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Anton Corbijn

Anton Johannes Gerrit Corbijn van Willenswaard, conosciuto come Anton Corbijn, nacque il 20 maggio 1955 a Strijen, nei Paesi Bassi. Cresciuto in una famiglia protestante, con il padre pastore della Chiesa Riformata e la madre infermiera, Corbijn ebbe fin dall’infanzia un rapporto intimo con l’osservazione del mondo circostante, favorito dal silenzio e dalla disciplina della sua educazione religiosa. Nonostante l’ambiente conservatore, sviluppò presto un interesse per la musica e per l’immagine, due dimensioni che avrebbero segnato indelebilmente la sua carriera.

Corbijn non è soltanto un fotografo ma anche un regista, direttore della fotografia e graphic designer. La sua fama internazionale si lega soprattutto ai ritratti in bianco e nero di musicisti e artisti, ma anche ai video musicali e ai lungometraggi cinematografici che ha diretto. La sua estetica ha contribuito a plasmare l’identità visiva di band come i Depeche Mode e gli U2, portando un approccio visivo che combina realismo crudo e poesia malinconica.

Ancora in vita, Corbijn ha superato i settant’anni continuando a essere una figura di riferimento sia nel mondo della fotografia che in quello dell’audiovisivo, mantenendo una coerenza stilistica che lo ha reso immediatamente riconoscibile.

Formazione e primi anni

Anton Corbijn iniziò la sua avventura nella fotografia con una Praktica, una macchina fotografica economica di fabbricazione tedesca che ottenne a metà degli anni Settanta. L’occasione che lo spinse a fotografare fu un concerto: nel 1972, ancora adolescente, prese in prestito la fotocamera del padre per immortalare una band locale. Quell’esperienza rivelò al giovane Corbijn il potenziale della fotografia come mezzo di accesso a un mondo più ampio, capace di avvicinarlo agli artisti che ammirava.

La scelta di utilizzare una macchina fotografica semplice e meccanica, come la Praktica, determinò anche il suo approccio iniziale: essenziale, privo di artifici, concentrato sulla luce naturale e sull’immediatezza del momento. Già dai primi esperimenti, Corbijn mostrò una predilezione per l’uso drammatico del contrasto, affidandosi alla grana dell’immagine e alla potenza emotiva di pose non convenzionali.

Dopo il liceo, non intraprese una formazione accademica canonica. Non frequentò scuole di fotografia di alto livello, ma fu sostanzialmente autodidatta, imparando attraverso la pratica continua e lo studio dei maestri. Influenzato dalla fotografia documentaria e dalla tradizione del ritratto europeo, sviluppò un occhio capace di catturare la vulnerabilità e la solitudine dei soggetti.

Nel 1979 si trasferì a Londra, città che sarebbe diventata cruciale per il suo percorso. Londra, all’epoca, era un centro pulsante della musica punk e post-punk, ambienti che Corbijn frequentò assiduamente. Qui riuscì a intrecciare i primi legami professionali con artisti emergenti, cominciando a lavorare come fotografo per riviste musicali come il New Musical Express (NME). Il NME, in quegli anni, era una delle pubblicazioni più influenti per la scena rock e alternativa, e offrì a Corbijn una piattaforma per sperimentare con uno stile che non cercava il glamour, ma piuttosto un’estetica ruvida e diretta.

Dal punto di vista tecnico, gli anni londinesi furono fondamentali. Corbijn lavorava spesso in condizioni di luce naturale scarsa, sfruttando la grana della pellicola ad alta sensibilità e i tempi lunghi di esposizione per creare immagini dense e quasi pittoriche. La sua scelta ricorrente di utilizzare il bianco e nero non era dettata solo da ragioni estetiche, ma anche da necessità pratiche ed economiche: la pellicola monocromatica era meno costosa, più facile da sviluppare e offriva una resa espressiva che ben si adattava ai suoi soggetti.

Il trasferimento a Londra non fu solo un passo professionale, ma anche personale. Corbijn si trovò immerso in una città molto diversa dalla sua natia Strijen, che lo aveva formato in un ambiente sobrio e silenzioso. Londra gli permise di confrontarsi con il caos urbano, la velocità della cultura pop e la vicinanza con artisti che ammirava. In questo contesto riuscì a stabilire i primi contatti con i Joy Division, una band che avrebbe avuto un impatto decisivo sulla sua carriera.

