Nascita e morte. Takuma Nakahira (中平 卓馬) nacque a Tokyo il 6 luglio 1938 e morì a Yokohama il 1 settembre 2015. Fotografo, critico e teorico, cofondatore di Provoke, è tra i protagonisti che hanno rimesso in discussione il rapporto fra fotografia, linguaggio e realtà nel Giappone del secondo dopoguerra. La sua traiettoria unisce pratica e riflessione, passando dalla fotografia are, bure, boke (granulosa, mosso, sfocata) all’idea di un “grado zero” dello sguardo, dal fotolibro alla installazione-processo, dalla scrittura militante a una severa autocritica che lo condurrà a bruciare parte dei negativi del periodo giovanile.
Formazione, laboratorio Provoke e messa a punto di una grammatica tecnica (1938–1970)
L’intellettuale che sceglie la fotografia come campo di battaglia non nasce in una camera oscura; si forma su un banco di libri. Dopo studi in lingua e letteratura spagnola alla Tokyo University of Foreign Studies (laurea nel 1963), Nakahira entra nel mondo dell’editoria come redattore della rivista Gendai no me (Contemporary View). Il contatto con scrittori, critici e fotografi, e soprattutto con Shōmei Tōmatsu — che lo sprona a fotografare e lo coinvolge nel comitato dell’esposizione A Century of Japanese Photography — imprime una direzione precisa: leggere la fotografia non come semplice cronaca, ma come sistema di segni da mettere in tensione con la parola. L’editor impara a costruire un impaginato, a scegliere carte e inchiostri, a maneggiare la fotogravure tanto quanto il testo critico; quando inizierà a scattare, il fotolibro sarà già, per lui, un laboratorio linguistico e non un mero contenitore di immagini. Le fonti biografiche e museali confermano questo ancoraggio editoriale e teorico, da cui scaturirà la doppia vocazione di autore e critico (SFMOMA, voce d’artista; biografie sintetiche e cronologie editoriali).
L’anno 1968 è un tornante. Con Kōji Taki, Yutaka Takanashi e Takahiko Okada fonda Provoke: tre fascicoli fra il 1968 e il 1969, a tiratura limitata, sottotitolati “Provocative Materials for Thought”. L’assunto programmatico è noto: quando le parole perdono aderenza alla cosa, la fotografia può provocare il pensiero mettendo sul tavolo frammenti che il linguaggio non riesce a dire. La risposta formale è la triade are, bure, boke: grana spinta, mosso intenzionale, fuori fuoco come strumenti per sottrarre l’immagine alla trasparenza dell’informazione, contrastando l’ordine ottico della cronaca e la retorica del “documento oggettivo”. Il manifesto e la ricostruzione storica concordano: Provoke non propone semplicemente un “effetto grafico”, ma una critica della rappresentazione sostenuta da una scelta materiale — emulsioni ad alta sensibilità, push process in sviluppo, stampe baritate con curve dure, full bleed in pagina — e da una precisa economia di produzione che abbraccia la serialità, la piccola tiratura e l’effimerità della rivista (MoMA; Art Institute di Chicago; saggi e interviste su Provoke).
La tecnica non è mai ancella dello stile, ma metodo. Nelle riprese urbane di fine anni Sessanta, l’operatività tipica — ricostruita da opere, stampe e testimonianze — implica telemetri 35 mm e ottiche corte (28–35 mm) per scivolare dentro il corpo della città, lavorando di notte o in condizioni di luce marginale. La sottoesposizione controllata (–1/3 o –2/3) e lo sviluppo forzato costruiscono nere profonde e bianchi compressi; la grana diventa grammatica, non rumore. La sfocatura rinuncia al privilegio dell’“a fuoco” per registrare urti e inerzie, un’epistemologia del “non controllato” che ha riverbero teorico nelle pagine di Provoke. I riferimenti didattici e critici sul movimento enfatizzano proprio l’intreccio fra scelta estetica e necessità tecnica — emulsioni spinte, contrasto di stampa, inclinazioni dell’asse ottico, impaginati serrati — come dispositivo di pensiero (PhotoPedagogy; sintesi storiografiche sullo stile are-bure-boke). [books.google.com], [asia.si.edu]
