Bieke Depoorter (Kortrijk/Courtrai, 29 agosto 1986 – vivente) è una fotografa e artista visiva belga, figura centrale della fotografia documentaria contemporanea e membro effettivo di Magnum Photos dal 2016. Cresciuta nelle Fiandre occidentali, si forma presso la Royal Academy of Fine Arts di Gand (KASK), dove consegue nel 2009 il Master in Fotografia. La sua traiettoria professionale si definisce fin dagli esordi attraverso un metodo fondato sulla fiducia, sul contatto diretto e sulla condivisione di spazi domestici con persone incontrate casualmente, una pratica che diverrà cifra distintiva sia sul piano estetico sia su quello etico. I dati anagrafici di base — nascita: 29/08/1986, Kortrijk, Belgio; morte: vivente — collocano la sua attività entro una generazione di autori che hanno ridefinito ruolo e responsabilità del fotografo di fronte all’immagine e al soggetto.
La svolta avviene con Ou Menya (2009–2011), sviluppato in Russia come progetto di diploma e poi pubblicato in volume nel 2011. L’idea operativa è tanto semplice quanto radicale: viaggiare, mostrare un cartello con una richiesta di ospitalità, dormire una notte presso sconosciuti, fotografare la soglia intima della loro quotidianità. Tale dispositivo relazionale le vale il Magnum Expression Award (2009), a riprova di come la prossimità e la durata breve ma intensa dell’incontro possano generare immagini dotate di una forte densità emotiva e informativa. Nel 2012 viene nominata membro candidato di Magnum Photos; nel 2014 diventa membro associato e nel 2016 membro effettivo, entrando stabilmente nella costellazione di autori che hanno fatto della fotografia un linguaggio d’indagine, di narrazione e di responsabilità.
I riconoscimenti si susseguono: oltre al Magnum Expression Award, Depoorter riceve il Prix Levallois (2017) e il Larry Sultan Photography Award (2018). Nel 2022 rientra nella shortlist del Deutsche Börse Photography Foundation Prize per il ciclo espositivo “A Chance Encounter” (C/O Berlin), in cui presenta un montaggio rigoroso del lungo lavoro su Michael e Agata: due progetti che, partendo da incontri fortuiti, diventano laboratori teorici su autorialità, limiti della collaborazione, veridizione dell’immagine e confini etici del racconto biografico. La sua produzione editoriale include, oltre a Ou Menya, i volumi I Am About to Call It a Day (2014), Sète#15 (2015), As It May Be (2017; edizione ampliata Aperture 2018), Mumkin. Est-ce possible? (2018), Agata (2021, autoedito), X. (2021, selezionato tra i photobook preferiti dal MoMA), e Blinked Myself Awake (2024), opera in cui il punto di vista vira all’introspezione intrecciando foto di astrofili, osservatori e frammenti di storia dell’astronomia con testi diaristici.
La residenza e base di lavoro è Gand, in Belgio, ma la geografia dei progetti è transnazionale: Russia, Stati Uniti, Egitto, Francia, Norvegia, Polonia e Stati Uniti (Portland) compongono un atlante personale in cui lingua, cultura, usi domestici e rituali serali fanno da tessuto narrativo. La dimensione editoriale diventa parte integrante del processo: l’autrice fonda nel 2020 la piattaforma Des Palais (insieme a Tom Callemin) per sostenere una editoria indipendente attenta alla materialità del libro, alla sequenza, al rapporto tra immagine e note, alla progettazione tipografica e alla stampa fine art.
La tecnica prediletta ruota attorno a fotocamere full-frame a ottiche fisse luminose, frequente ricorso al 50mm e a focali intermedie (come un 65–85mm), uso prevalente della luce ambiente e una post‑produzione essenziale finalizzata a preservare tonalità e micro-contrasto della scena reale. Il colore non è mai decorativo; è parte del registro narrativo, spesso saturo ma controllato, con attenzione ai toni caldi dell’illuminazione domestica serale, alle zone d’ombra e alla resa della pelle in condizioni di illuminazione ibrida (lampade tungsteno, neon, LED domestici).
