La National Instruments Corporation prese forma nel 1976 ad Austin, Texas, grazie all’iniziativa di tre ingegneri motivati: James Truchard, Jeff Kodosky e Bill Nowlin. Tutti e tre avevano alle spalle esperienze nei laboratori di ricerca applicata dell’Università del Texas e condividono l’intento di trasformare idee rimaste “sullo scaffale” in prodotti concreti. Truchard e Nowlin erano specializzati in elettronica e design di circuiti, mentre Kodosky vantava una profonda conoscenza dei linguaggi software e degli strumenti di misurazione. Il pool di competenze copriva quindi l’intero ciclo di sviluppo di un prodotto di strumentazione: dalla progettazione hardware alla realizzazione del firmware fino all’interfaccia utente.
All’avvio l’azienda operava in uno spazio ridotto, una stanza retrostante al garage di Truchard, con un secondo laboratorio improvvisato nella piccola cucina di Kodosky. Il capitale iniziale fu modesto: un prestito di 10.000 USD da Interfirst Bank unito ai risparmi personali dei fondatori. Nonostante queste difficoltà logistiche, già nel 1977 fu assunto il primo dipendente non fondatore, Kim Harrison-Hosen, incaricato di gestire ordini, fatturazione e assistenza clienti. Il primo prodotto realizzato fu un’interfaccia per il bus UNIBUS del computer PDP-11, richiesta da un centro di ricerca dell’Air Force a San Antonio. Il successo di questo ordine garantì i primi flussi di cassa e consolidò il modello di business basato su strumentazione virtuale.
Nel 1978 l’azienda si trasferì in un ufficio più ampio di 600 ft² al 9513 Burnet Road ad Austin. Questo trasloco permise di strutturare stabilmente le linee di produzione delle schede elettroniche e creare una piccola dark room per collaudi ottici. L’investimento mirava a integrare il concetto di prodotto standard con un servizio di personalizzazione per clienti industriali e universitari. Mentre Truchard e Nowlin supervisionavano lo sviluppo hardware, Kodosky iniziò a studiare le basi di un linguaggio grafico che consentisse all’utente finale di progettare strumenti di misura in modo intuitivo, senza scrivere righe di codice.
In questa fase iniziale la mission si focalizzò su tre pilastri: affidabilità, usabilità e scalabilità. L’affidabilità era garantita dalla rigorosa selezione dei componenti elettronici, dall’impiego di processi di produzione in house e da procedure di testing accelerate. L’usabilità venne perseguita attraverso manuali dettagliati, corsi di formazione e supporto telefonico diretto, un servizio pionieristico per l’epoca. Infine, la scalabilità di sistema era assicurata da un’architettura modulare: le schede per l’acquisizione dati potevano essere inserite nei principali bus di espansione, consentendo l’espansione delle capacità senza riprogettare l’intero setup.
Il profilo dei fondatori influenzò anche il modello organizzativo: gerarchie piatte, processi decisionali rapidi e un ambiente collaborativo che premiava l’innovazione. Non venivano separati nettamente R&D, produzione e supporto tecnico, ma si favoriva un approccio interfunzionale. Questo permise di portare sul mercato in pochi mesi nuove versioni di interfacce GPIB (General Purpose Interface Bus) per computer IBM e Digital Equipment Corporation, consolidando la reputazione di fornitore affidabile.
Parallelamente, la domanda di soluzioni di automazione e misura cresceva negli Stati Uniti, stimolata dall’espansione dei settori aerospaziale, automotive e della ricerca universitaria. National Instruments sfruttò questa congiuntura dedicando risorse a studi di settore e partecipando a fiere tecniche, dove dimostrava dal vivo l’integrazione hardware-software. Il feedback raccolto contribuì a raffinare i progetti, definendo un ciclo di sviluppo basato su prototipi funzionali e test sul campo. L’approccio “fail fast, learn fast” accelerò il time-to-market e permise di instaurare partnership tecnologiche con aziende come IBM e Motorola.
In sintesi, la fase iniziale di National Instruments si contraddistinse per una combinazione di competenze ingegneristiche, modelli di produzione snella e servizi a valore aggiunto. La coesione del team, unita all’attenzione al cliente e all’innovazione nei processi, pose le basi per l’espansione futura e trasformò una piccola startup in un punto di riferimento per la strumentazione virtuale.
