prima serie prodotta nello stesso anno), la via italiana con la Rectaflex (azienda attiva a Roma dal 1947 al 1955, ritenuta la prima SLR 35 mm con pentaprisma realmente commercializzata) e la via nipponica che, con la Nikon F (1959), porterà il pentaprisma intercambiabile a maturità di sistema per l’uso professionale di massa.¹²³⁴

Nel merito fisico, la superiorità del pentaprisma discende dal principio della riflessione interna totale: un solido di vetro ottico (tipicamente BK7 o equivalenti) lavorato in modo da far rimbalzare il fascio luminoso su superfici interne con angoli opportunamente calcolati, senza bisogno di depositi metallici sulle facce di riflessione. Poiché la riflessione interna non introduce le attenuazioni tipiche delle superfici metallizzate, il rapporto di trasmissione resta elevato; allo stesso tempo, l’assenza di contatti aria–metallo lungo il percorso riflesso minimizza la diffusione e le aberrazioni indotte. Le facce destinate a ingresso e uscita sono antiriflesso per limitare le riflessioni parassite, mentre i piani riflettenti lavorano in regime di angolo critico per assicurare la completa inversione destra–sinistra. Alcune realizzazioni adottano la cosiddetta geometria “a tetto” (roof), grazie alla quale si sfrutta una doppia riflessione con cuspide che completa il raddrizzamento laterale con notevole insensibilità alle micro-rotazioni del prisma rispetto all’asse ottico.⁵

È proprio nell’ibridazione tra idea ottica e fattibilità industriale che si colloca l’apporto di Telemaco Corsi, giurista e imprenditore romano a cui si deve il progetto della Rectaflex: presentata in forma di prototipo nel 1946 e commercializzata in serie dal 1948–1949, essa fu la prima 35 mm a proporre mirino ad altezza occhio con pentaprisma, anticipando l’impostazione “a cresta” che diventerà il profilo iconico delle reflex. L’impresa Rectaflex (fondata nel 1947 e chiusa nel 1955) legò dunque il proprio nome all’adozione pionieristica del pentaprisma nella fotografia di piccolo formato, aprendo la strada a un paradigma che la Contax S avrebbe reso standard nel mondo tedesco e che la Nikon F avrebbe portato nella dimensione del sistema modulare, con mirini intercambiabili e copertura del 100% del campo inquadrato.²³⁴

Il quadro storico, tuttavia, non è monolitico. In parallelo agli esperimenti su prisma e visione a livello occhio, si muove il contributo ungherese di Jenő Dulovits (1903–1972), padre della Gamma Duflex: una 35 mm “avanguardista” che già nel 1947–1949 esplora soluzioni come specchio a ritorno istantaneo e visione orizzontale non invertita, pur attraverso catene riflettenti differenti e produzione in numeri limitati. A riprova che la spinta a superare la mira a pozzetto fosse un’istanza diffusa in Europa, e che il pentaprisma non fu un lampo isolato bensì l’esito più robusto, industrialmente e otticamente, di una ricerca convergente.⁶⁷

Sul terreno strettamente tecnico, l’adozione del pentaprisma porta tre conseguenze decisive. La prima è la luminosità del mirino: grazie alla riflessione interna, la caduta di luce lungo il percorso è molto contenuta e l’immagine sullo schermo oculare appare brillante, con microcontrasto sufficiente per la messa a fuoco manuale anche a diaframmi intermedi. La seconda è la stabilità della collimazione: un blocco unico di vetro, correttamente cementato o lavorato, è meno sensibile a disallineamenti nel tempo e a dilatazioni differenziali rispetto a sistemi composti. La terza è la copertura: i corpi professionali a pentaprisma si sono storicamente spinti al 100% (cioè ciò che si vede coincide con ciò che si impressiona su pellicola o sensore), un traguardo più arduo con altre architetture. È per questi motivi che, anche nell’era digitale, le DSLR di fascia alta hanno mantenuto il pentaprisma, riservando ai modelli entry-level soluzioni più leggere ma meno performanti.⁴⁵

Dal punto di vista produttivo, il rovescio della medaglia è il costo: per ottenere superfici ottiche con angoli di lavorazione entro tolleranze che garantiscano coincidenza dell’asse ottico e percorso simmetrico dei raggi, occorrono attrezzature e controlli di qualità onerosi. Il peso non è trascurabile: un pentaprisma in BK7 con dimensioni compatibili con un mirino 24×36 può pesare alcune decine o centinaia di grammi, quantità percepibile nella bilancia ergonomica di un corpo macchina. È il compromesso classico tra purezza ottica e portabilità, che la storia ha risolto distinguendo nettamente le linee professionali (pentaprisma) dai corpi di primo accesso (altre soluzioni riflettenti). La traiettoria che va dalla Kine Exakta (prima SLR 35 mm prodotta in serie nel 1936, ancora a mira a pozzetto) alla Contax S (1949, con pentaprisma fisso) e quindi alla Nikon F (1959, con pentaprisma intercambiabile e un’ampia famiglia di mirini) racconta esattamente l’affermazione del pentaprisma come architettura regina del mirino ottico nelle reflex.¹³⁴