Il tema portante è la relazione: Depoorter considera il soggetto come co-autore o almeno attore dentro un dispositivo in cui la fotografia è scambio e negoziazione. Non esiste per lei una nettezza di confine tra documento e finzione; esiste un continuum in cui il gesto fotografico è anche scrittura (come nelle annotazioni manoscritte su As It May Be) e montaggio (come nella costruzione di Agata e Michael). Proprio questa consapevolezza fa sì che i progetti evolvano nel tempo, con ritorni sul campo, revisite e revisioni critiche del proprio materiale, in un dialogo aperto con pubblico e soggetti. Lungo tutta la sua produzione, la ricerca di un’etica della prossimità convive con un raffinato senso della messa in scena minima, dove posizioni del corpo, distanza di lavoro, altezza della fotocamera e profondità di campo contribuiscono alla costruzione del ritratto collaborativo.
Per i lettori alla ricerca dello stile fotografico di Bieke Depoorter, la sua biografia fornisce le coordinate di una pratica che, pur muovendo da premesse documentarie, si confronta con le categorie di identità, performance e rappresentazione. La sua storia personale, filtrata nel tempo da snodi come Ou Menya, I Am About to Call It a Day, As It May Be, Agata e Blinked Myself Awake, illustra come un’autrice possa tenere insieme rigore metodologico, sperimentazione formale e attenzione etica senza rinunciare alla leggibilità del racconto visivo.
Carriera e Stile Fotografico
La carriera di Bieke Depoorter si organizza in cicli progettuali che mettono alla prova generi e dispositivi del documentario. La fase iniziatica (2009–2012) coincide con Ou Menya, e già qui emerge un lessico visivo calibrato su inquadrature ravvicinate, linee di fuga domestiche, lampade da tavolo, cuscini, teli, stoviglie: frammenti concreti di esistenza che ancorano il ritratto all’habitat. È in questi interni che Depoorter definisce il suo punto di vista: altezza occhi, asse ottico stabile, leggera compensazione dell’esposizione per salvaguardare le alte luci delle lampadine e mantenere leggibili le ombre. La gamma dinamica del sensore full‑frame viene sfruttata per recuperi selettivi in post, con curve morbide e correzioni nel bilanciamento del bianco per gestire miscele di temperatura colore.
Con I Am About to Call It a Day (2014), l’autrice trasporta la stessa grammatica negli Stati Uniti, lavorando con autostop, strade secondarie, motel e case di passaggio. Il tema della soglia serale — il “quasi” prima di dormire — diventa dispositivo temporale e spaziale: la fotografia si appoggia su quei minuti liminali in cui le liturgie del riposo dispongono oggetti e persone in un ordine narrativo naturale. Dal punto di vista dell’edizione, l’autrice cura sequenza e respiro tra immagini, alternando campi medi e dettagli, facendo pesare il silenzio di pagine bianche e la grammatica del vuoto come parte integrante del racconto.
Il passaggio decisivo verso una dimensione dialogica si compie con As It May Be (2017, poi Aperture 2018): Depoorter restituisce le fotografie alle comunità egiziane che le abitano, chiedendo commenti manoscritti direttamente sulle stampe. Questo gesto apre la cornice e trasforma la pagina in spazio polifonico, dove coesistono elogio, critica, moralismi, contraddizioni. L’immagine smette di essere enunciato univoco e diventa campo di forze. Il lettore percepisce dissonanze testuali e culturali, comprese le tensioni sulla rappresentazione della femminilità, religione, norme sociali. L’operazione incide sullo statuto dell’autore: la firma non si dissolve, ma ospita altri sguardi.