Il ritratto che realizzò a Ian Curtis, il frontman dei Joy Division, nel 1979, divenne una delle immagini simbolo del gruppo e contribuì a consolidare il mito della band dopo la morte prematura del cantante. Lo scatto, caratterizzato da un forte contrasto e da una posa introspettiva, rivelava già l’abilità di Corbijn nel trasformare un semplice ritratto in un’icona culturale. Questo approccio lo distingueva dai fotografi musicali tradizionali, spesso orientati a celebrare l’artista come star, mentre Corbijn cercava di coglierne l’aspetto umano, fragile, quasi spirituale.

L’inizio della sua carriera professionale fu segnato anche dalla pubblicazione regolare su riviste musicali e dal crescente interesse delle case discografiche nei suoi confronti. Gli venivano affidati ritratti promozionali che rompevano con i canoni del marketing tradizionale: invece di presentare gli artisti in pose patinate, Corbijn li collocava in ambienti spogli, spesso all’aperto, con atmosfere cupe o malinconiche. L’effetto era quello di un’immagine più autentica, lontana dalla costruzione artificiosa delle rock star.

La scelta di mantenere un linguaggio visivo coerente, fatto di bianco e nero contrastato, composizioni essenziali e attenzione alla psicologia del soggetto, gli permise di costruire una firma stilistica che presto sarebbe diventata riconoscibile a livello internazionale. Nel corso degli anni Ottanta, questo linguaggio visivo si sarebbe ulteriormente raffinato, trasformandolo in uno dei fotografi più influenti della scena musicale.

Affermazione internazionale e linguaggio fotografico

Negli anni Ottanta, Anton Corbijn consolidò la propria reputazione come uno dei fotografi più originali della scena musicale internazionale. Il suo trasferimento a Londra, che inizialmente era stato un gesto istintivo, si rivelò decisivo: la città offriva una concentrazione unica di band emergenti, riviste influenti e un fermento culturale che stava trasformando il panorama visivo della musica. In questo contesto, Corbijn affinò uno stile fotografico personalissimo, in grado di distinguersi nettamente dai colleghi dell’epoca.

La sua affermazione internazionale fu strettamente legata alla capacità di creare immagini che non erano semplici fotografie promozionali, ma veri e propri ritratti psicologici. Corbijn riusciva a estrarre dai soggetti la loro dimensione più intima, spesso malinconica, andando oltre la superficie della celebrità. L’uso del bianco e nero ad alto contrasto diventò la sua cifra stilistica più riconoscibile, tanto che molti critici definirono le sue fotografie come un ibrido tra documentazione musicale e arte concettuale.

Uno dei passaggi fondamentali nella sua carriera fu il rapporto con gli U2. Il gruppo irlandese, negli anni Ottanta, stava rapidamente salendo al rango di band globale, e Corbijn ebbe un ruolo determinante nel definire la loro identità visiva. L’album “The Joshua Tree” (1987) ne è un esempio emblematico: le fotografie del deserto del Mojave, con i membri del gruppo disposti in pose essenziali, trasmettevano un senso di vastità e spiritualità che rifletteva perfettamente il contenuto musicale. In queste immagini, la scelta di utilizzare una fotocamera medio formato Hasselblad gli permise di catturare con straordinaria nitidezza i dettagli dei paesaggi e al contempo mantenere una qualità tonale che esaltava la drammaticità della scena.

L’estetica corbiniana si distingueva per alcune costanti tecniche. Innanzitutto, la predilezione per la luce naturale: spesso evitava set complessi o illuminazioni artificiali, preferendo lavorare in esterni, anche in condizioni climatiche difficili, per ottenere atmosfere autentiche. Il cielo grigio, la pioggia o la foschia non erano elementi da correggere, ma piuttosto da esaltare. Questa scelta gli consentiva di creare una tensione visiva che conferiva ai ritratti un’aura quasi pittorica. In secondo luogo, l’uso sistematico di pellicole ad alta sensibilità, come la Kodak Tri-X 400, che generava una grana evidente e conferiva alle immagini un carattere crudo, lontano dalla levigatezza patinata tipica delle fotografie promozionali dell’industria discografica.

