mercoledì, 29 Ottobre 2025
0,00 EUR

Nessun prodotto nel carrello.

La macchina fotograficaFotocamere a telemetro (Rangefinder)

Fotocamere a telemetro (Rangefinder)

Quando si parla di fotocamere a telemetro—in inglese rangefinder—si fa riferimento a corpi macchina dotati di un dispositivo di misurazione della distanza basato sulla triangolazione ottica. In pratica, l’operatore osserva nel mirino una doppia immagine del soggetto: ruotando la ghiera di messa a fuoco, le due immagini scorrono fino a sovrapporsi; nel momento in cui coincidono, l’obiettivo è a fuoco alla distanza corretta. Questo principio, detto coincidence rangefinder, è stato adottato in fotografia dopo essere maturato in ambito topografico e militare, ed è rimasto per decenni una soluzione di riferimento per la messa a fuoco manuale rapida e precisa, soprattutto con focali corte e in luce scarsa.

Nei sistemi fotografici il telemetro può essere accoppiato (la misura della distanza è trasmessa meccanicamente alla camma dell’obiettivo) o non accoppiato (si legge la distanza sul telemetro e la si riporta manualmente sulla ghiera dei metri dell’obiettivo). Nei modelli più evoluti il telemetro è integrato nel mirino: rispetto agli esordi con finestre separate (una per il telemetro e una per l’inquadratura), l’unificazione ha reso la messa a fuoco e la composizione più rapide, evitando il passaggio occhio-occhio tra due oculari differenti.

Dal punto di vista ottico‑meccanico, un telemetro coincide è un triangolo: i due vertici anteriori corrispondono alle finestre del telemetro sul frontale della fotocamera, mentre il terzo vertice è l’oggetto osservato. La lunghezza di base (base length) è la distanza fra le due finestre ed è direttamente proporzionale alla sensibilità del sistema: a parità di mirino, una base più lunga genera uno spostamento angolare maggiore della patch di telemetro per una stessa variazione di distanza, facilitando microriallineamenti e quindi maggiore precisione di fuoco. In letteratura si usa spesso la grandezza EBL – Effective Base Length = Base × ingrandimento del mirino: è un indice sintetico della “forza” del telemetro nel discriminare piccole differenze di fuoco. È la ragione per cui corpi con mirino ad alto ingrandimento e base lunga (classicamente alcune Leica M) risultano particolarmente adatti a focali lunghe o grandi aperture.

Un’altra caratteristica intrinseca è la parallasse: il mirino non guarda esattamente attraverso l’obiettivo, bensì da un punto spostato (tipicamente in alto a sinistra). Avvicinandosi al soggetto, l’angolo di vista del mirino si discosta di più da quello della lente; i costruttori hanno introdotto cornici luminose (framelines) con correzione di parallasse che traslano nel mirino al variare della distanza di messa a fuoco, oppure marcature alternative per le brevi distanze. Si tratta di una compensazione molto efficace per la composizione, mentre la messa a fuoco resta precisa perché il telemetro misura la distanza indipendentemente dall’asse dell’obiettivo.

Le fotocamere a telemetro presentano vantaggi pratici distinti. Non avendo uno specchio mobile (come nelle SLR), sono silenziose e a bassa vibrazione; l’oscuramento del mirino durante lo scatto è nullo, così il fotografo mantiene la visione continua della scena. Con ottiche grandangolari la messa a fuoco a telemetro è spesso più rapida rispetto allo stigmometro su vetro smerigliato, soprattutto in luce scarsa; e molte ottiche RF sono straordinariamente compatte perché non devono “retrofocusare” per retroare lo specchio. I limiti emergono con teleobiettivi lunghi o macro ravvicinata, dove l’accuratezza richiesta cresce oltre le possibilità di EBL modesti e la parallasse residua diventa penalizzante; per questi ambiti le reflex, e oggi le mirrorless con mirino elettronico, restano preferibili.