Nel 1970 appare “Kitarubeki kotoba no tame ni / For a Language to Come”, il primo fotolibro di Nakahira. Non è soltanto un’antologia dell’esperienza Provoke, è un dispositivo di montaggio. Le cento fotografie in bianco e nero corrono a tutta pagina, senza cornice, spesso “urtano” al dorso; la fotogravure esalta i mezzitoni densi e la grana, mentre la sequenza rifiuta la linearità documentaria e preferisce ricorsi e contrappunti. Materialmente, la prima edizione (Fūdosha, 1970) impone un formato 300×210 mm, rilegatura rigida con cofanetto, una pelle tipografica coerente con l’idea di libro-ambiente; nelle anastatiche e riedizioni curate (Osiris, 2010) compaiono inserti critici che restituiscono il posizionamento teorico dell’opera (shashasha; Osiris). [35mmc.com], [thephoblographer.com]
L’immaginario è quello di una Tokyo notturna, postbellica, intermittente: segnali, cartelloni, asfalti lucidi di pioggia, facce che sfuggono. La trama non “racconta” la città; la fa accadere come frizione fra porzioni di realtà. Nessuna caption a mediare, nessun testo a decrittare; il libro chiede al lettore di montare senso. Recensioni storiche e voci di enciclopedia del fotolibro collocano il volume nel canone del Novecento come capolavoro di riduzionismo e apogeo della stagione Provoke (Parr & Badger; Kaneko & Vartanian). [post.moma.org], [todayspict….slate.com]
Nell’arco 1968–1970, il lavoro è già un sistema integrato: pensiero editoriale, scelta dei processi di stampa, prassi di ripresa e sequenza. La dichiarazione implicita è che la fotografia non è il mondo, ma il suo attrito; non è memoria o certificazione, ma corpo a corpo con ciò che eccede il linguaggio. Musei e fondazioni che hanno acquisito opere e serie di quegli anni, come il MoMA (con nuclei della serie Circulation e materiali collegati), insistono proprio su questo punto di vista d’autore in cui scelta dei materiali fotosensibili e montaggio editoriale sono parti di un unico gesto (MoMA artist page; SFMOMA).
Dalla performance installativa alla critica del “documento”: 1971–1977
L’autunno 1971 a Parigi, Biennale internazionale, è il terreno di prova di un’idea già presente in nuce nel fotolibro: la fotografia come processo vivo. “Circulation: Date, Place, Events” è un dispositivo aperto. Ogni giorno Nakahira percorre la città, scatta, sviluppa, seleziona, appende; il flusso cresce fino a debordare dal muro al pavimento, e l’autore, in attrito con l’organizzazione, strappa tutto prima della chiusura. Tecnicamente, siamo di fronte a una catena di produzione compressa: tempi rapidi, sviluppi immediati, stampe a secco; concettualmente, a una sospensione dell’oggetto-fotografia a favore della temporalità e della circolazione come contenuto. Testi coevi e studi successivi — incluse le riedizioni commentate — chiariscono come “Circulation” sia la prima materializzazione del metodo nakahiriano: non più libri “chiusi”, ma ambienti che respirano con la città (Aperture; volume Osiris con saggi e apparati).
La tensione teoria-pratica esplode anche nella scrittura. Nel 1972, con “L’illusione chiamata documentario: dal documento al monumento”, Nakahira interroga la potenza e i limiti della fotografia nel circuito mediatico, a partire da eventi di cronaca e dalla saturazione delle immagini. Il punto non è negare il documento, ma smascherarne la retorica quando pretende di essere neutro. La fotografia resta indice di un incontro, ma l’apparato (media, mercato, istituzioni) la monumentalizza e la fissa. Traduzioni e commenti odierni aiutano a collocare questo testo nel dibattito sulla “media power” e sulla crisi del reportage nel passaggio dagli anni Sessanta ai Settanta (Asia-Pacific Journal; studi recenti sul suo pensiero).
Nel 1973 la raccolta “Perché un dizionario illustrato di botanica?” segna un’autocritica spietata: il lirismo di For a Language to Come va superato; si chiede una fotografia “oggettiva”, “senza metafora”. Il programma non equivale a didascalismo; implica un mutamento di postura: catalogare, elencare, misurare. L’“io” arretra, la città avanza come paesaggio-sistema (fūkei-ron). Da qui nasce una prassi che, sul piano tecnico, raddrizza l’immagine: piani frontali, profondità di campo maggiore, contrasto contenuto; sul piano editoriale, privilegia sequenze più isocrone, prossime a tavole di atlante. Cronologie editoriali e schede di galleria restituiscono la “svolta botanica” come fondativa della sua seconda fase (shashasha, biografie d’artista).