Parallelamente agli U2, un altro rapporto fondamentale fu quello con i Depeche Mode. A partire dal 1981, Corbijn divenne il loro fotografo e direttore visivo quasi ufficiale. Lavorò non solo ai ritratti promozionali, ma anche a copertine di album, videoclip e progetti speciali. In questo caso, il suo stile trovò terreno fertile: la musica dei Depeche Mode, caratterizzata da un’oscura sensualità e da sonorità elettroniche, si sposava perfettamente con l’estetica malinconica e drammatica di Corbijn. Fotografie come quelle realizzate per l’album “Violator” (1990) dimostrano la sua capacità di tradurre concetti musicali in immagini iconiche.

L’affermazione internazionale non si limitò al mondo della musica. Corbijn iniziò a esporre le proprie opere in gallerie e musei, ottenendo un riconoscimento anche come artista visivo indipendente. La sua fotografia veniva interpretata come una riflessione sull’identità e l’alienazione, temi universali che andavano oltre la dimensione musicale. Le mostre dei suoi lavori confermarono che non era soltanto un fotografo di celebrities, ma un autore in grado di utilizzare la fotografia come linguaggio critico e poetico.

Dal punto di vista tecnico, è interessante notare come Corbijn non cercasse mai la perfezione formale nel senso classico. Spesso le sue immagini erano leggermente sottoesposte o presentavano difetti che altri fotografi avrebbero considerato errori. Tuttavia, proprio questi elementi “imperfetti” diventavano parte integrante del suo linguaggio, perché restituivano una sensazione di immediatezza e verità. La scelta di mantenere uno stile coerente con la povertà dei mezzi originari (una macchina meccanica, pellicola ad alta grana, luce naturale) rappresentava quasi una dichiarazione etica: rifiutare l’artificio e accettare la realtà per quello che è.

Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, Corbijn collaborò con una vasta gamma di artisti, tra cui David Bowie, Nick Cave, R.E.M., Patti Smith e molti altri. Ogni volta, il suo approccio non cambiava sostanzialmente: non cercava di imporre un’immagine glamour, ma piuttosto di far emergere l’essenza dell’artista attraverso pose sobrie, ambienti minimali e una costante ricerca di autenticità. Alcuni ritratti, come quello celebre di Bowie con lo sguardo assorto e il volto segnato dalle ombre, dimostrano la sua capacità di trasformare la fotografia musicale in una forma d’arte autonoma.

Con l’avvento della fotografia digitale, Corbijn rimase a lungo fedele alla pellicola. Questa scelta non derivava da un atteggiamento nostalgico, ma da una convinzione estetica: la grana, la profondità tonale e la resa imperfetta della pellicola erano per lui strumenti indispensabili per esprimere la propria poetica. Anche quando iniziò a sperimentare con il digitale, cercò sempre di mantenere quella qualità “organica” che aveva caratterizzato i suoi lavori su pellicola.

A questo punto della sua carriera, Corbijn non era più soltanto un fotografo di culto per la scena musicale, ma un autore di fama globale, richiesto da artisti e istituzioni di alto livello. La sua influenza si estendeva anche alla generazione successiva di fotografi, molti dei quali guardavano al suo stile come a un modello di come fosse possibile unire fotografia commerciale e ricerca artistica.

Opere principali, mostre e progetti fotografici

Quando si parla di opere principali di Anton Corbijn, non ci si riferisce soltanto a singole fotografie celebri, ma a un corpus vasto e coerente che ha contribuito a ridefinire il linguaggio visivo della musica e dell’arte contemporanea. La sua produzione fotografica, iniziata negli anni Settanta e tuttora attiva, comprende ritratti iconici, copertine di album, mostre fotografiche e pubblicazioni che hanno lasciato un segno indelebile nella storia della fotografia.