Nel corso del Novecento i rangefinder hanno coperto tutti i formati, dal 35 mm al medio e grande formato (celebre l’uso su fotocamere a soffietto e da stampa), ma l’immaginario comune li associa al 35 mm e ai grandi nomi del fotogiornalismo. I meccanismi di accoppiamento variano: camme a profilo lineare (Leica M), elicoidi nel corpo con doppia baionetta (Contax/Nikon), leve esterne o organi di rinvio. Questi dettagli costruttivi, apparentemente minori, definiscono l’ergonomia, le cornici automatiche in base alla focale, la precisione del coupling e l’affidabilità nel tempo.

La persistenza del telemetro in piena era digitale si spiega con la sua cultura d’uso: pre‑visualizzazione, stima della profondità di campo sulle scale incise, costruzione dell’immagine in un mirino che mostra più dell’area inquadrata (utile per anticipare l’azione ai bordi), riduzione degli ingombri. Anche quando non si tratta di telemetri veri e propri, alcuni sistemi moderni hanno recuperato la logica del mirino a visione diretta (si vedrà più avanti il caso dei mirini ibridi). Ma per capire perché si è arrivati a questa forma così compiuta, occorre ripercorrere brevemente le origini.

Origini storiche

La storia del telemetro affonda le radici ben prima della fotografia. Nel 1769 James Watt descrive un primo telemeter per misurazioni topografiche; nel 1778 Georg Friedrich Brander introduce un telemetro a coincidenza, in cui due immagini vengono fatte combaciare regolando prismi o specchi: lo stesso principio concettuale sfruttato più tardi nelle fotocamere. Nell’Ottocento i telemetri conoscono grande diffusione in ambito militare e navale, con varianti stereoscopiche e a base lunghissima.

In fotografia, i primi rangefinder ausiliari compaiono come accessori da slitta sui corpi a fuoco manuale; la vera svolta arriva quando il telemetro viene incorporato e, soprattutto, accoppiato alla meccanica dell’obiettivo. Una pietra miliare precoce è la 3A Kodak Autographic Special del 1916, tra le prime fotocamere commerciali con telemetro accoppiato. L’affermazione del piccolo formato 35 mm a fini still è però legata a Oskar Barnack (nato il 1 novembre 1879 a Lynow e morto il 16 gennaio 1936 a Bad Nauheim), che fra il 1913 e il 1914 realizza la Ur‑Leica e convince Ernst Leitz II a produrre in serie un apparecchio compatto che usa pellicola cinematografica 35 mm scorri‑orizzontale, definendo il formato 24×36 mm. La Leica I viene presentata nel 1925 a Lipsia, e in pochi anni trasforma il mercato.

Il telemetro inizialmente non è integrato: sulla Leica I il fuoco è a scala, con eventuale rangefinder esterno. La cesura avviene nel 1932 con la Leica II (Model D), prima Leica con telemetro accoppiato—seppure con finestra separata dal mirino—e con l’introduzione della baionetta Contax sulla rivale Zeiss Ikon Contax I, anch’essa del 1932. La Contax percorre una strada radicalmente diversa: corpo pressofuso, otturatore a lamelle metalliche a scorrimento verticale con tempi fino a 1/1250 s, baionetta interna collegata a un elicoide nel corpo per le ottiche standard e baionetta esterna per grandangoli e tele, base di telemetro molto lunga. L’obiettivo è esplicito: superare tecnicamente le soluzioni Leitz, puntando su robustezza, velocità di cambio ottiche e precisione di messa a fuoco.

La ricerca converge nel mirino combinato: nel 1936 la Contax II unisce in un’unica finestra mirino e telemetro, facilitando la sequenza messa a fuoco‑inquadratura. Negli stessi anni, il successo della Leica spinge produttori europei e americani a proporre 35 mm con telemetro integrato, fra cui la Kodak 35 Rangefinder (progetto avviato nel 1940, produzione fino al 1951), una curiosa evoluzione della Kodak 35 con organi di rinvio esterni per l’accoppiamento.

