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La macchina fotograficaFotocamere panoramiche

Fotocamere panoramiche

Con fotocamera panoramica si intende una macchina fotografica progettata per registrare un campo visivo orizzontale molto più ampio del normale, spesso superiore ai 120–160° fino a coprire 360° continui, generando immagini con rapporto d’aspetto allungato (2:1, 3:1 o più) o panoramiche circolari complete. A differenza di una semplice ripresa “grandangolare”, qui l’estensione della scena e il modo in cui il sensore/pellicola viene scansito sono parte intrinseca del processo: ciò può avvenire tramite obiettivi oscillanti su una finestra a fessura davanti a un piano pellicola curvo (sistemi “swing‑lens”), oppure tramite rotazione dell’intera camera mentre la pellicola scorre dietro una fessura (sistemi “rotary” o “full‑rotation”), oppure ancora per assemblaggio di lastre o file digitali contigue. In termini pratici, non basta una lente molto corta montata su un corpo tradizionale per parlare di “panoramica”: conta la copertura angolare e/o il rapporto d’aspetto ben oltre i formati standard, secondo una tradizione che precede la fotografia stessa.

La categoria è importante nella storia della fotografia perché ha risposto fin da subito al desiderio di rappresentare città, paesaggi, schieramenti militari e grandi gruppi con leggibilità di dettaglio e immersività altrimenti irraggiungibili. Già nei decenni immediatamente successivi al 1839, i fotografi ottenevano panorami unendo più dagherrotipi affiancati—un procedimento laborioso che anticipa l’odierna “stitching photography” digitale. L’evoluzione tecnica ha poi portato, a metà Ottocento, alla progettazione di fotocamere dedicate capaci di curvare il supporto sensibile e scandire l’immagine durante l’esposizione, creando strisce continue ad altissima definizione su metallo, vetro o pellicola. Queste soluzioni hanno plasmato non solo l’estetica del paesaggio, ma anche la documentazione storica e l’iconografia urbana, fino ad arrivare, nel Novecento, alle spettacolari Cirkut da 360° per ritratti di massa e vedute cittadine su rotoli lunghissimi, e, negli anni ’50–’60, alla rinascita in formato 35 mm con fotocamere a obiettivo oscillante (Widelux, Horizont) tanto care a cineasti e autori.

Dal punto di vista tecnico‑fotografico, le fotocamere panoramiche costringono a ripensare prospettiva, parallasse, orizzonte e distorsioni: con i sistemi a fessura l’immagine viene scritta nel tempo lungo un arco, il che introduce effetti di “slit‑scan” (slittamento/tempo spazializzato), stretching locale e vincoli di livellamento non banali; l’uso di piani pellicola cilindrici riduce l’errore di proiezione e consente campi di 120–150° in un singolo fotogramma, mentre sui sistemi full‑rotation è possibile coprire 180–360° con uniformità d’esposizione solo se la rotazione e l’avanzamento pellicola sono perfettamente coordinati. In ambito digitale, le teste panoramiche e i software di stitching hanno democratizzato il genere; tuttavia, sul piano storico e percettivo, le fotocamere panoramiche dedicate hanno creato un linguaggio in cui tempo, spazio e movimento della camera si fondono in un’immagine che non è semplice “grandangolo” ma geometria in azione.

Ai fini di questo articolo—pensato per un sito di storia della fotografia—assumeremo come “data di nascita del genere panoramico” l’anno 1845, quando Friedrich (Frédéric) von Martens presentò la Megaskop‑Kamera, considerata la prima fotocamera panoramica di successo tecnico, con obiettivo basculante e piastre curve per circa 150° di copertura. È un punto fermo che lega l’idea artistica sette‑ottocentesca di panorama dipinto alla pratica fotografica industriale.