Uno dei lavori più noti rimane la già citata collaborazione con gli U2. La serie di fotografie per The Joshua Tree (1987) è considerata una delle sue creazioni più emblematiche. Le immagini, realizzate nel deserto del Mojave, mostrano il gruppo non come rockstar distanti, ma come figure umane collocate in un paesaggio immenso e silenzioso. Questa scelta visiva, che privilegia la relazione tra l’uomo e la natura, suggerisce una dimensione spirituale che si sposa perfettamente con i temi dell’album. Da un punto di vista tecnico, Corbijn utilizzò la Hasselblad 500 C/M con obiettivi grandangolari, sfruttando la luce naturale del deserto e l’ampiezza del formato medio per restituire la profondità spaziale. Le fotografie non furono ritoccate pesantemente: la forza risiedeva proprio nella loro essenzialità.

Un altro capitolo fondamentale della sua carriera è quello con i Depeche Mode. Oltre a realizzare ritratti e copertine, Corbijn progettò l’intera identità visiva della band a partire dagli anni Ottanta. Fotografie, videoclip e scenografie dei concerti vennero pensati come un unico sistema espressivo. Questa collaborazione lo rese qualcosa di più di un fotografo: divenne un vero e proprio direttore artistico visivo, capace di tradurre in immagini la poetica sonora della band. La copertina di Violator (1990), con la celebre rosa rossa su fondo nero, non è solo un’immagine promozionale ma un simbolo riconoscibile a livello globale.

Accanto a queste collaborazioni storiche, Corbijn ha realizzato numerosi ritratti di figure centrali della musica e dell’arte. Tra i più celebri si ricordano quelli di David Bowie, Nick Cave, Miles Davis, Patti Smith e Tom Waits. In ciascun caso, il fotografo adottava un approccio che privilegiava la vulnerabilità, spesso immortalando i soggetti in momenti di introspezione o in ambienti spogli. Ad esempio, i ritratti di Tom Waits mostrano il musicista in ambientazioni degradate, con gesti spontanei e un’atmosfera cupa che richiama la sua musica. Corbijn preferiva non dirigere i suoi soggetti in modo eccessivo: li lasciava liberi di muoversi, per poi catturare l’attimo in cui emergeva un frammento autentico della loro personalità.

Oltre ai lavori legati alla musica, Corbijn si dedicò a progetti più personali, spesso raccolti in libri fotografici che contribuirono a consolidare la sua reputazione nel mondo dell’arte. Famouz (1989) fu la sua prima grande pubblicazione: raccoglieva ritratti di musicisti realizzati nel corso degli anni Ottanta, presentati in bianco e nero con una coerenza stilistica che ne faceva quasi un manifesto estetico. A seguire, pubblicò titoli come Star Trak (1996), 23 Still Lives (1999) e In Control (2007), ciascuno dei quali rappresentava un approfondimento del suo rapporto con la musica e l’immagine.

Un’altra opera significativa è Inside the American (2003), una serie di fotografie che esplorava l’identità culturale e geografica degli Stati Uniti, andando oltre i confini della fotografia musicale. In questo progetto, Corbijn si confrontava con il mito dell’America, rappresentandola con lo stesso sguardo malinconico e introspettivo che caratterizzava i suoi ritratti.

Le sue fotografie sono state esposte in musei e gallerie di tutto il mondo. Importante è la retrospettiva Anton Corbijn: In Control, organizzata dal Fotomuseum Den Haag nei Paesi Bassi, che presentava non solo i ritratti dei grandi musicisti ma anche lavori meno noti, mettendo in evidenza la sua capacità di spaziare tra generi e linguaggi diversi. Altre mostre di rilievo sono state ospitate dal Barbican di Londra, dalla Galleria nazionale di arte moderna di Roma e da istituzioni tedesche come la Kunsthalle di Vienna e la C/O Berlin.

Dal punto di vista tecnico, in molte di queste mostre veniva sottolineata la sua predilezione per le stampe di grande formato, capaci di esaltare la grana e il dettaglio delle sue immagini in bianco e nero. La stampa in camera oscura era per lui una parte integrante del processo creativo: non si limitava a scattare, ma interveniva con mascherature, variazioni di contrasto e altre tecniche di stampa per ottenere l’effetto desiderato.