Sul fronte giapponese prende forma un’altra storia destinata a pesare sulla diffusione del telemetro. La Hansa Canon, commercializzata nel febbraio 1936 dalla Seiki Kōgaku (futura Canon), è la prima 35 mm giapponese di alta qualità: monta un Nikkor 5 cm f/3,5, con ottiche e gruppo telemetrico forniti da Nippon Kogaku (poi Nikon). Si tratta di un sistema a baionetta con accoppiamento studiato per evitare conflitti brevettuali con Leitz e Zeiss; il nome “Hansa” viene dal distributore Omiya Photo Supply.

Il secondo dopoguerra vede l’irruzione di Nippon Kogaku con la Nikon I (1948), seguita dalla Nikon M (1949) e dalla Nikon S (1951): architettura ispirata alla Contax (baionetta S‑mount a doppia baionetta), ma con otturatore in tela di derivazione Leica e un formato iniziale 24×32 mm che crea problemi di esportazione verso gli USA; la M passa a 24×34 mm e la S aggiunge la sincro‑flash. La notorietà internazionale esplode quando i fotoreporter di Life elogiano la resa dei Nikkor, in particolare l’85 mm f/2: la reputazione delle ottiche giapponesi cambia per sempre.

Così, alle soglie degli anni Cinquanta, il telemetro è una tecnologia matura, con scuole tedesche e giapponesi che convergono e competono: la prima punterà sull’integrazione perfetta di mirino‑telemetro e meccanica; la seconda sulla industrializzazione di sistemi completi e ottiche brillanti a costo competitivo. Il passo successivo sarà una rivoluzione ergonomica che molti considerano l’apice del telemetro 35 mm.

Evoluzione tecnologica

Il punto di non ritorno arriva nel 1954 con la Leica M3. È la prima della nuova serie M (da Messsucher, “mirino‑telemetro”), introduce la baionetta M‑mount, un mirino unico ad altissimo ingrandimento (0,91×) con cornici luminose per 50/90/135 mm e compensazione automatica della parallasse, più un avanzamento a leva e uno sportellino posteriore per facilitare il caricamento rispetto al classico bottom‑loading. Il successo è enorme: oltre 220.000 esemplari prodotti fino al 1967 e una piattaforma che diventa canone per il telemetro 35 mm.

Negli stessi anni prosegue l’evoluzione “parallela” di scuola Zeiss/Nikon. I corpi Contax mantengono la filosofia del telemetro a lunga base e del metallo verticale; i sistemi Nikon S consolidano la baionetta S‑mount e una linea di Nikkor sempre più rispettata. Intanto la Canon affina i suoi rangefinder LTM e poi M‑mount, fino ai modelli con esposimetro accoppiato degli anni Sessanta. Ma l’onda della reflex cresce: la visione TTL attraverso l’obiettivo risolve alla radice la parallasse, abilita la macro e i tele lunghi con precisione, e negli anni Settanta sottrae la gran parte del mercato alle fotocamere a telemetro.

Eppure il telemetro non scompare. Alla fine degli anni Novanta Cosina rilancia il marchio Voigtländer con la famiglia Bessa (dal 1999 al 2015): corpi leggeri, economici ma ben progettati, con varianti LTM e M‑mount, mirini ottimizzati per grandangoli (R4) o per l’uso a 1,0× (R3), e—sui modelli “A”—priorità di diaframma. È una vera rinascita del telemetro, che rende di nuovo accessibile il sistema a una generazione di fotografi cresciuta con autofocus e SLR.

Nel 1999 Konica presenta la Hexar RF, una M‑mount moderna con otturatore metallico 1/4000 s, avanzamento motorizzato, AE con AEL e caricamento posteriore: una sintesi “ibrida” che innesta sull’ergonomia RF alcune comodità elettroniche; Konica affianca anche una gamma M‑Hexanon di qualità.

Nel 2004 Carl Zeiss rientra in scena con la Zeiss Ikon (prodotta da Cosina), una M‑mount con mirino 0,74× e base effettiva generosa, pensata per sfruttare al meglio le ottiche ZM. Sebbene la produzione finisca nel 2012, il corpo resta per molti un’alternativa “moderna” all’M a pellicola.