Origini storiche

Ben prima della fotografia, a fine Settecento Robert Barker coniò il termine “panorama” per indicare dipinti a 360° esposti in rotonde costruite ad hoc a Londra, avviando una moda immersiva che preparò il terreno culturale. Con l’arrivo della fotografia (1839), si tentò presto di tradurre quell’immersività in immagine ottica: inizialmente per accostamento di più lastre (dagherrotipi o carte), poi con macchine dedicate.

Il primo passo progettuale verso una vera fotocamera panoramica risale al 1843, quando l’austriaco Joseph Puchberger ottenne un privilegio/“patente” per un apparecchio a obiettivo oscillante a manovella su piastre curve (dagherrotipo); il dispositivo copriva circa 150° ma non giunse a una diffusione pari ai progetti successivi. La primogenitura è stata a lungo attribuita esclusivamente a Martens, ma studi storici richiamano il ruolo pionieristico di Puchberger e dell’ottico Wenzel Prokesch nella Vienna degli anni ‘40.

La svolta arriva con Friedrich (Frédéric) von Martens (n. 1806, Venezia; m. 1875, Parigi): nel 1845 egli brevetta e disegna la Megaskop‑Kamera, un dispositivo a obiettivo basculante comandato da ingranaggi e manovella, che espone piastre curve (initialmente dagherrotipi 4,7″×15″) lungo un arco di ~150°. Dalla collezione della Photographic History dello Smithsonian emergono disegni meccanici originali e stampe albuminate di vedute parigine realizzate tra 1844–1856, testimonianza concreta di un apparato funzionante e ripetibile: per questo la Megaskop è spesso considerata la prima fotocamera panoramica riuscita.

Gli anni ’50 dell’Ottocento vedono anche sperimentazioni come la Sutton Panoramic Camera (brevetti di fine 1850s, con lente riempita d’acqua per ridurre l’aberrazione su campo ampio) e, in parallelo, la pratica compositiva di panorami a più lastre nell’America della Guerra Civile (George Barnard), dove vedute di fortificazioni e terreni militari venivano stampate su carta da due‑quattro negativi bagnati, poi montati “a striscia”. Questo filone “mosaico” restò attivo per decenni, in bilico tra pittorico e documentario.

Con l’introduzione della pellicola in rullo (1888), la pratica panoramica si industrializza. Alla fine dell’Ottocento, Kodak lancia le Panoram (n. 4, 1899) con pellicola curva e obiettivo oscillante, democratizzando l’accesso alle 180° per gli amatori. Poco dopo, nei primi Novecento, arriva la rivoluzione degli apparecchi “rotary”: la Cirkut (brevetto 1904 a William J. Johnston; produzione dal 1905 a Rochester, poi nel gruppo Eastman Kodak) ruota l’intera camera mentre avanza la pellicola dietro una fessura, consentendo panorami fino a 360° su film larghi (5–16″) e lunghi fino a metri. Le Cirkut diventano strumenti di lavoro per fotografi commerciali, celebri per ritratti di massa (scuole, eserciti) e vedute urbane monumentali.

Il Novecento centrale alterna specialismi professionali e oggetti di culto. Dopo le Cirkut, la grande stagione “swing‑lens” riemerge con forza nel dopoguerra e negli anni ’50–’60: tra le icone, la Widelux (Giappone, Panon Camera Shoko, progetto 1958, produzione dal 1959), che con obiettivo da 26 mm oscillante e piano pellicola cilindrico produce fotogrammi 24×56/59 mm abbracciando ~126–140°. La Widelux entrerà persino nei set cinematografici—celebre l’uso dell’attore‑fotografo Jeff Bridges—e volerà nello spazio in versioni modificate, mentre in Europa fioriscono strumenti come le Noblex (Germania, Kamera Werk Dresden, prima serie 1992) con rotazione motorizzata e accessori metering dedicati.

