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Chuck Close

Charles Thomas Close, universalmente conosciuto come Chuck Close, nacque a Monroe, nello stato di Washington, il 5 luglio 1940, e morì a Oceanside, New York, il 19 agosto 2021. La sua traiettoria biografica e artistica attraversa oltre mezzo secolo di ricerca visiva, costantemente legata alla rappresentazione fotografica e alla sua traslazione nel linguaggio pittorico. La sua vita fu segnata fin da bambino da difficoltà di apprendimento legate a una grave dislessia e da una condizione neurologica chiamata prosopagnosia, ovvero l’incapacità di riconoscere i volti. Proprio questo limite personale, che avrebbe potuto ostacolare il suo percorso di artista, divenne invece il fulcro della sua ricerca: lo spinse a sviluppare una strategia metodica e analitica di osservazione e riproduzione delle immagini fotografiche, con un approccio quasi ossessivo al dettaglio e alla griglia di scomposizione.

Dopo gli studi presso la University of Washington di Seattle, completati nel 1962, proseguì la sua formazione alla Yale University, dove conseguì un Master of Fine Arts nel 1964. Yale, in quegli anni, era un crocevia di linguaggi visivi, in cui le tensioni tra l’Espressionismo astratto e le prime manifestazioni della Pop Art generavano un clima fertile di sperimentazione. Close assorbì la forza gestuale della pittura espressionista, ma la rielaborò in direzione opposta, verso un’oggettività quasi fotografica, segnata da una disciplina metodica e dal rifiuto di ogni improvvisazione. La sua prima affermazione avvenne alla fine degli anni Sessanta, quando si impose con una serie di ritratti iperrealisti di grandi dimensioni, basati su fotografie in bianco e nero ingrandite e trasposte su tela con un rigore tecnico che lo rese immediatamente riconoscibile.

La sua parabola esistenziale fu segnata da un evento traumatico nel 1988, quando fu colpito da un grave collasso arterioso che lo lasciò quasi completamente paralizzato. Da quel momento, costretto sulla sedia a rotelle, continuò a lavorare grazie a supporti meccanici che gli consentivano di impugnare il pennello. Questa condizione non ridusse la sua capacità inventiva, anzi lo spinse a rinnovare il suo linguaggio, trasformando i suoi ritratti in mosaici cromatici di straordinaria potenza visiva. La sua morte, avvenuta nel 2021 a causa di complicazioni cardiopolmonari, segnò la scomparsa di uno dei più radicali interpreti del rapporto tra fotografia e pittura, tra immagine meccanica e visione manuale.

La fotografia come matrice della pittura

La poetica di Chuck Close si fonda sul rapporto tra fotografia e pittura, un dialogo che non va inteso come mera derivazione, ma come tensione dialettica continua. Fin dagli esordi, Close comprese che la fotografia offriva non solo un repertorio iconografico, ma soprattutto un metodo di scomposizione della realtà. Le sue opere iniziali furono realizzate partendo da fotografie scattate con fotocamere di medio formato, che egli selezionava per la loro chiarezza e precisione ottica. Una volta ottenuta l’immagine, la ingrandiva fino a dimensioni monumentali, suddividendola in una griglia geometrica che trasferiva sulla tela.

Questa procedura tecnica rivelava la natura meccanica della visione fotografica, ma al tempo stesso la sottoponeva a un processo di traduzione manuale che ne accentuava i dettagli e le imperfezioni. Il suo approccio fu spesso descritto come “iperrealista”, ma in realtà l’artista non si limitava a riprodurre fedelmente un’immagine: la ingigantiva fino a mostrarne la struttura molecolare, evidenziando la texture della pelle, i pori, i peli e le rughe, fino a restituire un effetto che nessuna fotografia da sola avrebbe potuto comunicare. In questo senso, Close mise in discussione il concetto di fotografia come documento oggettivo, trasformandola in uno strumento analitico e in un linguaggio da riscrivere attraverso la pittura.

Negli anni Settanta, quando la fotografia stava consolidando la sua legittimazione come linguaggio artistico autonomo, Close operava su un crinale ambiguo: non era un fotografo in senso stretto, ma la sua pittura era totalmente dipendente dal dispositivo fotografico. Egli stesso dichiarava che senza la mediazione fotografica non sarebbe stato in grado di costruire un ritratto, sia per la sua prosopagnosia sia per la sua necessità di avere un modello bidimensionale su cui lavorare. La griglia, che diventò il suo marchio stilistico, derivava direttamente dalle tecniche di ingrandimento fotografico e tipografico, e in questo senso la sua pratica va letta come un’estensione critica delle tecniche di riproduzione meccanica.