Sul fronte digitale la svolta è la Epson R‑D1 (2004): primo telemetro digitale al mondo, con innesto M e sensore APS‑C. Mantiene la meccanica analogica (si arma la tendina con una leva) e adotta un mirino 1,0× con cornici selezionabili, inaugurando un filone che pochi hanno percorso ma che ha segnato la storia.

Leica risponde nel 2006 con la M8, prima M digitale, sensore 18×27 mm (fattore 1,33×), mirino 0,68× con framelines parallax‑corrected e workflow DNG. Il passaggio al digitale mantiene l’esperienza telemetro intatta, ma introduce nuove logiche (codifica 6‑bit delle lenti, microlenti differenziate per l’angolo di incidenza).

In parallelo, alcuni costruttori propongono mirini ibridi: la Fujifilm X‑Pro1 (2012) adotta un sistema che consente di alternare OVF (ottico a visione diretta con cornici e correzioni) e EVF (elettronico), includendo funzioni come la Corrected AF Frame per compensare la parallasse nel fuoco automatico. Non è un telemetro meccanico, ma riprende la filosofia di inquadrare fuori dall’ottica con un overlay informativo.

Il risultato di questo percorso è un “ecosistema” di soluzioni che vanno dal telemetro puro analogico alle reinterpretazioni digitali, con un filo rosso: mirini che favoriscono la relazione diretta con la scena, l’essenzialità del controllo, e un gesto fotografico costruito su attenzione, tempi e pre‑visualizzazione.

Caratteristiche principali

Un corpo a telemetro è, dal punto di vista funzionale, l’integrazione di tre sottosistemi: otturatore, mirino‑telemetro, accoppiamento di fuoco. Il cuore è la coppia di finestre frontali; la luce raccolta viene deviata da prismi e specchi verso l’oculare, dove si forma la patch centrale di doppia immagine. Ruotando la camma di messa a fuoco dell’obiettivo, un leveraggio muove uno degli elementi ottici del telemetro, e la doppia immagine scorre orizzontalmente (o si divide a lama nei sistemi split‑image meno diffusi in ambito fotografico moderno) fino alla coincidenza. La natura triangolare del sistema implica che lo spostamento della patch dipende dalla lunghezza di base e dall’ingrandimento del mirino; da qui l’importanza dell’EBL come misura di progetto.

Un esempio concreto aiuta: la Leica M3 ha base telemetro di 68,5 mm e ingrandimento 0,91×, quindi un’EBL di circa 62 mm—valore elevato per un 35 mm—che si traduce in elevatissima precisione con 50/90/135 mm e con aperture ampie (per questo la M3 è storicamente apprezzata con i 50 mm luminosi). La differenza di EBL rispetto a corpi con mirini a 0,58×/0,72× si avverte subito nella microregolazione della patch, specie con tele e f/1,4 o f/2.

Le cornici luminose (framelines) svolgono due compiti: indicare il campo inquadrato per la focale montata e compensare la parallasse. Nei rangefinder classici le cornici sono “proiettate” nel mirino e si spostano leggermente in basso‑a‑destra man mano che si mette a fuoco vicino, per riflettere lo scostamento tra asse ottico e asse del mirino; in altri casi non si muovono, ma il mirino mostra linee alternative per le brevi distanze. Quando si lavora con mirini ibridi (come su X‑Pro1), un algoritmo applica una correzione all’AF frame per riflettere la parallasse residua tipica dell’OVF.

L’accoppiamento tra obiettivo e telemetro può avvenire tramite una cam di profilo definito (Leica M), tramite l’elicoide nel corpo (Contax/Nikon S), o mediante leve e rampe esterne (alcuni 35 mm americani come la Kodak 35 RF, dove si notano organi di rinvio “aggiunti” su un progetto preesistente). Queste scelte incidono sui tolleranze meccaniche e quindi sull’accuratezza della messa a fuoco lungo tutta la corsa; non a caso i sistemi con base lunga e meccanica curata sono quelli in grado di sfruttare ottiche più esigenti senza ricorrere a stigmometri o live view.

