Domenico “Mimmo” Jodice nacque il 5 settembre 1934 a Napoli, città in cui vive e lavora stabilmente. Figlio di un fotografo dilettante e di una madre appassionata di pittura, fin da bambino fu circondato da immagini e attrezzi fotografici, respirando quella fusione di arte e artigianato che ne avrebbe segnato la cifra espressiva. Dopo aver frequentato con ottimi risultati il Liceo Artistico di Napoli, nel 1958 si laureò in Architettura presso l’Università Federico II, ma fu subito chiara la sua vocazione per l’immagine fotografica. Negli anni Sessanta aprì un piccolo studio in Via Toledo, dotato di camera oscura attrezzata con ingranditori Durst e Leitz, dove sperimentò con rigore i bagni di sviluppo in Metol‑Idrochinone a 20 °C, annotando con precisione millimetrica tempi di sviluppo e temperatura per ottenere una granulosità costante e una gradazione tonale controllata. Oggi, a quasi novant’anni, conserva nel suo archivio migliaia di negativi in medio formato e lastre di vetro 4×5″, simbolo di una vita dedicata alla comprensione della luce, delle forme e delle ombre.
Nel quartiere napoletano di Chiaia, Mimmo trascorse le prime ore libere dall’architettura nelle botteghe di suo padre, dove apprese a lucidare obiettivi, a montare pellicole e a maneggiare con rispetto le carte sensibili. A quattordici anni ricevette in dono una Zeiss Ikon Contessa 35 mm con ottica Tessar 50 mm f/2.8, con la quale cominciò a misurare il rapporto tra tempo di posa e diaframma su pellicole panchromatiche. Scattava tra 1/30 s e 1/250 s, modulando l’apertura da f/4 a f/16 per ottenere sia dettagli nei soggetti in movimento sia ampia profondità di campo nei ritratti statici. In camera oscura, padroneggiò le tecniche di contact printing, utilizzando la carta baritata RC di grammatura 270 g/m² e bagni di sviluppo D‑76 per ottenere stampe con contrasti modulabili dal 1 al 3.
Durante il periodo universitario, Jodice frequentò i laboratori di Fotografia dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove imparò dall’insegnante Stefano Micelli l’uso dei filtri Ross, sperimentando la resa tonale di cielo e pelle in bianco e nero. Confrontò emulsioni ortocromatiche e pancromatiche su pellicole 35 mm e su formati medio come il 6×6, montando un Rolleiflex 2.8E per valutare la diversa “micrograna” e l’effetto bokeh a diaframmi aperti (f/2.8–f/4).
Nel 1960, appena laureato, partì per Parigi, dove acquistò in un’emporio di Saint‑Germain una Leica M4. Con quella fotocamera studiò la fotografia di strada: tempi rapidi (1/500 s), diaframma f/2 per isolare il soggetto e uso di un prism viewfinder esterno per comporre istantaneamente. In quegli anni iniziò a riflettere sul rapporto tra architettura e figura umana, constatando come la prospettiva architettonica potesse dialogare con i corpi in movimento. Tornato a Napoli, decise di unire le competenze di architetto alle potenzialità espressive della fotografia, aprendo il suo primo studio in Via Chiaia con tanto di laboratorio dotato di ingranditori Leitz Variocord e Durst M605.
Evoluzione stilistica e tecniche fotografiche
A partire dalla fine degli anni Sessanta, Mimmo Jodice sviluppò la sua cifra stilistica nelle cosiddette “Vedute Fluide”, una serie in cui riflessi d’acqua, archi storici e dettagli urbani si fondono in immagini oniriche. Scattate prevalentemente in medio formato con la Rolleiflex 2.8E su pellicola Tri‑X 400 ISO, queste foto vedevano tempi di posa fino a 30 s e l’utilizzo di filtri ND (densità neutra) per gestire l’intensità luminosa, mentre in camera oscura Jodice dosava manualmente il burning e il dodging in più passaggi, agendo con cartoncini mascheranti sulla carta baritata contrasto 3. La griglia a nido d’ape montata sui lampade di ingrandimento gli permetteva di accentuare la direzionalità della luce e di modellare le ombre con estrema precisione.
Negli anni Settanta iniziò a esplorare il bianco e nero termico: utilizzò bagni di sviluppo a freddo (18 °C) e a caldo (28 °C) in diverse sessioni di prova per controllare la granulometria e il microcontrasto. Le sperimentazioni su emulsioni Ilford FP4+ e Pan F+ gli permisero di confrontare curve caratteristiche diverse e di definire una scala di grigi più ampia, indispensabile nei suoi paesaggi notturni e negli interni scuri di Napoli.
Con il diffondersi delle prime tecnologie digitali professionali, negli anni Ottanta Jodice non cedette alle sirene del ritocco su schermo: preferì un approccio ibrido, scansionando i negativi a 4.000 dpi con scanner drum e intervenendo sulle curve di contrasto in Photoshop, ma ristampando rigorosamente in camera oscura su carta baritata, per mantenere la matericità analogica.
