La possibilità di selezionare un tempo di esposizione ripetibile e preciso è ciò che trasforma la fotografia da artigianato empirico in tecnica di misura. Nelle camere oscure dell’Ottocento, il “selettore di tempi” non esisteva: l’operatore scopriva e copriva l’obiettivo con un tappo o un cappuccio. Quel gesto, sufficiente per le emulsioni lentissime dei primi decenni, collassò di fronte alla crescita di sensibilità e alla richiesta di tempi brevi; nacquero allora i primi otturatori, e con essi la necessità di un organo di comando che permettesse di impostare con regolarità durate prefissate. Da qui deriva il concetto di selettore dei tempi: una ghiera, un quadrante o un collarino che, agendo su camme e leveraggi, sceglie un regime di funzionamento del meccanismo, traducendosi in un intervallo di apertura.
Già nella seconda metà del XIX secolo compaiono molte soluzioni estemporanee: ghigliottine a caduta, otturatori a settore rotante davanti all’obiettivo, tendine sul piano focale azionate a mano o a molla. La svolta industriale si concretizza nel primo Novecento quando si codifica un linguaggio di tempi progressivi e, soprattutto, si integrano i selettori nel corpo dell’otturatore. Un passaggio storico è il Compound (1902), che impiega un regolatore pneumatico per i tempi lunghi, e ancor di più il Compur (1912), prodotto dalla tedesca Friedrich Deckel a Monaco, che introduce un regolatore ad ingranaggi e scappamento di derivazione orologiera per scandire i secondi e le frazioni lente con precisione, affiancandoli a tempi rapidi comandati dalla molla motrice e dalla cinematica delle lamelle. In quelle unità, il “selettore” è inizialmente a quadrante (“dial-set”), poi diventa rim‑set, un anello zigrinato che semplifica l’impostazione con la macchina alla mano. Il selettore non è un accessorio: è il volto umano di una meccanica di altissima finezza.
Nel 35 mm la necessità di ridurre ingombri e velocizzare l’operatività porta a soluzioni molto diverse. La Leica I (presentata nel 1925 alla fiera di Lipsia) adotta un otturatore a tendina di stoffa con un selettore dei tempi relativamente semplice: tempi da 1/20 a 1/500 s più posa Z/B, disposti su una scala non ancora completamente standardizzata. Dalla fine degli anni Venti alla metà dei Trenta, la famiglia Leica raffina la coassialità dei comandi, separa i tempi lenti (pilotati da un piccolo treno di ingranaggi) dai tempi rapidi (affidati alla corsa delle tendine e alla fessura in transito), prevedendo due selettori accoppiati o un selettore principale con innesto secondario. La Contax II di Zeiss Ikon (1936) estremizza il concetto con una ghiera unica in sommità che integra avanzamento, scatto e selezione tempi, portando i rapidi fino a 1/1250 s e trasferendo all’utente un’interfaccia coesa e veloce, in anticipo sulla concorrenza.
Nel medio formato a otturatore centrale, il selettore dei tempi vive direttamente sull’otturatore dell’obiettivo. Nei Compur-Rapid (1935) e poi nei Synchro-Compur del dopoguerra, la ghiera dei tempi è integrata nel barilotto e comunica con il regolatore interno attraverso camme dentate. Un passo ulteriore è l’aggiunta del selettore M/X per la sincronizzazione flash: una piccola leva che non interviene sul tempo impostato, ma ritarda opportunamente il rilascio quando si usano lampadine a combustione (M), oppure lo rende istantaneo per il flash elettronico (X). In questa stagione l’utente incontra scale sempre più omogenee (B, 1 s, 1/2, 1/4, 1/8, 1/15, …, 1/500) e un feedback tattile (click, indici a scatto, linee rosse) progettato per evitare errori anche in scarsa luce.
Tra anni Cinquanta e Settanta, l’industria giapponese (Seiko, Copal) immette otturatori centrali e a tendina con selettori robusti e modulari. Nelle reflex 35 mm compaiono comandi unificati: grandi ghiere coassiali al pulsante di scatto o alla manovella di carica, spesso accoppiate all’esposimetro TTL. In parallelo, la standardizzazione internazionale della scala dei tempi e del concetto di valore di esposizione (EV) mette il selettore al centro del triangolo tempi-diaframma‑ISO: non è più solo una sequenza di frazioni, ma un montante numerico che dialoga con diaframma e sensibilità. L’arrivo dell’elettronica negli anni Settanta‑Ottanta non cancella il selettore meccanico; lo maschera dietro ghierine di contatto o pulsanti che impartiscono stesse istruzioni a un regolatore ora controllato da quarzi e magneti. Ma finché la macchina resta meccanica, il selettore rimane ciò che è sempre stato: una camma che decide come e quando il tempo scorre.
