Ugo Mulas nacque il 28 agosto 1928 a Pozzolengo, nella provincia di Brescia. Cresciuto in un contesto familiare umile, frequentò il liceo classico a Desenzano, dove si diplomò con la maturità. Nel 1948 si trasferì a Milano per iscriversi a Giurisprudenza, ma l’amore per l’arte lo spinse a frequentare corsi serali di nudo all’Accademia di Belle Arti di Brera . Pur lontano dal completare gli studi legali, mantenne un legame con Milano essendo, sempre da studente, tutor per vivere. Dopo un’intensa attività professionale, Mulas morì il 2 marzo 1973 nel suo studio di Milano, a soli 44 anni, a causa di un tumore diagnosticato nel 1970. Poco dopo la sua scomparsa, vennero pubblicati “La fotografia” (Einaudi) e aperte numerose retrospettive (qui il sito istituzionale).
Vita e Formazione Artistica
La formazione di Mulas fu un equilibrio tra l’autodidattismo e l’immersione nei circoli intellettuali milanesi del dopoguerra. Frequentò il celebre Bar Jamaica fin dal 1951-52, incontrando artisti, poeti, scrittori e intellettuali. Questi ambienti gli offrirono la materia prima su cui sviluppare la sua sensibilità fotografica: non trascurava né l’aspetto estetico né l’approfondimento antropologico e psicologico dei soggetti. Dal 1953 in poi, iniziò a fotografare le periferie milanesi, le sale d’attesa della Stazione Centrale, i bar, spesso in composizioni che privilegiavano gesti minimi e momenti fugaci . Le sue immagini non erano semplici reportage neorealisti, ma tentativi di “metafotografare” l’atto del fotografare stesso, muovendosi tra documentazione e riflessione sulla natura del mezzo .
Nel 1954, Mulas fece il suo debutto professionale come fotografo ufficiale della Biennale di Venezia, incarico che mantenne fino al 1972. L’anno dopo aprì il suo primo studio milanese e avviò collaborazioni stabili con testate come Italian Illustration, Settimo Giorno, Domus, Vogue, Rivista Pirelli e Novità.. Operò in parallelo nel mondo industriale, pubblicitario e della moda, lavorando su commissione per aziende come Pirelli e Olivetti.
Già nel biennio 1959-62, prese parte a progetti culturali di rilievo: in Florence scoprì Veruschka, che avrebbe avuto un ruolo chiave nel rinnovamento dei canoni della fotografia di moda. Poi, durante il Festival di Spoleto (1962), lavorò con le sculture di Alexander Calder, David Smith e Arnaldo Pomodoro, inaugurando un rapporto professionale e personale con artisti che incideranno profondamente sul suo universo visivo.
Tecniche, strumenti e sperimentazioni
Dal punto di vista tecnico, Mulas era un perfezionista del laboratorio e della camera oscura. Iniziò a sviluppare personalmente le sue stampe già dalla metà degli anni ’50, imponendosi come modello di controllo dell’intero processo produttivo. Utilizzò sistematicamente il formato medio, comunemente 6×6 su pellicola B/N, pur non disdegnando le fotocamere 35 mm per la spontaneità necessaria ai suoi scatti urbani e d’artista.
In termini di stampa, spesso stampava ingrandimenti multipli di sequenze, o l’intero negativo a contatto, creando composizioni che mettevano in frame la gestualità dell’artista e la narrazione dell’opera. Le stampe erano realizzate su carte barytate pesanti, per un contrasto marcato e un neri profondi: tecniche come la solarizzazione controllata e le variazioni nella temperatura di sviluppo erano da lui impiegate per ottenere ambientazioni emotivamente dense, con chiaroscuri architettonici e volti drammatici .
Negli anni Sessanta, l’influenza della fotografia americana sperimentale, espressa da Robert Frank, Lee Friedlander e la scena Pop, lo portò a superare l’impostazione rigidamente neorealista verso esiti più documentari, ambientali e concettuali. Ricordano questo passaggio le sequenze su Marcel Duchamp, su “Verifiche” e l’Archivio per Milano, dove la città è vista non tanto come soggetto, quanto come struttura portante anonima, da decostruire con la fotografia.