Nel 1974, alla National Museum of Modern Art, Tokyo, presenta “Overflow”, installazione a colori in 48 immagini su un pannello di sei metri. La cromia non è decorazione; è strumento critico per mostrare la sovrabbondanza visiva della metropoli. La costruzione richiede rigore di esposizione (per non perdere i passaggi cromatici), stampa cromogena calibrata su carta con bianchi neutri, sequenza matriciale capace di modulare ripetizione e scarto. Le recenti retrospettive e i cataloghi scientifici hanno contestualizzato Overflow come opera-chiave del passaggio dalla massa nero/bianco alla densità cromatica delle merci e dei display urbani (mostra “Burn—Overflow” 2024; catalogo).
Fra 1975 e 1977 l’autore esplora installazioni come “Décalage” (Marsiglia, 1976), dove fotografa un angolo della galleria dal pavimento al soffitto e affianca le stampe alla parete reale, leggermente sfalsate. Il dispositivo discute l’indicialità della fotografia e il suo rapporto con il luogo, annullando la distanza fra immagine e architettura. Approfondimenti critici recenti hanno riacceso l’attenzione su questa fase, mostrando come, prima dell’interruzione biografica, Nakahira stesse reimpostando la fotografia come relazione situazionale più che come oggetto (articoli di sintesi e comunicati mostra “Burn—Overflow”).
Il novembre 1977 è lo spartiacque biografico. Un episodio di intossicazione alcolica lo conduce al coma e a una amnesia retrograda con perdita di linguaggio. L’attività teorica s’interrompe, ma non la spinta a fotografare. La ripresa avviene con una rigorosa pratica quotidiana: camminare, osservare, registrare senza enfasi. Cambiano la manutenzione tecnica (esposizioni conservative, cromie pulite, grana contenuta), i ritmi di lavoro (meno performance, più diari visivi), la sequenza (dalla frizione al catalogo). La narrazione museale più recente, come la grande retrospettiva del 2024 a Tokyo, ha mostrato come questa “seconda vita” non sia l’ombra della prima, ma una riformulazione della medesima domanda: cosa può una fotografia, quando il linguaggio vacilla? (MOMAT; articoli critici sul progetto espositivo).
Opere principali: fotolibri, serie e installazioni (lettura tecnico-editoriale)
La produzione di Nakahira si comprende davvero solo entro il triangolo ripresa–stampa–sequenza. Le opere principali non sono semplici raccolte, ma architetture dove ogni elemento tecnico incide sul senso.
“Kitarubeki kotoba no tame ni / For a Language to Come” (1970). Il libro che definisce la stagione Provoke. Stampa in gravure per garantire profondità dei neri e grana tattile; full bleed per eliminare cornici interpretative; gutter come lama che taglia e unisce. Lo “stile” — are, bure, boke — non è un effetto: è reazione fisica alla città. La miscela tecnica comprende pellicole 400 ISO spinte, sviluppi energici, mascherature al banco di stampa meno frequenti rispetto a stampe “classiche”, proprio per lasciare che il rumore depositi materia. L’edizione di Fūdosha, con cofanetto e rilegatura rigida, dichiara la natura autoriale del progetto; la riedizione Osiris (2010) ne riapre la fruizione, con un supplemento critico che re-inquadra l’opera alla luce dell’autocritica del 1973 (shashasha; Osiris).
“Circulation: Date, Place, Events” (1971). Non è un libro, ma un gesto installativo. La tecnica è dettata dalla temporalità: ripresa giornaliera, sviluppo immediato, stampa su cartoncini leggeri per asciugare in fretta e applicare; l’editing è “a vista”, con sostituzioni e accumuli nello spazio. L’opera si definisce per contatto fisico con il luogo e per la serialità — date, luoghi, eventi — che mette il tempo al centro. I saggi di accompagnamento chiariscono come “Circulation” sia un metodo prima che un’opera, un modo di fare che riprogramma la fotografia come processo (Aperture; scheda Osiris).
“Naze shokubutsu zukan ka / Why an Illustrated Botanical Dictionary?” (1973). Libro di saggi e atto di rigenerazione. Le fotografie “prima maniera” vengono messe a processo; il lirismo viene dichiarato insufficiente di fronte alla piena dei segni. Sul piano pratico, le serie successive accentuano i frontali, la profondità di campo, l’“equalizzazione” dei contrasti per misurare più che avvertire. Fonti editoriali e schede d’artista rendono evidente la funzione di questo testo come cerniera fra fasi (shashasha; biografia galleria).
“Overflow” (1974). Pannello di 48 cromie su sei metri: il colore è semantica, non ornamento. La gestione del bilanciamento e del punto di bianco evita derive pittoresche; la sequenza costruisce pattern di ripetizione e scarto come modello di città. Le retrospettive più recenti hanno rimesso Overflow al centro, evidenziandone la funzione di cerniera verso il periodo successivo alla crisi (MOMAT; catalogo 2024).