Nella stessa stagione, la fotografa sperimenta la fiction minimale in Sète#15 (2015) e nel corto Dvalemodus (2017, con Mattias De Craene). Pur ritratti in situ, i soggetti diventano attori; la città notturna, con i suoi neon e le luci al sodio, fa da palcoscenico a azioni ridotte, gesti e posture che sospendono il reale in una temporalità onirica. La fotografia, qui, coincide con una pratica di regia leggera: scegliere luoghi, ore, cornici luminose, prossimità e distanze, piani di messa a fuoco che costruiscono una narrazione latente.
Con Agata (2017–2021) il dispositivo si fa relazionale e performativo: Depoorter incontra una giovane donna in un club parigino e avvia un laboratorio a due su identità, maschera, autodeterminazione dell’immagine. Il rapporto autrice–soggetto diventa materia del progetto; l’editing alterna ritratti, messaggi, prove, ambi-guìtà, lasciando che contratti di fiducia e frizioni affiorino editorialmente. Il tema dell’autorialità condivisa entra così in una zona grigia che interroga chi guarda: chi racconta chi? Con Michael (dal 2015), invece, Depoorter si misura con archivi personali (tre valigie di taccuini e appunti) ricevuti da un uomo incontrato a Portland e poi scomparso; qui la fotografa diventa ricercatrice e montatrice di tracce, oscillando tra documento e ipotesi narrativa.
Negli ultimi anni, la traiettoria si volge all’interno con Blinked Myself Awake (2024): notti di astrofili, osservatori e riferimenti alla storia dell’astronomia diventano allegoria della memoria e dell’oscurità. Le immagini dialogano con testi diaristici e citazioni storiche, spostando il baricentro dal sociale all’intimo. Il colore notturno si raffredda, la grana digitale (ISO elevati) diventa texture e la composizione asseconda geometrie tecniche (cupole, montature equatoriali, scale tecniche), in un equilibrio tra apparato scientifico e esperienza personale.
In tutto questo, lo stile fotografico di Bieke Depoorter resta coerente nella sua etica della vicinanza: tempi rapidi, diaframmi medi per isolare il soggetto nella stanza, messa a fuoco sul volto o su oggetti-soglia (porte, letti, tavoli) che mediano tra intimità e rappresentazione. La sequenza editoriale è parte dell’opera tanto quanto lo scatto: l’autrice pensa per libri fotografici, per mostre e per installazioni in cui i rapporti tra formato, carta, margini, tipografia e ordine delle immagini costruiscono senso. Nel complesso, la sua carriera dimostra come la Magnum Photos resti un contesto fertile per autori che, come lei, ibridano inchiesta, autorappresentazione e critica del medium.
Metodologie operative, tecniche e attrezzatura
L’assetto tecnico di Bieke Depoorter è funzionale alla mobilità e alla discrezione. La scelta tipica ricade su una full‑frame (spesso una Canon EOS 5D Mark IV o corpo equivalente in termini di ergonomia e tenuta ad alti ISO), con ottiche prime luminose — 50mm f/1.4 o f/1.2, 35mm f/1.4 per ambienti stretti, 85mm f/1.8 per ritratti più compressi. Tali focali consentono profondità di campo ridotte (f/1.8–f/2.8) che separano il soggetto, conservando però il contesto domestico. La messa a fuoco è spesso single‑point sul piano degli occhi, talvolta back-button focus per svincolare l’AF dallo scatto e mantenere la composizione.
In ambienti interni con illuminazione mista, il bilanciamento del bianco viene gestito in RAW con preferenza per Kelvin personalizzati o preset tungsteno e micro‑regolazioni in editing, così da conservare il respiro caldo delle lampade e il realismo dei LED domestici. La misurazione esposimetrica è orientata a preservare alte luci (metodo highlight‑weighted dove disponibile o spot sulle sorgenti più critiche), con compensazioni negative fino a –0,7 EV per non bruciare lampadine e schermi. Il range ISO operativo si colloca spesso tra ISO 1600 e 6400, con occasionali salite più in alto nelle scene notturne; la riduzione del rumore è contenuta, preferendo lasciare una grana digitale leggibile che mantenga micro-contrasto e texture.