Un altro aspetto fondamentale della sua produzione è rappresentato dai videoclip musicali. A partire dagli anni Ottanta, Corbijn divenne uno dei registi più richiesti in questo campo. Firmò videoclip per artisti come i Depeche Mode (Personal Jesus, Enjoy the Silence), Nirvana (Heart-Shaped Box), U2 (One, Electrical Storm), e molti altri. Anche in questo caso, il suo stile rimaneva fedele all’estetica fotografica: immagini essenziali, colori smorzati, atmosfere cupe e un forte senso di narrazione visiva. Questi lavori contribuirono a consolidare il legame tra musica e immagine, e sono considerati oggi parte integrante dell’evoluzione del linguaggio audiovisivo contemporaneo.

Non va dimenticata la sua attività di regista cinematografico, che pur andando oltre la fotografia, rappresenta una naturale estensione del suo linguaggio visivo. Il suo debutto alla regia con Control (2007), biopic su Ian Curtis e i Joy Division, fu accolto con entusiasmo dalla critica internazionale. Il film, girato in un raffinato bianco e nero con macchina da presa Arri, confermava la sua capacità di trasporre il suo sguardo fotografico in una narrazione filmica. L’opera vinse numerosi premi, tra cui la Caméra d’Or a Cannes. Successivamente, Corbijn diresse altri film come The American (2010) e A Most Wanted Man (2014), dimostrando di saper coniugare la sensibilità fotografica con il ritmo cinematografico.

In definitiva, le opere principali di Corbijn non possono essere ridotte a un elenco di fotografie celebri, ma vanno comprese come un sistema coerente di progetti che spaziano dalla fotografia al cinema, dalla musica alle esposizioni museali. La sua capacità di mantenere un’identità visiva forte e riconoscibile in contesti così diversi è ciò che lo rende una figura unica nel panorama della fotografia contemporanea.

Stile fotografico e approccio tecnico

Parlare di stile fotografico in riferimento ad Anton Corbijn significa affrontare un linguaggio che ha saputo rinnovarsi costantemente pur mantenendo una coerenza riconoscibile. La sua estetica si distingue per un insieme di scelte tecniche e poetiche che hanno reso i suoi ritratti immediatamente identificabili, al punto da definire un vero e proprio marchio visivo.

La predilezione per il bianco e nero rappresenta il tratto più evidente della sua fotografia. Per Corbijn, il colore è spesso un elemento superfluo, capace di distrarre lo sguardo. Il bianco e nero, invece, accentua le forme, i contrasti, le linee del volto e i dettagli dello sfondo, creando un’atmosfera sospesa e atemporale. Questa scelta non è casuale: fin dai suoi esordi, quando lavorava con la Praktica del padre, il bianco e nero era non solo la soluzione più economica, ma anche il mezzo espressivo più adatto a trasmettere intensità emotiva. Nel corso degli anni, anche quando la fotografia digitale ha offerto nuove possibilità, Corbijn ha continuato a considerare la monocromia un cardine insostituibile del suo linguaggio.

Dal punto di vista tecnico, Corbijn ha sempre privilegiato attrezzature essenziali. Inizialmente utilizzava fotocamere reflex a pellicola come la Praktica e, successivamente, modelli Nikon e Canon per le riprese più dinamiche. Tuttavia, i suoi lavori più celebri furono spesso realizzati con fotocamere medio formato Hasselblad, strumenti che gli permettevano una qualità superiore e un rapporto più meditato con il soggetto. La Hasselblad 500 C/M, in particolare, divenne uno dei suoi strumenti prediletti: il formato quadrato e la possibilità di controllare con precisione i tempi e i diaframmi gli consentivano di costruire immagini dal forte impatto formale.

Un altro aspetto cruciale del suo approccio è la scelta delle pellicole. Corbijn ha fatto ampio uso della Kodak Tri-X 400, una pellicola in bianco e nero con una grana marcata, capace di restituire un’ampia gamma tonale e una consistenza materica all’immagine. Non si trattava di un difetto, ma di una caratteristica estetica che valorizzava la drammaticità dei suoi ritratti. Spesso spingeva la pellicola oltre la sensibilità nominale, con esposizioni calibrate per ottenere una grana ancora più evidente e un contrasto accentuato. In questo modo, la fotografia assumeva quasi un aspetto pittorico, in cui l’imperfezione diventava un valore aggiunto.