Architettura tecnica e principio di funzionamento del selettore
Dal punto di vista ingegneristico, il selettore di tempi è una interfaccia meccanica fra la mano del fotografo e un sistema dinamico che deve compiere due compiti diversi. Il primo è governare i tempi lenti (da 1 s fino a circa 1/8 o 1/15 s) con un regolatore isocrono, tipicamente uno scappamento a ingranaggi che ricorda quello degli orologi: una ruota e una ancora che rilasciano energia a colpi regolari mentre una molla fornisce il moto. Il secondo è determinare i tempi rapidi (1/30–1/500 e oltre) con la pura dinamica dell’otturatore: lamelle nel leaf shutter che aprono/chiudono con un certo profilo di velocità, oppure tendine sul piano focale che generano una fessura mobile più o meno stretta. Il selettore stabilisce quale circuito debba intervenire e con quali parametri.
Nei leaf shutter (Compur, Prontor, Seiko, Copal), la ghiera dei tempi aziona una camma settoriale. Per B e T si posizionano stops che lasciano l’apertura a discrezione dell’operatore: B mantiene la leva premuta finché si tiene il pulsante, T sfrutta un meccanismo di toggle che apre al primo impulso e chiude al secondo. Ai tempi lenti entra in gioco il treno del ritardatore: la ghiera, via camma, accoppia un piccolo planetario con il leveraggio principale; lo scappamento scarica la molla a ticchettio e, a fine corsa, libera la paletta che avvia la chiusura. Ai tempi rapidi, la camma disinnesta il ritardatore e modula la corsa delle lamelle tramite molle e limitatori: la durata effettiva è data dalla somma del tempo in cui la luce è sufficiente (area sotto la curva di apertura) e delle fasi transitorie di apertura/chiusura. Questo spiega perché, ad esempio, un leaf shutter dichiarato 1/500 presenti, da banco, un tempo effettivo di 1/320–1/400 ma trasmetta un’energia equivalente a un 1/500 per via della sezione utile dell’apertura durante il transitorio. I manuali di servizio Synchro‑Compur mostrano chiaramente come la ghiera dei tempi governi tre sottosistemi: blocchi meccanici (B/T), accoppiamento del slow train, e precarico della molla rapidi tramite leveri distinti.
Negli otturatori a tendina il selettore ha una logica diversa. La ghiera imposta un intervallo tra la partenza della prima tendina e della seconda. Per tempi più lenti del sincro‑X (tipicamente 1/60–1/250 secondo epoche e modelli), la prima tendina scopre interamente il fotogramma, poi un ritardatore meccanico o un governatore trattiene la seconda per il tempo impostato; per i tempi più rapidi, la seconda parte prima che la prima abbia finito la corsa, creando una fessura che attraversa il fotogramma. Il selettore, dunque, non “misura” direttamente la durata della luce come nel leaf shutter, ma programma la geometria e la velocità della fessura. La precisione dipende da tre grandezze: elasticità delle molle delle tendine, attriti delle guide, taratura del ritardatore per i tempi fino a circa 1/30–1/60. Da qui discende il fenomeno, oggi noto come “rolling” meccanico: a 1/1000 o 1/2000, porzioni del fotogramma sono esposte in istanti leggermente diversi. È la ragione fisica per cui alcuni soggetti molto rapidi (eliche, linee verticali in panning) possono apparire inclinati o deformati già in pellicola; nelle digitali, il fenomeno elettronico omonimo è solo un parente concettuale.
La meccanica del selettore deve convertire scatti discreti (le tacche della scala) in differenti condizioni di lavoro per il treno di tempi. La soluzione classica è un tamburo camma con più profili: uno schema per B/T, uno per l’innesto del ritardatore, uno per la tensione della molla o per lo stop meccanico della leva di comando. La geometria delle camme è critica: piccoli errori di quota o finitura si traducono in errore di tempo. I progettisti ricorrono a spessori calibrati, viti eccentriche e molle a lamina con carico definito; nei Synchro‑Compur, la regolazione del 1/15 e 1/8 può richiedere pieghe minuti a una lamina‑fermo (procedura descritta nei manuali), operazione che evidenzia quanto il selettore sia centro di taratura oltre che di comando. Ciliegina sulla torta è la frizione o dente di arresto che definisce i “click” fra un tempo e l’altro: deve essere netta per evitare impostazioni intermedie ambigue, ma non eccessiva per non consumare gli spigoli.