Sul piano della composizione, Depoorter lavora con linee orizzontali stabili, cura la verticalità delle porte e utilizza cornici naturali (stipiti, tende, scaffali) per chiudere la scena. La distanza di lavoro è parte dell’etica: una prossimità rispettosa che non invade, ma condivide. La scelta di non usare il flash è coerente con la volontà di non interrompere il flusso del momento; in alcune situazioni, piccole lampade d’appoggio o aperture di tende diventano modificatori ambientali elementari. Dove possibile, l’autrice sfrutta riflessi e superfici chiare per schiarite passive e usa il controluce per generare silhouette morbide senza perdere l’identità del soggetto.
Il workflow post‑produzione privilegia software di sviluppo RAW con curva tonale morbida, color grading leggero e sincronizzazione dei parametri su sequenze di uno stesso interno per mantenere coerenza. L’accento cromatico cade sui toni della pelle; il verde dei neon viene mitigato con tinte magenta (+2/+5), mentre le scene a tungsteno sono raffreddate quel tanto che basta per evitare l’eccesso aranciato. La nitidezza viene gestita con mascherature mirate (solo bordi e occhi), evitando eccessi che artificializzerebbero il file.
Sul piano metodologico, il cosiddetto sleeping project implica una preparazione sociale più che tecnica: ascolto, presentazione di sé, spiegazione del progetto, negoziazione dei limiti (cosa si può fotografare, dove, quando), consenso informato e possibilità di revisione delle immagini con i soggetti. Depoorter sviluppa una liturgia dell’incontro: si entra, si parla, si osserva, si scatta poco e bene, ci si ferma. Tale economia di scatto riduce il rumore di macchina nella scena e favorisce una presenza non intrusiva.
Nei progetti collaborativi (come As It May Be e Agata), la tecnica si combina con supporti testuali e dispositivi editoriali. Scrivere sopra l’immagine o accostare messaggi, biglietti, appunti richiede una regia grafica: scelta di corpi tipografici, spazi bianchi, interlinee che mantengano leggibilità e gerarchia visiva tra fotografia e testo. L’impaginazione alterna pagine singole e aperture a doppia per modulare ritmo e impatto. Nel caso di Agata, la serialità di ritratti e interruzioni testuali è parte dello sviluppo drammaturgico: i vuoti diventano silenzio narrativo.
Il set notturno di Blinked Myself Awake introduce ulteriori considerazioni: tempi lenti su cavalletto per paesaggi stellati o tempi rapidi per fermare gesti e laser dei telescopi; ISO elevati con riduzione termica del rumore per esposizioni lunghe; filtri anti-inquinamento luminoso quando necessario. La composizione sfrutta simmetrie di cupole e curve delle montature equatoriali, il tutto mantenendo il respiro umano dei gruppi di astrofili, la condensa sui vetri, i riflessi di schermi e torce.
Dal punto di vista espositivo, Depoorter preferisce stampe pigment print su carte cotone a superficie opaca o semi‑matte, per conservare neri profondi e alti leggeri senza riflessi in galleria. La scala del formato viene calibrata in base alla distanza di visione: ritratti a mezzo busto reggono bene formati medi (40×50, 50×70), mentre interni complessi beneficiano di formati ampi (60×80, 70×100) per non perdere dettaglio. Le didascalie sono minime: luogo, anno, talvolta un titolo descrittivo; l’informazione contestuale è demandata a testi di sala e catalogo.
Questa rigorosa essenzialità attrezzata e metodologica, unita a un ascolto attivo e a una scrittura editoriale matura, spiega come la fotografa abbia saputo coniugare precisione tecnica e profondità relazionale, diventando riferimento per chi indaga ritratto collaborativo, libri fotografici e pratiche partecipative nello scenario contemporaneo.