Sul fronte medio formato, gli anni ’80–’90 sono l’età d’oro dei 6×17 su rullo: la Linhof Technorama 617 (serie storiche dagli anni ’70, poi 617S/617S II/617S III), e le Fuji G617 (1982) e GX617 (1993)—quest’ultima con ottiche intercambiabili 90/105/180/300 mm—definiscono la poetica del 3:1 su 120/220 con quattro od otto esposizioni per rullo, costruendo un’estetica “large‑format on roll film” che ancora oggi affascina per nitidezza e ampiezza di campo. In parallelo, Hasselblad XPan/Fuji TX‑1 (1998) porta in 35 mm il formato 24×65 mm con lenti dedicate (30/45/90) e commutazione istantanea tra panoramico e standard sullo stesso rullo, unendo praticità da telemetro e ingegneria da medio formato.

Evoluzione tecnologica

Il cuore tecnico delle fotocamere panoramiche è la geometria della proiezione e il metodo di scansione della pellicola/sensore. Le architetture storiche principali sono due.

La prima è la swing‑lens (obiettivo oscillante). L’ottica, montata su una testa rotante, ruota durante l’esposizione dietro una fessura; la pellicola, curvata su un arco cilindrico, riceve riga per riga l’immagine mentre il fascio ruota. È una vera fotografia a scansione: si genera un tempo spazializzato (ogni punto orizzontale è esposto in istanti diversi), con distorsioni caratteristiche se il soggetto si muove o se la camera non è perfettamente in bolla. Il vantaggio è una uniformità di campo con obiettivi corti senza ricorrere a lenti super‑rettilineari estreme; lo svantaggio è l’impossibilità dell’uso del flash (la fessura “taglia” il lampo) e la necessità di tempi di rotazione stabili per evitare banding. Strumenti come la Widelux (varie serie F, 1959–2000) o le Noblex (dal 1992) hanno perfezionato questo principio, introducendo sulle seconde anche controlli elettronici della rotazione (Panolux) per compensare scene con luminanze diverse lungo l’arco.

La seconda è la rotary/full‑rotation. Qui l’intera camera ruota su asse verticale mentre la pellicola scorre orizzontalmente dietro una fessura: è il caso della Cirkut (1904 brevetto, produzione 1905–1949 circa). L’unità mobile integra un orologeria che sincronizza rotazione della camera e trascinamento del film, garantendo esposizione uniforme lungo decine di centimetri o metri di negativo; il campo può raggiungere e superare i 360°. Il sistema, per sua natura, è modulare: si poteva combinare un campo macchina (p.es. Cycle Graphic 5×7″) con un “Cirkut back” dedicato, ottenendo la versione No. 6; i formati No. 8/10/16 indicavano la larghezza del film in pollici. In mani esperte, la Cirkut produce dettaglio gigantesco (negativi da oltre 2 m² di superficie apparente) con una resa prospettica unica.

Sul versante ottico, le panoramiche storiche hanno attraversato fasi diverse. Le Megaskop di Martens facevano uso di ottiche costruite per dagherrotipo su piastre curve; il già citato Sutton (1859–61) sperimentò un obiettivo a liquido per “aprire” l’angolo con aberrazione controllata; nel Novecento, le swing‑lens compatte adottano focali 26–28 mm (su 35 mm) con slit di pochi millimetri, mentre i 6×17 montano grandi angolari da 72–105 mm su otturatori centrali con filtri centrali (“center filter”) per bilanciare la caduta di luce ai bordi di un formato lungo 17 cm. La Linhof 617 e la Fuji GX617 hanno consolidato un kit tipico: 90/105 mm come “normali” del 6×17, 180–300 mm per compressione prospettica su 3:1.