Un capitolo a parte riguarda gli otturatori. Nella linea Leica storica prevale l’otturatore a tendina in tela a scorrimento orizzontale, silenzioso e dolce; Zeiss (Contax) scelse fin dagli anni Trenta un otturatore metallico verticale a lamelle che raggiungeva tempi 1/1250 s già con la Contax I, evitando il rischio di bruciature delle tele in controluce. Nella modernità, corpi come Hexar RF hanno adottato metallo verticale 1/4000 s con sincronizzazione 1/125 s, mentre la M8 introduce un metal‑focal plane 1/8000 s e logiche digitali (es. codifica lenti). Queste scelte determinano rumorosità, vibrazione e compatibilità con flash.

Il mirino è parte dell’esperienza: un 0,91× come sulla M3 privilegia la luminosità e la precisione su 50/90/135 mm; gli 0,72×/0,70× sono compromessi più universali; valori 0,58×/0,60× facilitano la visione con 28 mm senza ricorrere a mirini esterni ma riducono l’EBL, con effetti sulla “tiratura” del fuoco su tele e aperture spinte. Prodotti come Zeiss Ikon hanno scelto 0,74× con base effettiva corposa e framelines per 28/35/50/85; Hexar RF ha 0,60× e un mirino molto grande per i grandangoli, ma richiede più attenzione con i 90/135.

Infine, il tema parallasse: per quanto la correzione delle cornici aiuti la composizione, la parallasse non incide sulla messa a fuoco perché il telemetro misura distanza; tuttavia, in close‑up spinto, l’offset geometrico può portare a porzioni di soggetto tagliate o a composizioni diverse da quanto previsto in mirino. Qui si capisce perché i rangefinder siano perfetti per reportage, street, travel, paesaggio e ritratto ambientato, mentre macro, riproduzione e tele prolungati restano terreno più congeniale a SLR/mirrorless.

Utilizzi e impatto nella fotografia

La storia della fotografia del Novecento deve ai telemetri un modo di stare nella scena. L’assenza di blackout allo scatto mantiene il contatto visivo col soggetto; la compattezza e il silenzio invitano a distanze più ravvicinate e a tempi di reazione estremamente rapidi. Nei decenni centrali del secolo, quando i quotidiani e i magazine illustrati dettano il ritmo editoriale, il fotoreporter cerca affidabilità, invisibilità, tempi rapidi: una Leica o una Contax appendono al collo ore di lavoro senza affaticare; una Nikon S/SP aggiunge un mirino estremamente informativo e—con gli accessori adeguati—anche motorizzazione. In sala prove o a teatro, dove l’ultima cosa desiderabile è il rumore di uno specchio, l’otturatore di una M suggerisce la discrezione dell’ospite perfetto. Il riquadro ampio che mostra oltre i bordi prepara allo scatto anticipato; l’atto di fuoco, con la coincidenza delle immagini, è un gesto muscolare che diventa memoria procedurale in pochi giorni di pratica.

Sul piano linguistico, l’innesto delle telemetriche nella fotografia di relazione—dalle strade di città alle trincee dell’attualità—permette di lavorare vicino ai soggetti con grandangoli corretti e normali luminosi, prediligendo profondità di campo moderate e tempi rapidi. In termini pratici: un 35/2 o un 50/1.4 su un corpo silenzioso e discreto consentono di gestire la luce ambiente senza ricorrere al flash, preservando atmosfera e continuità narrativa. Nello still‑life e nel ritratto da studio, dove la visione TTL facilita la valutazione dei filtri e della profondità di campo, la telemetrica è meno intuitiva; tuttavia, combinata con ottiche come i 90 mm compatti, produce ritratti dal microcontrasto e dalla transizione tonale che hanno fatto scuola su pellicola.