“Aratanaru gyōshi / A New Gaze” (1983) e “Adieu à X” (1989). La “seconda vita” editoriale. Le stampe diventano nitide, i colori puliti, le inquadrature misurate; la sequenza richiama un atlante personale di tracce: marciapiedi, bordi, vegetazione residuale, segnaletica. Non c’è redenzione narrativa, ma perseveranza metodica: fotografie come annotazioni. Il posizionamento editoriale di questi volumi, testimoniato da schede e cronologie, conferma la continuità nella trasformazione (shashasha; SFMOMA).
“Genten fukki — Yokohama / Degree Zero – Yokohama” (2003). Una retrospettiva che mette in sequenza lunga l’intera traiettoria, più di 800 opere: il percorso mostra come la tecnica (dai push in B/N alle cromie controllate) sia sempre stata forma di pensiero. L’allestimento sottolinea la centralità dei periodici e dei fotolibri come luoghi di verità dell’opera, oltre la singola stampa (SFMOMA; shashasha).
L’insieme non si lascia ridurre a “prima” e “dopo” la crisi. Si osserva piuttosto una continuità di problema: come restituire il mondo come incontro senza rimetterlo subito nella griglia del già detto. All’inizio la risposta è negativa (sfocare, sporcare, bruciare i neri per sabotare la trasparenza); poi diventa ascetica (raddrizzare, equalizzare, catalogare per sottrarre la foto alla metafora). In entrambi i casi, la scelta tecnica — emulsione, sviluppo, stampa, impaginato — è inseparabile dal campo teorico: non si tratta di “come far sembrare”, ma di come far pensare.
Una nota sul rapporto con le istituzioni. L’opera è presente in collezioni internazionali; basti ricordare i nuclei di “Circulation” e le schede d’artista del MoMA, che espongono sequenze del 1971 e documentazione correlata, o le voci museali che cementano la posizione di Nakahira come “leader radicale” della modernità fotografica giapponese. In anni recenti, la grande mostra “Burn—Overflow” al National Museum of Modern Art, Tokyo ha offerto un riesame filologico con oltre 400 lavori e materiali, riportando alla luce vintage prints e serie poco viste che chiariscono quanto la sua attenzione ai supporti (riviste, libri, pareti, pavimenti) sia stata strutturale alla sua poiesi (MoMA; MOMAT).
Un’ultima osservazione riguarda il modo in cui la pagina — libro o rivista — governa l’immagine. In For a Language to Come, il gutter è lama e sutura; in Circulation il muro è pagina espansa; in Overflow il pannello è matrice ritmica; nei libri post-1977 la tavola è casella d’atlante. Supporto e stampa non sono neutri: la gravure restituisce la tessitura della grana e la densità dei neri con un corpo che l’offset dell’epoca non garantiva, mentre la cromia su carta fotografica a sviluppo cromogeno, nei lavori degli anni Settanta, esige un rigore di costanza che sposta il mestiere dalla camera oscura alla camera della sequenza. I repertori storici del fotolibro — con voci dedicate a Nakahira — insistono su questa intelligenza del mezzo: il libro non illustra il lavoro, è il lavoro.
Fonti
- Wikipedia – Takuma Nakahira
- Yossi Milo – Biography
- SFMOMA – Artist Page
- PhotoAnthology – Profile
- [shashasha.co]
- Osiris – Circulation
- MoMA – Works
- National Museum of Modern Art Tokyo – Burn Overflow
- Parr & Badger – The Photobook History
- Asia-Pacific Journal – Essay
Mi chiamo Marco Americi, ho circa 45 anni e da sempre coltivo una profonda passione per la fotografia, intesa non solo come mezzo espressivo ma anche come testimonianza storica e culturale. Nel corso degli anni ho studiato e collezionato fotocamere, riviste, stampe e documenti, sviluppando un forte interesse per tutto ciò che riguarda l’evoluzione tecnica e stilistica della fotografia. Amo scavare nel passato per riportare alla luce autori, correnti e apparecchiature spesso dimenticate, convinto che ogni dettaglio, anche il più piccolo, contribuisca a comporre il grande mosaico della storia dell’immagine. Su storiadellafotografia.com condivido ricerche, approfondimenti e riflessioni, con l’obiettivo di trasmettere il valore documentale e umano della fotografia a un pubblico curioso e appassionato, come me.