Un capitolo a parte è la prospettiva. Le fotocamere swing‑lens e rotary non producono proiezioni rettilineari come un ultra‑wide su piano: la loro geometria è vicina alla proiezione cilindrica; le linee verticali restano verticali se la camera è perfettamente in bolla, ma l’orizzonte assume un’arcuatura quando si inclina la camera. Ciò spiega perché strumenti professionali includano livelle a bolla visibili anche nel mirino e perché, in architettura, si usino shift o teste livellanti. Nelle rotary 360° la distribuzione angolare è ancora più critica: il passo di rotazione e la vite di trascinamento devono mantenere costanza estrema, altrimenti l’immagine mostra compressioni/espansioni locali. La letteratura tecnica su slit‑scan aiuta a capire il fenomeno: si tratta, in fondo, dello stesso principio di otturatori a fessura e “strip photography” applicato allo spazio panoramico.

Con l’avvento del digitale, due strade hanno ridefinito il genere. Da un lato, i sistemi “stitched”: teste panoramiche che ruotano la fotocamera attorno al punto nodale riducendo la parallasse, e software in grado di unire decine/centinaia di scatti in proiezioni cilindriche/sferiche (discendenti concettuali delle pratiche ottocentesche di affiancamento lastre). Dall’altro, le camere 360° e i sistemi multi‑ottica che generano automaticamente panorami sferici per Street View e VR. In entrambi i casi, sebbene la tecnologia sia diversa, la matematica della proiezione e i problemi di uniformità (vignettatura, differenze d’esposizione) riecheggiano sfide già note alle generazioni Cirkut e Widelux. L’impalcatura storica fornita da Library of Congress e NMAH/Smithsonian—dagli albumen panoramici alle macchine—mostra una continuità sorprendente tra secolo XIX e workflow odierni.

Caratteristiche principali

In una fotocamera panoramica, quattro blocchi determinano la resa.

Il primo è la meccanica di scansione. Nei sistemi swing‑lens il passo angolare e la costanza di velocità della torretta sono vitali: un attrito o una molla stanca producono banding (strisce più chiare/scure). La Widelux fu amata anche per il suo carattere: la resa “liquida” dell’oscillazione è parte dell’estetica, ma richiede manutenzione dei ferodi e dei treni d’ingranaggi. Le Noblex introdussero motorizzazioni e moduli come il Panolux per un controllo esposimetrico più vicino all’automazione, fino a permettere variazioni di velocità lungo il frame per compensare disuniformità di luce tra lati opposti della scena.

Il secondo è la geometria del piano pellicola. Un piano curvo mantiene distanza costante tra punto nodale e emulsione durante la rotazione, assicurando nitidezza uniforme senza ricorrere a gruppi ottici correttivi estremi. Nelle rotary come le Cirkut, l’insieme camera‑pellicola si comporta come uno scanner ottico: una fessura scrive l’immagine su un film che scorre; la curvatura è sostituita dalla traslazione sincrona della pellicola stessa. Il risultato è un negativo lunghissimo con micro‑dettaglio che, su stampe di grande formato, rende ogni volto riconoscibile in platee di centinaia di persone.

Il terzo è l’ottica. Nelle swing‑lens 35 mm una focale attorno a 26–29 mm con slit da circa 1–2 mm e piani 24×56/66 mm produce 126–140° con distorsioni “proprie” della proiezione cilindrica. Nelle 6×17 le focali 90–105 mm hanno cerchi d’immagine ampi (filtri centrali obbligati) per mantenere illuminazione e risolvenza fino agli estremi di un frame lungo 172 mm; la Linhof 617 S III porta questo concetto a sistema con ottiche intercambiabili e accessori professionali. La Fuji GX617 (1993) uscirà con 4 ottiche (90/105/180/300) e relativi mirini dedicati, integrando otturatori Copal 0 1–1/500 s e alimentazione CR123A per l’attuazione del comando.

Il quarto è la fruibilità/composizione. Il livellamento è non negoziabile: un solo grado di tilt può generare un orizzonte arcuato irreversibile. Per questo i corpi 6×17 incorporano livelle nel mirino o sul castello; i manuali storici raccomandano treppiede e spirit level. La XPan/TX‑1 (1998) offre un compromesso moderno, con telemetro, AE, motorizzazione e doppio formato: utile per alternare 24×36 e 24×65 senza cambiare rullo, preservando l’idea panoramica in mobilità. La XPan mostra anche come un formato 65×24 possa essere “media‑format like” per resa su stampa, pur rimanendo su pellicola 135.