Sul finire del secolo adottò una Hasselblad H3D-39 per progetti in grande formato digitale, calibrando il bilanciamento del bianco tra 3.200 K (luce tungsteno) e 5.500 K (luce diurna), e realizzando bracketing HDR in tre esposizioni (-1, 0, +1 EV). Sebbene digitalizzasse le immagini e le registrasse in RAW, basava le stampe finali su giclée di alta gamma, utilizzando inchiostri pigmentati e carta cotone 300 g/m², per ricreare sul digitale la ricchezza tonale e la profondità delle stampe chimiche.
Progetti principali e mostre
La prima grande serie che lo impose sulla scena internazionale fu “Memorie di Pietra” (1975–1980), dedicata ai monumenti di Napoli, Pompei e Paestum. Jodice utilizzò una Graflex 4×5″ con ottiche Schneider Super-Angulon da 90 mm per correggere le prospettive, scattando su lastre pancromatiche e sviluppando in Metol‑Idrochinone a 22 °C per un contrasto morbido. Le stampe, esposte alla Biennale di Venezia nel 1978, erano montate in formati monumentali (100×120 cm) su pannelli di legno, presentate senza cornice per ottimizzare la percezione spaziale.
Tra il 1985 e il 1990 realizzò “Metropoli Doppie”, una serie di doppie esposizioni in camera oscura su carta baritata di mezzo formato. Utilizzando la Leica M4 e la Rolleiflex in tandem, sovrappose skyline di Napoli a sagome umane, ottenendo immagini in cui la città appare come un paesaggio psicologico. Le mascherature venivano eseguite con cartoncini neri ritagliati a mano, dosando l’esposizione per ciascun negativo con precisione al decimo di secondo e compensando la differenza di luminosità tra i due scatti con filtri ND graduati.
Nel nuovo millennio, la serie “Rituali di Luce” (2000–2005) lo portò a collaborare con il Museo di Capodimonte e con alcune confraternite religiose, documentando processioni notturne. Qui l’uso di Hasselblad H3D-39 in tethered shooting permise di monitorare in tempo reale l’istogramma e i livelli RGB, mentre le esposizioni lunghe (2–5 s) su sensore medio formato venivano mediate con flash Profoto D1 su softbox per ammorbidire le ombre. Il risultato fu presentato in un volume in edizione limitata, con separazione CMYK realizzata in camera oscura su carta RA-4 e patinatura selettiva per evidenziare i riflessi delle lanterne.
La grande retrospettiva “Luce Riflessa” (2015) al Museo di Capodimonte ha ripercorso sessant’anni di ricerca visiva, esponendo in ordine cronologico stampe analogiche e giclée digitali, corredate da schede tecniche che illustrano parametri di scatto, emulsioni, processi di sviluppo e materiali utilizzati.
Principali opere di Mimmo Jodice
Tra le immagini iconiche spicca “Volti di Pietra” (1978), in cui dettagli di colonne corinzie si fondono con primi piani di sculture antiche, realizzati con tilt su banco ottico e sviluppo in bagno caldo per accentuare i mezzitoni. Nel trittico “Napoli Scomposta” (1982), tre scatti 6×6 su Rolleiflex 2.8E vennero uniti in camera oscura per ricomporre una visione cubista della città.
“Metropoli Sognante” (1998) rimane un punto di riferimento per la fotografia urbana sperimentale: contatti in doppia esposizione di skyline e figure umane, ottenuti con Leica M6 TTL e lenti Summilux 35 mm f/1.4, con filtri gialli per modulare la resa tonale del cielo e griglie nido d’ape per accentuare il chiaroscuro.
“Rovine Moderne” (2008) è un documento di archeologia industriale: scatti con Hasselblad H5D da 50 MP di strutture abbandonate, eseguiti in formato digitale e stampati in giclée su tela, accompagnati da un ciclo di conferenze sulla conservazione del patrimonio.
“Processioni Notturne” (2003) cattura le lanterne e le ombre dei fedeli, con esposizioni di 1–5 s su Hasselblad e merge HDR analogico: un ponte tra tradizione e innovazione.
Visione artistica e poetica
La cifra di Mimmo Jodice si fonda su un equilibrio costante tra documentazione architettonica e ricerca poetica. La sua formazione da architetto emerge nell’uso sapiente della prospettiva, dei movimenti tilt/shift e del controllo geometrico delle inquadrature, mentre il background camera‑oscura gli ha consentito di plasmare la luce come materia viva. Le sue manipolazioni analogiche—mascherature, doppie esposizioni, bracketing—non mirano a un semplice effetto speciale, ma a costruire “vedute interiori” in cui la città, il paesaggio e il rito si intrecciano in un’unica narrazione visiva.
Il ricorso al digitale è sempre stato subordinato alla centralità del negativo e della stampa chimica: le scansioni ad alta risoluzione servono a preservare un archivio, non a sostituire il fascino della carta baritata e della grana. Il lavoro di Jodice insegna che la fotografia è prima di tutto un processo artigianale, in cui ogni dettaglio—dalla scelta del filtro all’apertura del diaframma—contribuisce a creare un’immagine che resista al tempo, esattamente come le pietre antiche che ama fotografare.