La presenza, nelle Leica M3 e derivate, di mirini ad alta magnificazione torna utile con tele medio‑corti e aperture spinte. Corpi a ingrandimento più basso (0,58–0,72×) privilegiano invece l’uso di grandangoli e l’inquadratura rapida in spazi ristretti. La scelta della versione non è solo una questione di gusti: è progettare il proprio workflow attorno alle focali preferite. L’evoluzione giapponese porta un approccio più funzionale: Nikon SP (1957) consolida nel mirino tutto ciò che serve fino a 28 mm; Canon aggiorna progressivamente mirini ed esposimetri fino ai modelli P e 7, aprendo l’uso a 50/0.95 su attacco specifico. È importante ricordare che, con la Leica M3 (1954), l’innesto M sancisce una compatibilità di lungo periodo che consente ai fotografi di costruire un corredo intergenerazionale: ottiche degli anni ’60 possono lavorare su corpi attuali e viceversa, con tutte le cautele dovute a spessori camme e camminamenti.

La telemetrica ha anche inciso sul design ottico. Senza specchio, il retrofoco può avvicinarsi molto al piano pellicola, favorendo progetti simmetrici con bassa distorsione e incidenza angolare accentuata sui raggi periferici. Questo comporta, su pellicola, vantaggi netti; in digitale, la micro‑lente e la copertina del sensore devono talvolta compensare l’angolo di incidenza per evitare color shift ai bordi con grandangoli storici, ma questo esula dall’epoca classica del telemetro. Laddove la SLR ha conquistato il professionista—sport, fauna, macro—il telemetro è rimasto strumento principe per documentazione, viaggio, street, teatro e per chi vuole una gestualità essenziale. Non è casuale che, a fine anni Novanta, Cosina rimetta in circolazione un ecosistema completo e che Konica e Epson riportino il telemetro sul tavolo del progettista: si riconosce all’interfaccia telemetrica il potere di educare allo sguardo, imponendo predizione e ascolto della scena più che reazione alla stessa.

Curiosità e modelli iconici

Quando si parla di icone telemetriche, la conversazione spesso comincia con la Leica M3 (1954). Il nome M—dalla tedesca Messsucher, “misuratore di distanza”—segnala già l’unità mirino‑telemetro; l’innesto M introduce il baionettaggio rapido, le cornici luminose mostrano 50/90/135 e l’ingrandimento 0,91× regala un’immagine quasi a grandezza naturale. La combinazione di meccanica d’alta precisione, silenzio, fluidità della leva e mirino fa della M3 un benchmark tecnico e percettivo; non stupisce che si parli di oltre 220.000 esemplari prodotti fino al 1966–67. Modellare il gesto su una M3 significa imparare una grammatica di scatto che resta moderna.

Sul versante Zeiss, la Contax II (1936) è il corpo che per primo porta mirino e telemetro nella stessa finestra, abbinandoli a un otturatore metallico verticale e a una base telemetrica lunga: un mix che affascina i professionisti dell’anteguerra e stabilisce gli standard per l’epoca. Le ottiche Sonnar 50/1.5 e Biogon diventano leggende a sé, mentre la baionetta Contax—con elicoide nel corpo per le ottiche standard—offre una coerenza ergonomica peculiare. L’impronta Contax sopravvive nel dopoguerra e influenza direttamente i progetti giapponesi, fino ai Nikon a telemetro che ereditano la filosofia di montaggio adattandola con la tendina in tela per semplificazione e affidabilità di produzione.

Tra le giapponesi, la Nikon SP (1957) spicca per il mirino‑universo: cornici proiettate per 50, 85, 105, 135 e un riquadro separato per 28 mm, con predisposizione al motore e un’ergonomia studiata per il professionista. A livello di “oggetti del desiderio”, a cavallo fra anni ’50 e ’60 si collocano anche varie Canon a vite e poi a baionetta LTM/M‑compatibile, culminando con corpi come Canon P e 7 che ampliano misurazione e mirini e supportano ottiche ultraluminose. Ognuno di questi sistemi porta una visione: per Nikon, quella di una telemetrica attrezzata allo stesso modo di una reflex sul piano informativo; per Canon, quella di una democratizzazione delle funzioni avanzate.

Il rinascimento di fine Novecento aggiunge capitoli sorprendenti. Le Voigtländer Bessa (dal 1999)—prima in M39, poi in M‑mount—portano esposimetri TTL, otturatori 1/2000 s, cornici ottimizzate per grandangoli e, soprattutto, un parco ottiche VM nuovo: 12 mm, 15 mm, 21 mm compatti e corretti, fino a normali e tele di ottima resa, a costi accessibili. La filosofia è chiara: rendere di nuovo praticabile l’esperienza telemetrica a una generazione che l’aveva solo letta sui libri.