Sul piano concettuale, le panoramiche introducono nozioni che in fotografia tradizionale sono marginali: la conservazione dell’angolo verticale (attenzione alla verticale in architettura), la curvatura dell’orizzonte come firma percettiva della proiezione cilindrica, il tempo di scansione come variabile creativa (soggetti “doppi” nella stessa immagine perché hanno corso “in anticipo” sulla torretta—un gioco noto a chi scatta con Widelux in classe o sul set). Nelle rotary il tempo‑immagine è addirittura “steso”: soggetti che si muovono alla stessa velocità angolare della camera risultano quasi immobili, altri si deformano. È lo stesso principio dello slit‑scan cinematografico—qui applicato a realtà documentaria.


Utilizzi e impatto nella fotografia

Dal paesaggio all’architettura, dai ritratti collettivi ai documenti militari, le fotocamere panoramiche hanno ampliato l’alfabeto visivo. Nel XIX secolo i panorami multi‑lastra e poi le prime camere panoramiche offrivano letture topografiche e urbanistiche altrimenti impossibili; nell’America della Guerra Civile, ad esempio, George N. Barnard realizzò vedute di fortificazioni come strumenti d’analisi per ingegneri militari. Questa funzione “strategica” conviveva con l’esigenza di meraviglia: trasformare un belvedere in un racconto continuo lungo un metro.

Con le Cirkut il genere diventa industria: le grandi foto di scuole, reparti, assemblee—“serpenti” di carta in cui leggere centinaia di volti—diventano merci e memorie di comunità. L’impatto grafico è enorme: un fotogramma unico a 360° imprime al pubblico una geografia sociale riconoscibile, tanto che ancora oggi molte istituzioni conservano archivi Cirkut come patrimonio storico. La tecnica influenza anche l’estetica: la possibilità di includere molti soggetti senza perdere identità alimenta un genere a sé, tra documento e spettacolo.

Negli anni ’50–’60, la rinascita swing‑lens in 35 mm riporta la panoramica alla scala personale. Con Widelux e poi Horizon/Noblex, la prospettiva cilindrica diventa linguaggio autoriale: Jeff Bridges documenta i set cinematografici, fotografi d’avanguardia esplorano il tempo disteso della fessura, e l’immagine panoramica si fa narrativa—periferica, coinvolgente, “quasi cinema”. Anche i musei e le collezioni istituzionali (Smithsonian, Library of Congress) registrano l’evoluzione del panorama come arte oltre che tecnica: dal dagherrotipo alle stampe albuminate fino ai rotoli di carta dei primi Novecento.

Nel settore professionale (paesaggio e architettura), i 6×17 hanno segnato una stagione irripetibile: la Linhof 617 e la Fuji GX617 sono diventate strumenti per vedute monumentali, cieli drammatici e linee di fuga che richiedono discipline operative precise—livella, treppiede, filtri graduati dimensionati per 172 mm di base. La superficie negativa paragonabile a un 4×5″ in altezza, allungata a 17 cm in larghezza, consente stampe enormi con microcontrasto e tonalità che hanno reso iconiche molte campagne editoriali e pubblicitarie di fine Novecento.

Sul fronte sociale/culturale, le panoramiche hanno contribuito alla costruzione della memoria collettiva. Gli archivi panoramici ospitati in biblioteche e musei statunitensi testimoniano non solo luoghi e opere ma comunità intere ritratte sotto forma di “linee umane” in spazi pubblici, con una densità informativa che difficilmente una singola immagine rettangolare standard può veicolare. La Library of Congress fornisce risorse didattiche sulla storia del panorama, mettendo in luce l’importanza del formato per storia urbana, trasporti, ambiente e conflitti.