La lubrificazione è un altro capitolo: i tempi lenti sono i primi a scappare quando gli oli inspessiscono o contaminano lo scappamento. Per questo i costruttori specificano lubrificanti sottili solo su determinati pivots e nessun lubrificante sui denti dello scappamento, pena la perdita di isocronismo. Anche l’interfaccia del selettore con il meccanismo di carica è delicata: molte fotocamere prevedono un interblocco che impedisce di cambiare tempo quando l’otturatore è scarico o parzialmente carico, per evitare di impegnare camme e denti in posizioni non di riposo. È il caso di numerosi leaf shutter e di molte reflex 35 mm: l’utente avverte resistenza se tenta di cambiare da 1 s a 1/500 in condizioni sbagliate; il manuale prescrive di farlo solo a otturatore armato o solo scarico, secondo progetto.
Un’ultima relazione essenziale è quella tra selettore dei tempi e sincronizzazione flash. Nei leaf shutter, la coincidenza dell’apertura completa per l’intera durata dell’esposizione permette la sincronizzazione a qualsiasi tempo; il selettore dei tempi, qui, non deve preoccuparsi del sincro se non per posizionare la camma del contatto X/M. Negli otturatori a tendina, invece, il selettore marca spesso il tempo di sincro‑X (una tacca diversa o un simbolo) per ricordare che solo fino a quel tempo l’intero fotogramma è scoperto contemporaneamente. Il resto è fessura mobile, incompatibile con lampi di 0,5–1,5 ms: il selettore diventa perciò anche promemoria operativo che evita la mezzaluna nera del flash tagliato.
Produttori storici, applicazioni e transizione all’elettronico
Il selettore di tempi meccanico non esisterebbe senza tre famiglie industriali. La prima è quella dei grandi fabbricanti di otturatori centrali: F. Deckel con i Compur/Synchro‑Compur (dal 1912 in avanti), Alfred Gauthier con i Prontor, e poi i giapponesi Seiko e Copal nel dopoguerra. Su questi otturatori, il selettore è parte integrante dell’unità; l’obiettivo è un sistema ottico‑meccanico che porta in dote tempi, diaframma e sincro. La Hasselblad dei tempi d’oro del 6×6, le TLR come Rolleiflex o Yashica, le folding di qualità e moltissime view camera con ottiche su piastra devono a questi selettori la loro affidabilità. A livello applicativo, il professionista imparava a orecchio la regolarità del “tic” del ritardatore e il clic netto dei rapidi; sapeva che 1 s e 1/2 sono i primi a “allungare” se il servizio è stanco e che 1/500 richiede un leaf impeccabile per essere credibile.
La seconda famiglia è quella dei fabbricanti di otturatori a tendina e delle reflex 35 mm. Qui il selettore si sposta quasi sempre sul top plate o attorno alla leva di carica, spesso coassiale al contafotogrammi e al pulsante di scatto. Dalla Leica I del 1925 (tempi 1/20–1/500 e posa) alle evoluzioni con doppio selettore per tempi lenti/rapidi, fino alla Contax II (1936) con la celebre ghiera unica fino a 1/1250, l’interfaccia utente è oggetto di un’estetica funzionale che definisce un’epoca. Negli anni Sessanta‑Settanta, con Nikon, Canon, Minolta, Pentax, la ghiera dei tempi si accoppia all’esposimetro: cambiare tempo sposta aghi o LED in mirino, oppure modifica scalanature che comunicano alla cellula la nuova coppia EV. In molte macchine il selettore integra la voce X evidenziata; in altre, una tacca colorata avverte del limite di sincro. La standardizzazione (B, 1–1/1000 e oltre, con terzi di stop) porta ad architetture modulare: tamburi camma intercambiabili e molle di gradazione differente per i corpi “professionali” e “consumer”.