Il pentaspecchio nelle reflex: architettura, prestazioni e confronto tecnico con il pentaprisma

Se il pentaprisma incarna la soluzione “pura”, il pentaspecchio rappresenta l’interpretazione ingegneristicamente economica della stessa funzione: raddrizzare l’immagine e portarla all’oculare con una deviazione complessiva di 90°, ma senza un blocco di vetro monolitico. L’idea è apparentemente semplice: sostituire il solido unico con una casa leggera che ospita una combinazione di specchi piani (nelle versioni più diffuse tre superfici riflettenti, più le facce di ingresso e uscita dell’aria), disposti a riprodurre la medesima catena di riflessioni del prisma. In questo modo la massa si riduce drasticamente e i costi calano, perché si evitano le complesse lavorazioni ottiche su vetro massivo. L’adozione del pentaspecchio a tetto nelle reflex di fascia bassa e media è divenuta così una costante dalla fine del XX secolo fino all’epoca delle prime DSLR, quando la spinta alla leggerezza e al contenimento dei prezzi è stata determinante per allargare la base degli utenti della fotografia reflex.⁵⁸

La differenza sostanziale, però, non sta nella geometria del percorso, bensì nel modo in cui la luce viene riflessa. Nel pentaprisma, come detto, la riflessione interna totale garantisce un’efficienza straordinaria: i raggi, una volta entrati, restano “intrappolati” nelle superfici di vetro e subiscono riflessioni con perdita trascurabile. Nel pentaspecchio, al contrario, le riflessioni avvengono su superfici metalliche (alluminio, argento o rivestimenti dielettrici), con interfacce aria–specchio che introducono assorbimento e diffusione. A ogni rimbalzo la trasmissione luminosa cala più di quanto non accada nel pentaprisma; inoltre, la presenza di giunti, supporti e tolleranze di incollaggio può generare errori di allineamento che si trasformano in coma residuale, leggero astigmatismo di campo sulla figura di Airy percepita e microvignettature ai bordi del mirino. In termini pratici, il fotografo percepisce un mirino meno luminoso e meno contrastato, specie con aperture spinte o in condizioni di luce ambiente modesta.⁵⁸

Anche il parametro di copertura del mirino risente dell’architettura: corpi con pentaspecchio offrono spesso coperture dell’ordine del 95%, favorevoli a mantenere tolleranze produttive rilassate e a compensare piccoli disallineamenti meccanici tra schermo di messa a fuoco e finestra oculare. Con un pentaprisma di qualità, al contrario, raggiungere il 100% diventa più naturale perché l’elemento ottico unico mantiene con maggiore rigidità la relazione tra piano smerigliato e oculare. Questa differenza incide sulla precisione compositiva: il 5% di differenza può essere irrilevante per l’amatore, ma diventa fondamentale in fotografia editoriale, scientifica o architettonica, dove la cornice visiva deve coincidere con la cornice registrata.⁴

La comparazione non si esaurisce nella luminanza. La qualità del microdettaglio nel mirino, da cui dipende la sensazione di fuoco, è il risultato del prodotto tra luminosità, contrasto e pulizia del percorso (assenza di riflessi parassiti e ghost). Nel pentaspecchio, i film metallici hanno tipicamente spettri di riflessione con lievi dipendenze cromatiche e con coefficiente di riflessione inferiore a 1, così che la curva MTF percepita all’oculare si deprime sulle alte frequenze; non si tratta di differenze fotograficamente registrate sul negativo o sul sensore (poiché il mirino non è sulla catena di ripresa), ma di ergonomia visiva durante la messa a fuoco. Inoltre, i fronti aria–vetro supplementari implicano riflessioni di Fresnel aggiuntive, che si traducono in flare quando in campo entrano luci puntiformi fuori asse. In fabbrica, una parte di questi effetti si mitiga con verniciature assorbenti dei vani, trattamenti antiossidanti delle superfici specchianti e mascherature nere; resta però un gap strutturale rispetto alla resa “piena” del pentaprisma.⁵