Fondamentale è anche il suo rapporto con la luce naturale. Corbijn non amava set elaborati o luci artificiali complesse. Preferiva ambienti reali, spesso all’aperto, dove la luce poteva mutare rapidamente e creare situazioni imprevedibili. Questa scelta gli consentiva di ottenere un effetto di verità e di immediatezza che difficilmente si sarebbe raggiunto con uno studio fotografico tradizionale. Lavorava spesso con cieli coperti, con ombre nette o con atmosfere cupe, trasformando condizioni meteorologiche sfavorevoli in opportunità espressive.

Lo sfondo e l’ambientazione giocano un ruolo centrale nella sua fotografia. A differenza di altri fotografi musicali che optavano per scenari ricchi o scenografici, Corbijn preferiva contesti spogli, muri anonimi, paesaggi desertici o stanze vuote. Questi ambienti minimalisti non solo non distoglievano l’attenzione dal soggetto, ma contribuivano a sottolinearne la solitudine e la vulnerabilità. Un ritratto come quello di Ian Curtis dei Joy Division, realizzato su uno sfondo neutro e privo di ornamenti, dimostra come la forza espressiva non risieda nell’ambiente, ma nella relazione tra fotografo e soggetto.

Un altro elemento distintivo del suo stile è l’uso della posa non convenzionale. Molti dei suoi ritratti mostrano i soggetti in momenti di apparente debolezza: mani che coprono il volto, sguardi rivolti altrove, corpi piegati. Invece di costruire immagini celebrative, Corbijn cercava di abbattere il mito della rockstar per mostrare l’essere umano dietro la celebrità. Questo approccio psicologico lo differenzia nettamente da molti altri fotografi musicali degli anni Ottanta e Novanta, più orientati a un’estetica glamour.

Il processo di stampa era parte integrante della sua poetica. Corbijn passava molto tempo in camera oscura, sperimentando con la stampa su carta baritata e variando i tempi di esposizione per ottenere il contrasto desiderato. La mascheratura manuale, il controllo delle alte luci e la gestione delle ombre erano trattati come elementi compositivi, tanto quanto lo scatto in sé. Non considerava la fotografia come un atto concluso nel momento dello scatto, ma come un processo che continuava fino alla stampa finale.

Con l’avvento del digitale, Corbijn mantenne un approccio prudente. Non rigettò mai la tecnologia, ma si preoccupò di adattarla al proprio stile. Anche quando utilizzava macchine digitali di alto livello, cercava sempre di ricreare l’effetto della pellicola: aggiungeva grana digitale, abbassava la saturazione, manteneva una gamma tonale ricca di grigi e contrasti decisi. In questo modo, pur adottando nuovi strumenti, riuscì a preservare la sua identità visiva.

Il suo approccio tecnico e stilistico non era però fine a sé stesso. Dietro ogni scelta, dalla fotocamera alla luce, dalla pellicola alla stampa, c’era un intento preciso: rivelare la dimensione umana del soggetto. Che si trattasse di una star internazionale come David Bowie o di un giovane artista emergente, Corbijn cercava sempre di catturare quel momento di autenticità che rendesse il ritratto più di un documento: un frammento di verità emotiva.

Il suo stile, pur apparentemente semplice, richiedeva una grande padronanza tecnica. L’uso della luce naturale, ad esempio, esigeva un’attenzione costante ai tempi di esposizione e alla sensibilità della pellicola, soprattutto in condizioni di scarsa illuminazione. Allo stesso modo, il lavoro in camera oscura richiedeva una precisione quasi artigianale per ottenere il giusto equilibrio tra grana e contrasto.

Questo approccio ha fatto di Anton Corbijn non solo un fotografo di fama, ma anche un punto di riferimento tecnico ed estetico per generazioni di fotografi successivi. Molti hanno cercato di imitare la sua estetica, ma pochi sono riusciti a catturare quella miscela unica di rigore tecnico e sensibilità poetica che caratterizza i suoi lavori.

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