La terza famiglia è quella dei produttori giapponesi di otturatori centrali e focal-plane negli anni del boom. Copal codifica famiglie come #0, #1, #3 con selettori robusti, idonei alle pesanti ottiche da grande formato; Seiko fornisce unità a moltissime compatte e medioformato. Dal punto di vista del selettore, la scuola giapponese predilige click netti e indici luminosi, spazzolature a basso attrito e trattamenti anti‑ageing sugli oli. Il risultato è una tenuta temporale migliore, meno drift dei tempi lenti, e una tolleranza sui rapidi più stringente. I costruttori europei e americani adottano sempre più spesso componentistica giapponese per otturatori e selettori negli anni Settanta, preludio alla transizione elettronica.
L’arrivo dell’elettronica non cancella il selettore meccanico, ma ne cambia il ruolo. Con i quarzi e i magneti che temporizzano la seconda tendina o pilotano la bobina di uno shutter ibrido, il selettore diventa una ghiera di contatto: non impone più fisicamente una camma, ma chiude circuiti o impartisce step digitali. Sulla carta è un impoverimento meccanico; nella pratica, l’utente continua a leggere una scala tempi e a ruotare una ghiera. Il retaggio meccanico resta anche in molte medio formato elettroniche, dove un leaf pilotato elettricamente mantiene il suo selettore a bordo lente per coerenza con tutta l’ottica esistente. In parallelo, nelle digitali moderne l’utente spesso ritrova una ghiera anteriore/posteriore che emula il selettore, pur inviando un comando elettronico al modulo otturatore.
C’è un aspetto che illumina la sopravvivenza culturale del selettore meccanico: la misurabilità. Chi pratica la manutenzione o il collaudo sa che un leaf shutter “in salute” tollera scarti di ±20–30 % sui rapidi senza compromettere l’energia d’esposizione, mentre i lenti richiedono isocronismo più stretto; sa che il 1/15 è un confine perché è spesso il primo tempo lanciato dal ritardatore a convivere con la cinematica rapida. Sa, soprattutto, che la qualità della ghiera dei tempi — durezza del click, assenza di giochi, coerenza della grafica — è la firma del costruttore: è lì che si misura l’intenzione di prodotto professionale rispetto a uno amatoriale. È un sapere che affonda nella manualistica Compur/Synchro‑Compur, nei cataloghi Zeiss Ikon, nelle tabelle Copal per le taglie degli otturatori, e che ancora oggi guida restauratori e fotografi d’epoca.
La storia del selettore incrocia infine i nomi e le date che hanno segnato le tappe principali: Friedrich Deckel a Monaco con Compur (1912), Zeiss Ikon nata nel 1926 e capace di integrare selettori raffinati nelle Contax degli anni Trenta, Ernst Leitz con la Leica I (1925) e la sua progressiva maturazione del doppio dominio tempi lenti/rapidi, Seiko e Copal nel Giappone del dopoguerra. Quando l’elettronica prende il posto della camma, il gesto rimane: la mano cerca ancora una ghiera e una tacca. In questo senso, il selettore di tempi meccanico è una tecnologia storica che ha attraversato i media, dal vetro alla pellicola al sensore, senza perdere il suo alfabeto: B, 1, 1/2, 1/4, …, 1/500.
Fonti
- Wikipedia – Otturatore (fotografia)
- Camera-wiki – Compur (storia, varianti e tempi)
- ManualMachine – Synchro‑Compur Shutter Repair Manual (procedure e camme del selettore)
- JuzaPhoto – Otturatore elettronico vs meccanico (spiegazione sincro e rolling)
- Wikipedia – Leica I (1925: tempi e specifiche storiche)
- Marco Cavina – Contax II (1936: ghiera tempi e contesto)
- S.K. Grimes – Compur shutters (taglie, note storiche e costruttive)
Mi chiamo Marco Adelanti, ho 35 anni e vivo la mia vita tra due grandi passioni: la fotografia e la motocicletta. Viaggiare su due ruote mi ha insegnato a guardare il mondo con occhi più attenti, pronti a cogliere l’attimo, la luce giusta, il dettaglio che racconta una storia. Ho iniziato a fotografare per documentare i miei itinerari, ma col tempo è diventata una vera vocazione, che mi ha portato ad approfondire la storia della fotografia e a studiarne i protagonisti, gli stili e le trasformazioni tecniche. Su storiadellafotografia.com porto una prospettiva dinamica, visiva e concreta: mi piace raccontare l’evoluzione della fotografia come se fosse un viaggio, fatto di tappe, incontri e visioni. Scrivo per chi ama l’immagine come mezzo di scoperta e libertà, proprio come un lungo viaggio su strada.