Il New York Art Scene (1964–67)
Nel 1964, durante la Biennale, entrò in contatto con Alan Solomon, curatore del Padiglione USA, e con Leo Castelli, figura centrale della Pop Art. Da lì nacquero tre viaggi a New York (1964, 1965, 1967). Ne scaturì il celebre volume e mostra New York: The New Art Scene (1957), uno dei suoi lavori più celebri. Le immagini riprendono Rauschenberg, Johns, Newman, Lichtenstein, Warhol, Calder, Duchamp e la vita nei loro studi, spesso ambientate tra cavi, tele strappate, supporti instabili, e gesti creativi catturati in tempo reale.
Nel suo approccio a quegli ambienti, Mulas utilizzò in pieno la luce esistente integrata con flash corti, per preservare texture, rugosità, impronte di pennello e materiali. Il timing delle pose nei ritratti era enfatizzato attraverso l’uso di otturatore a tendina lenta, consentendo un lieve mosso che aggiungeva tensione. La stretta collaborazione con i soggetti portava a scatti ambientali, dove il confine tra ritratto e reportage scompariva.
Ebbe una specifica vena per i contact-sheet: li ingrandiva interamente e li esponeva come sequenze, rimarcando la fotografia come processo di scelta: scatto, selezione, sviluppo, stampa. Un’esposizione di questi contatti si tenne alla Leo Castelli Gallery .
Opere principali
Nei quindici anni di attività Mulas produsse diverse opere diventate simbolo della sua poetica. Tra queste:
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New York: The New Art Scene (1967): testo di Alan Solomon, protagonisti gli artisti Pop e astratti. Il montaggio delle sequenze enfatizza la dimensione performativa della creazione artistica .
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Calder (1971): pubblicato con Harvard Arnason, include ritratti ambientati nei laboratori e negli spazi aperti di Calder, consegnando l’artista in relazione con la scala, il materiale e il movimento.
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La fotografia (1973): raccolta esaustiva scritta e fotografica dove Mulas espone le sue teorie sul linguaggio fotografico, intervallate a sequenze visive di opere e autori .
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Vent’anni di Biennale, 1954–1972 (1988 postumo): documentazione ragionata di quasi due decenni di Biennale.
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David Smith in Italy (postumo, 1997): oltre l’Italia, personale del rapporto tra fotografo e scultore..
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Verifiche (1968–72): progetto sperimentale, ultimo ciclo sviluppato con solarizzazione e manipolazione profondamente concettuale, anticipatore di una riflessione meta-fotografica.
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Progetti minori ma rilevanti: “Ossi di seppia” (Montale, 1962) con rovesciamento di orizzontalità e verticalità, reinterpretazione poetica della materia; “Archivio per Milano” (1970) con documentazione del margine urbano.
Attività teatrali e sperimentazioni estetiche
Dalla fine degli anni Sessanta Mulas si avvicinò al teatro, documentando produzioni per la Piccola Scala di Milano e il Teatro Comunale di Bologna. Qui il suo sguardo mise in risalto dimensioni sceniche del corpo, scenografia, interazione tra luce e spazio. Non si limitò a ruoli di documentarista; fu parte attiva nella strutturazione visiva delle messinscena, spesso sovrapponendo nei suoi scatti elementi plastici e installativi all’interno di contesti scenici sospesi.
Parallelamente sperimentò intensamente: lavorò sul chiaroscuro fotografico, su sezioni in ombra e sezioni in luce, usò nebbie, ombre proiettate e specchi negli scatti di moda e arte. Negli scatti per realtà come Vogue Uomo, inserì artisti come Boetti, Pascali e Sottsass, trattandoli più come soggetto d’arte che come volto di moda. Questo approccio postmoderno tendeva a dissolvere i confini tra forma estetica e concetto.
Ultimi anni e progetto “Verifiche”
Nel 1970, colpito dal cancro, riconcentrò il suo lavoro sul progetto La Verifiche, dedicato a indagare il carattere riflessivo e speculativo della fotografia stessa . Il nome stesso sottolinea la necessità di verificare il mezzo, i processi, e il rapporto tra scatto e visione: Mulas scattava foto sia in studio sia in mezzo urbano, catturando sequenze sul tema del deposito urbano, interstizi e spazi di nessuno. Lavorò in camera oscura su solarizzazioni leggere, alterando positivizzazione e negativizzazione. Negli anni precedenti, aveva sviluppato una sorta di post-concettualismo fotografico, anticipando modelli di riflessione fotografica di fine Novecento .
Poche settimane prima della morte, completò “La fotografia” (1973), testo e riflessione che testimoniano il suo progetto teorico didattico sulla natura della fotografia, basato su sequenze di scatti, commenti formali e considerazioni sul luogo del fotografo nella società contemporanea