La trasformazione avvenuta dopo il 1988 confermò ulteriormente il legame con la fotografia. Non potendo più controllare il gesto pittorico con la stessa precisione, Close abbandonò l’illusione di continuità mimetica e iniziò a lavorare con moduli cromatici separati, quasi come fossero pixel ingranditi. Questa tecnica, sebbene realizzata manualmente, richiamava l’estetica digitale e rivelava la natura artificiale dell’immagine. In tal modo, Close portò la fotografia oltre se stessa, mostrando che l’occhio meccanico e la mano umana potevano fondersi in un linguaggio ibrido capace di ridefinire i confini della rappresentazione.

Tecniche e processi visivi

L’analisi delle tecniche di Chuck Close richiede una distinzione tra le diverse fasi della sua carriera. Nei primi lavori, il procedimento si basava su fotografie in bianco e nero stampate su carta lucida, scattate spesso con pellicole a grana fine come la Kodak Tri-X o equivalenti, che garantivano nitidezza e possibilità di ingrandimento. Queste immagini venivano suddivise in quadrati millimetrici, che l’artista riportava sulla tela in proporzioni gigantesche. Ogni quadrato corrispondeva a un’unità pittorica che egli riproduceva con un’attenzione quasi scientifica, trasformando il dettaglio fotografico in pittura acrilica o ad olio.

Il formato delle sue tele era monumentale: spesso superava i due metri di altezza, costringendo lo spettatore a confrontarsi con un volto ingigantito fino a perdere ogni dimensione intima. L’effetto era volutamente straniante: la distanza rivelava il ritratto nella sua interezza, ma avvicinandosi si percepiva la scomposizione della superficie, come se la realtà fosse una somma di frammenti ottici.

Dopo la paralisi, le tecniche cambiarono radicalmente. Impossibilitato a compiere movimenti di precisione, Close ideò un sistema basato su moduli cromatici astratti. Ogni cella della griglia veniva riempita con forme geometriche colorate, spesso ellissi, cerchi, trapezi o campiture sfumate. Visti da vicino, questi elementi sembravano pattern astratti, ma a distanza si ricomponevano in un volto riconoscibile, secondo lo stesso principio della scomposizione digitale in pixel. Questo metodo fu influenzato dalle tecnologie fotografiche e informatiche emergenti negli anni Novanta, che rendevano evidente la natura discreta dell’immagine elettronica.

Un aspetto spesso trascurato riguarda il suo lavoro con la fotografia diretta. Close realizzò numerosi dagherrotipi e ambrotipi, servendosi di tecniche fotografiche ottocentesche, perché affascinato dalla resa di dettaglio e dalla fisicità dei supporti. Questi esperimenti testimoniano la sua costante attenzione alla dimensione tecnica, al di là della pittura. In particolare, i suoi dagherrotipi su lastre di rame argentato mostrano una volontà di tornare alle origini della fotografia, quasi a risalire alle matrici materiali della visione meccanica. Questo interesse lo colloca in una linea di continuità con la storia della fotografia, confermando come la sua opera non possa essere compresa senza un riferimento diretto al medium fotografico.

Le opere principali

Tra le opere più celebri di Chuck Close si possono ricordare i ritratti di artisti, amici e intellettuali che compongono un vero e proprio archivio visivo della cultura americana degli ultimi decenni. Già nel 1967, con Big Self-Portrait, un autoritratto monumentale in bianco e nero, egli definì il suo linguaggio. Il volto barbuto e ingrandito su oltre due metri di tela mostrava la sua dedizione maniacale al dettaglio fotografico e stabilì un modello che avrebbe segnato tutta la sua carriera.

Negli anni Settanta realizzò ritratti di figure come Philip Glass, Richard Serra, Cindy Sherman, Jasper Johns, ognuno dei quali restituito con un’intensità che univa fedeltà fotografica e monumentalità pittorica. Queste immagini non erano semplici effigi, ma veri esperimenti visivi sul rapporto tra presenza e rappresentazione. Philip Glass, in particolare, fu ritratto più volte, con una serie che documenta non solo l’evoluzione stilistica di Close ma anche la capacità della fotografia di fissare un volto attraverso il tempo.

Dopo il 1988, opere come Self-Portrait (1991) o il ritratto di Lorna Simpson (2000) mostrarono la nuova tecnica modulare, in cui la superficie si frammentava in unità cromatiche autonome. L’effetto era duplice: da lontano il volto appariva realistico, da vicino emergeva la struttura artificiale, richiamando tanto i mosaici bizantini quanto le schermate digitali. Questo linguaggio trasformò radicalmente la percezione del ritratto, facendo emergere la natura processuale dell’immagine fotografica.

Un capitolo a parte merita il lavoro con i dagherrotipi, realizzato negli anni Novanta in collaborazione con il fotografo Jerry Spagnoli. In questi esperimenti, Close tornava a un procedimento fotografico tra i più antichi, capace di restituire una nitidezza estrema e una qualità specchiante che dialogava perfettamente con il suo interesse per il volto come superficie da indagare. I dagherrotipi di Close, pur meno noti delle sue tele, costituiscono un contributo fondamentale alla storia della fotografia contemporanea, perché dimostrano la possibilità di rianimare tecniche storiche in un contesto attuale.

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