Sul finire degli anni Ottanta National Instruments consolidò la propria leadership tecnologica grazie a due linee distinte ma strettamente integrate: l’hardware modulare per l’acquisizione dati e l’ambiente software per la progettazione di strumenti virtuali. Nel 1983 venne lanciata la prima scheda GPIB per IBM PC, che assicurò la compatibilità con la piattaforma più diffusa a livello desktop. Questo prodotto segnò la transizione da soluzioni custom-taylor a un’offerta off-the-shelf, in grado di servire un mercato più ampio senza interventi di ingegneria su misura.
Il cuore dell’innovazione risiedeva però in LabVIEW, progetto concepito da Jeff Kodosky. A metà anni Ottanta, dopo un ciclo di prove su workstation Macintosh, l’azienda rilasciò la versione 1.0 di LabVIEW, un ambiente di sviluppo visuale basato su diagrammi a flusso (G programming). Questo linguaggio grafico rivoluzionò il modo di programmare sistemi di misura permettendo di trascinare icone representative di funzioni di acquisizione, elaborazione, controllo e visualizzazione, collegandole con “fili” digitali. L’utente finale poteva così creare in modo intuitivo un sistema di misura capace di gestire sensori, attuatori e interfaccie strumentali, senza scrivere codice testuale.
Nel 1987-88 fu il turno di LabWindows/CVI, un ambiente testuale basato sul linguaggio C, destinato agli ingegneri più esperti che necessitavano di codice ad alte prestazioni e integrazione con librerie esterne. LabWindows/CVI offrì un’alternativa ibrida: si potevano costruire interfacce grafiche utente (GUI) con strumenti drag-and-drop e combinare moduli di analisi numerica con routine C personalizzate. Questa strategia multi-linguaggio solidificò la posizione di National Instruments nel mercato scientifico e industriale, attraendo sia gli utenti neofiti sia i programmatori professionisti.
Sul fronte hardware, l’azienda ampliò continuamente la gamma di prodotti: dalle prime schede di acquisizione dati per bus ISA a quelle per bus MCA, fino all’introduzione di soluzioni CompactPCI e, successivamente, allo sviluppo della linea PXI (PCI eXtensions for Instrumentation). Le architetture PXI rispondevano alle esigenze di modularità, scalabilità e sincronizzazione temporale su più canali, fondamentali nei test di produzione ad alto volume e nelle applicazioni radar e telecomunicazioni. Ogni modulo PXI era caratterizzato da specifiche IEEE, controllo di backplane ad alta velocità e opzioni di timing e triggering sofisticate, consentendo lo sviluppo di sistemi di misura distribuiti e sincroni su centinaia di canali.
L’integrazione tra hardware e software permise di realizzare applicazioni complesse: dalla strumentazione di prova automatizzata, al controllo di linee di produzione, fino ai sistemi di acquisizione dati per esperimenti scientifici. L’introduzione nel 2000 del concetto di real-time tramite la piattaforma cRIO (CompactRIO) aggiunse il controllo deterministico alle misure, utilizzando processori FPGA per operazioni di controllo a livello hardware. Questa evoluzione spinse NI verso nuovi mercati, come l’automazione industriale e l’aerospazio, dove la latenza e l’affidabilità erano requisiti imprescindibili.
Parallelamente, l’azienda iniziò a investire in visione artificiale integrata, con moduli cameraLink e software Vision Development Module. Questi tool consentivano di implementare algoritmi di elaborazione immagini per ispezione qualità, tracking, riconoscimento pattern e calibrazione di sistemi ottici. L’offerta si allargò ulteriormente con TestStand, un framework per la gestione di suite di test ad alto volume, capace di orchestrare sequenze di prova, raccogliere risultati e generare report personalizzati.
Il modello di strumentazione virtuale si consolidò come paradigma: usare PC comuni per controllare hardware modulare, realizzare interfacce utente dedicate e integrare funzioni di analisi in un ambiente unificato. Questo approccio si oppose alle tradizionali strumentazioni standalone, caratterizzate da firmware chiuso, display fissi e costi di personalizzazione elevati. La filosofia NI, invece, sanciva che il software potesse diventare lo strumento ingegneristico principale, con hardware deputato al ruolo di sensore/attuator.
In questo modo National Instruments si affermò come leader nel mercato delle misure e dell’automazione, con punte di crescita annua superiori al 30% tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90. Il costante aggiornamento tecnologico, supportato da un forte investimento in R&D, generò un ecosistema di partner, distributori e utenti che contribuì a diffondere il concetto di virtual instrumentation a livello mondiale.
Alla fine del XX secolo National Instruments affrontò una fase di rapida espansione organizzativa e geografica. Nel 1994 fu costituita la sede legale in Delaware, scelta basata su vantaggi fiscali e regolamentari. Contemporaneamente si ampliò il campus di Austin fino a 69 acri, aggiungendo nuovi laboratori R&D, sale di collaudo e un vasto centro di produzione automatizzata. La certificazione ISO 9002 ottenuta nello stesso anno attestò la qualità dei processi produttivi e contribuì a ottenere commesse in settori regolamentati come quello aerospaziale e medicale.