Le Opere principali
- Ou Menya (Lannoo, 2011). Serie e libro nascono dai viaggi in Russia lungo il tracciato della Transiberiana. L’idea — chiedere ospitalità per una notte e fotografare — produce un corpus di immagini che restituisce ritmi domestici, oggetti quotidiani e corpi in riposo. La componente tecnica è minimale e calibrata all’ambiente: luce tungsteno, ISO alti, ottiche luminose che separano il soggetto senza perderne il contesto. L’opera vince il Magnum Expression Award e consacra il tema della prossimità etica. In termini di sequenza, la disposizione alterna ampie vedute di interni a dettagli (lenzuola, stoviglie, giocattoli), costruendo una mappa sensoriale della quotidianità.
- I Am About to Call It a Day (Edition Patrick Frey/Hannibal, 2014). La stessa metodologia viene traslata negli Stati Uniti: strade secondarie, case di passaggio, motel. Il libro scandisce il crepuscolo come tempo narrativo: lampade da comodino, televisori che colorano pareti, tende che filtrano luce da parcheggi. L’impaginazione studia pieni e vuoti per accompagnare il lettore verso il sonno. L’assenza di flash e la scelta del colore naturale preservano la temperatura emotiva della scena, dando al progetto una coerenza tonale che è diventata riferimento per molti autori.
- Sète#15 (Le Bec en l’air, 2015). Commissione/residenza nella città di Sète. Depoorter lavora di notte esplorando confini tra documentario e finzione. Le luci stradali, vetrine, neon illeggono il paesaggio urbano in campiture cromatiche che suggeriscono storie latenti. I soggetti, se presenti, sono attori minimi; talvolta bastano tracce — una finestra socchiusa, un riflesso — per costruire narrazione. La grana a ISO elevati diventa componente stilistica, mentre la composizione gioca su assi obliqui e tagli che sospendono la realtà.
- As It May Be (Hannibal, 2017; Aperture/Xavier Barral, 2018). Frutto di frequenti viaggi in Egitto dal 2011. La svolta è metodologica: Depoorter torna con stampe e chiede alla gente di scrivere sull’immagine. Il libro diventa palinsesto: calligrafie arabe, commenti, giudizi e confessioni condividono la pagina con la fotografia. Questo atto di apertura trasforma il progetto in dispositivo partecipativo e saggio visivo sulla rappresentazione. Dal punto di vista editoriale, la grafica impagina testi e immagini con gerarchie chiare, evitando che l’uno sovrasti l’altra: la forza è nella convivenza.
- Mumkin. Est-ce possible? (Éditions Xavier Barral, 2018). Estensione e variazione di materiali e temi sviluppati in Egitto. Il titolo (“È possibile?”) focalizza il nodo: che cosa è possibile dire con la fotografia? Il progetto accumula scene domestiche e scritture che riflettono su limiti culturali, aspettative e realtà. La tessitura editoriale lavora per serie tematiche, lasciando variazioni cromatiche e pattern architettonici guidare la lettura.
- Dvalemodus (film, 2017, co‑diretto con Mattias De Craene). Corto girato nel Nord della Norvegia durante l’inverno. La fotografia in movimento mantiene la poetica del crepuscolo e dell’oscurità prolungata. Suono e immagine si stringono in un racconto atmosferico: ghiaccio, vapore, respiri e rumori bassi costruiscono un paesaggio sensoriale coerente con la fotografia notturna dell’autrice. La traduzione dei suoi principi statici in timeline e montaggio fa emergere un tempo lento che dilata lo sguardo.
- Agata (autoedizione, 2021; imprint Des Palais). Incontro a Parigi che si fa laboratorio relazionale. Il libro è stratificato: ritratti, note, messaggi, prove di performance, incertezze e contratti di fiducia. L’autorialità è contesa e condivisa; la messa in scena è minima ma decisa: fondali naturali, luce controllata, posture che rivelano maschere e fragilità. Dal punto di vista tecnico, la ripetizione di inquadrature simili con variazioni di gesto e sguardo rende percepibile il processo, non solo il risultato.