Con il digitale, due impatti sono stati decisivi. Primo: il panorama assemblato è diventato di massa (dallo smartphone alle teste robotizzate), cambiando la percezione popolare del formato e spingendo i fotografi a dialogare tra proiezioni (cilindrica, sferica, rettilineare) come scelte estetiche oltre che tecniche. Secondo: l’integrazione con la cartografia (p.es. Google Street View) e con il VR ha reso la panoramica un linguaggio spaziale dove l’utente naviga; storicamente è una migrazione coerente con le rotonde ottocentesche di Barker, ma ora potenziata da interattività e metadati. Il paesaggio fotografico contemporaneo incorpora così la lezione di Martens e delle Cirkut nella geografia digitale.

Curiosità e modelli iconici

Tra le curiosità fondative spicca la Megaskop‑Kamera di Friedrich (Frédéric) von Martens: inventata nel 1845, funzionante e premiata (medaglie al Great Exhibition 1851 e Exposition Universelle 1855), la sua meccanica a ingranaggi e piastre curve (dagherrotipiche, poi vetro collodio) produceva panorami ~150°; nelle collezioni dello Smithsonian si trovano disegni originali e stampe che immortalano la Parigi di metà Ottocento. Martens: n. 1806, Veneziam. 1875, Parigi. Data “di nascita” del genere: 1845, come esordio della fotocamera panoramica di successo.

La Cirkut è il mostro sacro del 360° su pellicola: brevetto 1904, produzione 1905–1949; formati No. 5/6/8/10/16, lunghezze fino a 6–18 piedi (e oltre nelle versioni grandi). L’unità motrice dal sapore orologiero sincronizzava rotazione e trascinamento; i negativi giganteschi hanno consentito stampe in cui si leggono i bottoni delle giacche di chi sta in fondo. Una fotografia “di massa” nel senso letterale—e oggi un oggetto da restauro amato da collezionisti e studiosi.

La Widelux—nata 1958/1959 per il 35 mm—è l’icona swing‑lens: una camera meccanica pura con torretta oscillante e slit che ha dato alla fotografia un “panning incorporato”. Jeff Bridges la trasformò in strumento d’autore; i suoi “making‑of” panoramici su set cinematografici hanno reso popolare il “tempo disteso” e gli effetti acrobatici (soggetti che compaiono due volte se corrono attorno alla torretta). Oggi il mito Widelux vive una rinascita: nel 2024 la società SilverBridges ha annunciato il progetto Widelux·X, revival puramente meccanico previsto per 2025, mentre testate fotografiche seguono gli avanzamenti del prototipo.

Nel 3:1 su rullo, le Linhof Technorama 617 e la Fuji GX617 (1993) rappresentano due vie maestre: la prima come sistema modulare tedesco—dalle versioni S II/S III con ottiche intercambiabili e accessori professionali, mirini dedicati, dark slide—la seconda come strumento giapponese robusto e preciso, con quattro ottiche e mirini dedicati, otturatori centrali Copal, 4 scatti su 120 e 8 su 220. Entrambe hanno formato generazioni di paesaggisti; i depliant tecnici Linhof e i manuali Fuji restano letture istruttive su ergonomia e tecnica di ripresa panoramica.

Infine, la Hasselblad XPan / Fuji TX‑1 (1998) merita una nota speciale: telemetro in titanio/alluminio, formato duale 24×36/24×65 sul medesimo rullo, motore e AE moderni, lenti 30/45/90 con cerchi d’immagine abbastanza ampi per il 65 mm di larghezza. La XPan II (2003) migliora LCD nel mirino, bulb fino a 540 s, e piccoli affinamenti. La produzione complessiva è limitata (≈16.800 + 5.500 unità), ragione della rarità odierna: uno dei ponti più riusciti tra pratica 35 mm e estetica panoramica “quasi medio formato”.

Fonti 

Curiosità Fotografiche

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