La quotazione al NASDAQ nel 1995 segnò un passaggio cruciale: furono emesse 3 milioni di azioni, raccogliendo circa 39,6 M USD. Questa iniezione di capitale permise di potenziare gli sforzi di ricerca, aprire uffici commerciali in Europa e Asia e creare un programma di formazione per ingegneri e docenti universitari, finalizzato alla diffusione di LabVIEW. La strategia di internazionalizzazione previde l’apertura di filiali in Giappone, Germania, Regno Unito e Cina, con laboratori di supporto tecnico e training center locali.
Negli anni successivi, NI avviò una serie di acquisizioni mirate a colmare lacune nella propria offerta tecnologica. Nel 2005 l’acquisto di Measurement Computing rafforzò il portafoglio hardware DAQ a basso costo, utile per applicazioni didattiche e entry-level. Nel 2013 Digilent Inc. venne integrata per ampliare il presidio sulle università e la comunità dei maker, grazie ai moduli Pmod e FPGA didattici. Oltre a queste, furono rilevate startup specializzate in IoT, automazione embedded e software di analisi dati, con l’obiettivo di estendere la piattaforma NI verso nuovi segmenti di mercato.
La rete di produzione globale fu progressivamente estesa. Oggi il principale stabilimento è a Debrecen, Ungheria, che copre circa il 90 % della capacità produttiva, grazie a processi di assemblaggio robotizzato e collaudi automatici. Gli uffici R&D si trovano negli Stati Uniti, in Germania, in India, in Cina e in Brasile, per garantire un presidio costante sulle esigenze dei clienti in ogni continente.
Dal punto di vista organizzativo, NI mantiene una struttura matriciale che favorisce la collaborazione tra team di prodotto, vendite e marketing globale. Le decisioni strategiche sono prese da un comitato esecutivo che include rappresentanti di R&D, finanza, operations e vendite. Ogni business unit – prodotto hardware, software, servizi – gestisce un proprio ciclo di vita, ma con metriche comuni di qualità, tempo di rilascio e soddisfazione del cliente.
La spinta all’innovazione continua è sostenuta da programmi interni di “innovation challenge” e da partnership con università d’eccellenza in ingegneria. Il dipartimento di R&S conta oggi migliaia di ingegneri e scienziati impegnati nello sviluppo di tecnologie emergenti: architetture embedded real-time, cloud integration, machine learning per analisi dati e piattaforme di automazione remota.
Con una forza lavoro globale superiore a 5.000 persone e un fatturato annuo che ha superato il miliardo di dollari, National Instruments continua a essere una realtà pionieristica nel panorama della strumentazione virtuale. L’evoluzione dal garage di Austin alla multinazionale globale testimonia la solidità del modello di business basato su prodotti standard, modulari e altamente integrati, accompagnati da un forte supporto tecnico e formativo in ogni mercato di riferimento.

Sono Manuela, autrice e amministratrice del sito web www.storiadellafotografia.com. La mia passione per la fotografia è nata molti anni fa, e da allora ho dedicato la mia vita professionale a esplorare e condividere la sua storia affascinante.
Con una solida formazione accademica in storia dell’arte, ho sviluppato una profonda comprensione delle intersezioni tra fotografia, cultura e società. Credo fermamente che la fotografia non sia solo una forma d’arte, ma anche un potente strumento di comunicazione e un prezioso archivio della nostra memoria collettiva.
La mia esperienza si estende oltre la scrittura; curo mostre fotografiche e pubblico articoli su riviste specializzate. Ho un occhio attento ai dettagli e cerco sempre di contestualizzare le opere fotografiche all’interno delle correnti storiche e sociali.
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Sono anche una sostenitrice della conservazione della memoria visiva. Ritengo che le immagini abbiano il potere di raccontare storie e preservare momenti significativi. Con un approccio critico e riflessivo, invito i miei lettori a considerare il valore estetico e l’impatto culturale delle fotografie.
Oltre al mio lavoro online, sono autrice di libri dedicati alla fotografia. La mia dedizione a questo campo continua a ispirare coloro che si avvicinano a questa forma d’arte. Il mio obiettivo è presentare la fotografia in modo chiaro e professionale, dimostrando la mia passione e competenza. Cerco di mantenere un equilibrio tra un tono formale e un registro comunicativo accessibile, per coinvolgere un pubblico ampio.