La Konica Hexar RF (1999) è, a sua volta, un unicum: mantiene la misurazione accoppiata, un mirino a 0,60× con cornici per 28/35/50/75/90/135, priorità di diaframma, tempi fino a 1/4000 s, motore 2,5 fps e una costruzione metallica con top e bottom in titanio. La scelta di portare la AE su un M‑mount anticipa una convergenza che diventerà poi standard su alcune M elettroniche; il corpo è compatibile con la gran parte delle ottiche M, e il kit di ottiche M‑Hexanon si fa apprezzare per qualità e maneggevolezza.

Il passo successivo, a metà anni 2000, è digitale. Con la Epson R‑D1 (2004) nasce la prima telemetrica digitale mai commercializzata: M‑mount, APS‑C 6,1 MP CCD, 1/125 s di sincro, mirino 1,0× e—soprattutto—un’interfaccia analogica con leva di carica, quadranti a lancetta per ISO, qualità e WB. È un oggetto ponte fra mondi: consente di usare ottiche M storiche su un corpo digitale, mantenendo la gestualità di una telemetrica a pellicola. Pochi anni dopo, la trasposizione digitale dell’universo M verrà completata in casa Leica, ma l’R‑D1 resta un tassello fondativo.

Fra le curiosità storiche, vale la pena ribadire alcune date “fondanti” che ogni storico della fotografia dovrebbe conoscere. Oskar Barnack nasce nel 1879 e muore nel 1936, ed è colui che, in seno alla Ernst Leitz di Wetzlar, concepisce la Ur‑Leica e il principio del 24×36 mm trasportando la pellicola orizzontalmente. La Leica I debutta al pubblico nel 1925, la Leica II porta il telemetro accoppiato nel 1932, la Contax II unifica mirino e telemetro nel 1936, la Leica M3 ridisegna il paradigma nel 1954. Canon nasce come laboratorio nel 1933 e mette in vendita la Hansa Canon nel 1936, Nikon sbarca nel 1948 con la Nikon I e afferma l’SP nel 1957. A fine Novecento, Cosina/Voigtländer rimescola le carte dal 1999, Konica lancia la Hexar RF (1999) e Epson introduce l’R‑D1 (2004). Una linea del tempo che, più che elencare modelli, racconta idee: il telemetro come interfaccia fra occhio, mano e mondo.

Fonti 

Curiosità Fotografiche

Articoli più letti

FATIF (Fabbrica Articoli Tecnici Industriali Fotografici)

La Fabbrica Articoli Tecnici Industriali Fotografici (FATIF) rappresenta un capitolo fondamentale...

Otturatore a Tendine Metalliche con Scorrimento Orizzontale

L'evoluzione degli otturatori a tendine metalliche con scorrimento orizzontale...

La fotografia e la memoria: il potere delle immagini nel preservare il passato

L’idea di conservare il passato attraverso le immagini ha...

La Camera Obscura

La camera obscura, o camera oscura, è un dispositivo ottico che ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della scienza e della fotografia. Basata sul principio dell’inversione dell’immagine attraverso un piccolo foro o una lente, è stata studiata da filosofi, scienziati e artisti dal Medioevo al XIX secolo, contribuendo all’evoluzione degli strumenti ottici e alla rappresentazione visiva. Questo approfondimento illustra la sua storia, i principi tecnici e le trasformazioni che ne hanno fatto un precursore della fotografia moderna.

L’invenzione delle macchine fotografiche

Come già accennato, le prime macchine fotografiche utilizzate da...

La pellicola fotografica: come è fatta e come si produce

Acolta questo articolo: La pellicola fotografica ha rappresentato per oltre...

Il pittorialismo: quando la fotografia voleva essere arte

Il pittorialismo rappresenta una delle tappe più affascinanti e...
spot_img

Ti potrebbero interessare

Naviga tra le categorie del sito