Perché allora il pentaspecchio si è affermato così capillarmente? Perché ha democratizzato l’accesso alla reflex. Sostituendo il blocco di vetro con una gabbia di plastica o lega e specchi incollati, un costruttore elimina lavorazioni costose (taglio, lucidatura, cementatura, test interferometrici) e abbatte peso e ingombro nella calotta. Ciò consente corpi più compatti e leggeri, appetibili per il neofita e perfetti per kit “tuttofare”. In anni più recenti, l’esplosione del live view e dei mirini elettronici (EVF) ha attenuato l’importanza dell’esperienza ottica inquadrando, di fatto, il pentaspecchio come compromesso accettabile quando il mirino viene usato solo al sole o come supporto occasionale. In condizioni di interni o crepuscolo, però, il vantaggio del pentaprisma torna evidente all’occhio esperto, e questo spiega perché le DSLR professionali abbiano mantenuto il prisma fino al tramonto della generazione reflex.⁴

Sul piano storico-tecnologico, il confronto si lascia leggere anche attraverso i casi aziendali. La già citata Rectaflex fornisce l’esempio della prima SLR 35 mm con pentaprisma in produzione (azienda: 1947–1955), mentre la Contax S di Zeiss Ikon sancisce nel 1949 la “forma” moderna della reflex con pentaprisma fisso e attacco a vite M42 che diventerà uno standard diffuso. Più tardi, la Nikon F (1959) innesta su un pentaprisma intercambiabile un sistema di mirini specializzati, portando la visione ottica a un livello di coerenza modulare inedito per robustezza, ampiezza di copertura (100%) e qualità meccanica. Il percorso di Jenő Dulovits (1903–1972) con la Gamma Duflex (1947–1949, produzione limitata) completa il quadro europeo della ricerca di un mirino ad altezza occhio. In tutti questi itinerari, il pentaspecchio comparirà solo più tardi come soluzione per sistemi accessibili, confermando per contrasto che il pentaprisma è rimasto la misura di riferimento per luminosità, nitidezza percepita e affidabilità geometrica del mirino.¹²³⁴⁶⁷⁸

Soffermandosi sulle differenze operative, si può dire che il pentaprisma predilige il fotografo che lavora sul bordo del possibile del mirino ottico: macro a luce ambiente, teleobiettivi luminosi con focheggiatura manuale, riprese in teatro o reportage notturni dove la brillantezza oculare fa la differenza tra fuoco preso e fuoco mancato. Il pentaspecchio compie egregiamente il proprio dovere nel diurno, con grandangoli e zoom moderati, laddove la profondità di campo aiuta e il mirino funge più da finestra di controllo che da strumento di messa a fuoco critica. Il fatto che i due componenti realizzino la medesima funzione progettuale nasconde, dunque, una diversa filosofia di resa: nel pentaprisma domina la fedeltà luminosa e la coerenza geometrica del blocco unico; nel pentaspecchio prevalgono leggerezza, costo, manutenibilità, accettando compromessi percettivi che il fotografo impara a conoscere e governare.⁵⁸

Fonti

  1. Pentaprisma – Wikipedia (sezione fotografia e principi ottici): <https://it.wikipedia.org/wiki/Pentaprisma>
  2. Rectaflex – Wikipedia (fondazione 1947, chiusura 1955; priorità del pentaprisma in SLR 35 mm): <https://it.wikipedia.org/wiki/Rectaflex>
  3. Contax S – Camera-Wiki (introduzione 1949; pentaprisma fisso): <https://camera-wiki.org/wiki/Contax_S> — Science Museum Group (scheda collezione, lancio 1949): <https://collection.sciencemuseumgroup.org.uk/objects/co8210865/contax-s-camera>
  4. Nikon F – Nital (mirino pentaprisma intercambiabile, copertura 100%, 1959): <https://www.nital.it/historical/f.php> — Wikipedia (contesto storico e sistema): <https://it.wikipedia.org/wiki/Nikon_F>
  5. Pentaspecchio – Wikipedia (definizione, architettura “a tetto”, uso in fascia bassa/media): <https://it.wikipedia.org/wiki/Pentaspecchio>
  6. Dulovits Jenő – Wikipedia (nascita 1903, morte 1972; invenzioni e Duflex): <https://hu.wikipedia.org/wiki/Dulovits_Jen%C5%91>
  7. Gamma Duflex – filmphotography.eu (storia, prototipi 1944, produzione 1948–1950): <https://filmphotography.eu/en/gamma-duflex/>
  8. Kine Exakta – Wikipedia (prima SLR 35 mm 1936; mira a pozzetto): <https://en.wikipedia.org/wiki/Kine_Exakta>

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