- X. (2021). Progetto sperimentale che estende i temi di identità e rappresentazione verso una editorialità più rischiosa: sequenze spezzate, inserti, layout non lineari. Il titolo allude a un incognito, a ciò che resta non detto o non definito nel patto fotografico. Il riconoscimento tra i photobook dell’anno in selezioni museali internazionali ha consolidato la reputazione di Depoorter come costruttrice di libri oltre che fotografa.
- Michael (progetto in corso, avviato 2015). Un uomo incontrato a Portland consegna tre valigie piene di quaderni e ritagli; poi scompare. Depoorter adotta una metodologia d’indagine ibrida: analisi d’archivio, tracciamento di indizi, montaggio di materiali eterogenei. Il display espositivo alterna stampe, documenti, video, audio. Il risultato non è un true crime ma un saggio visivo su ossessione, assenza e rappresentazione dell’altro.
- Blinked Myself Awake (2024). Libro introspettivo sul cielo notturno come memoria condivisa (la luce stellare è tempo incarnato). Depoorter fotografa astrofili, osservatori, strumenti e fascinazioni; intreccia diari, citazioni e immagini. Dal punto di vista tecnico, alterna ISO elevati, tempi lunghi e cavalletto con ritratti a tempi rapidi alla luce di monitor e lampade rosse. Il risultato è un ordine cosmico domestico: l’universo entra nelle stanze attraverso schermi e strumenti, e la notte diventa scena per autoriflessione.
- Sète#15 – Edizioni e mostre. Oltre al libro, le installazioni hanno accentuato la dimensione cinematografica del progetto con stampe di grande formato, pareti scure e illuminazione radente che simula il buio urbano. L’esperienza dello spettatore è immersiva; il rumore della carta e la grana stampata entrano come materia dell’immagine.
- As It May Be – Edizione Aperture (2018). L’edizione americana ha introdotto selezioni e ritmi diversi, adattando il book design al circuito internazionale. Il dialogo tra gratuità del gesto scritto e rigore della fotografia è stato ottimizzato con layout che respira, margini generosi, stampa accurata dei neri per non perdere le calligrafie.
Insieme, queste opere delineano non soltanto le opere principali di Bieke Depoorter, ma anche un metodo: partire dall’incontro, disporre tempo e attenzione, costruire fiducia, accettare il conflitto e mettere a tema le condizioni stesse della rappresentazione. Ogni libro è tappa e strumento: luogo dove la fotografa rilegge sé stessa e ridefinisce il patto con i soggetti e con il pubblico. Per chi studia ritratto collaborativo, libri fotografici e pratiche partecipative, la produzione di Depoorter è una cassetta degli attrezzi: etica della prossimità, economia di mezzi, montaggio attento e editoria come spazio critico.
Fonti
- Wikipedia – Bieke Depoorter
- Magnum Photos – Profilo Bieke Depoorter
- LensCulture – Bieke Depoorter
- Biografia ufficiale – biekedepoorter.com
- FTN Blog – A Journey in Photography
- Hangar – Bieke Depoorter
- About Photography – Bieke Depoorter
- Arendt Art – Bieke Depoorter
Mi chiamo Marco Americi, ho circa 45 anni e da sempre coltivo una profonda passione per la fotografia, intesa non solo come mezzo espressivo ma anche come testimonianza storica e culturale. Nel corso degli anni ho studiato e collezionato fotocamere, riviste, stampe e documenti, sviluppando un forte interesse per tutto ciò che riguarda l’evoluzione tecnica e stilistica della fotografia. Amo scavare nel passato per riportare alla luce autori, correnti e apparecchiature spesso dimenticate, convinto che ogni dettaglio, anche il più piccolo, contribuisca a comporre il grande mosaico della storia dell’immagine. Su storiadellafotografia.com condivido ricerche, approfondimenti e riflessioni, con l’obiettivo di trasmettere il valore documentale e umano della fotografia a un pubblico curioso e appassionato, come me.


