La diffusione della stabilizzazione ottica nella fotografia non nasce in un vuoto, ma è la conseguenza diretta di esigenze operative maturate in altri settori dell’immagine, in particolare nella ripresa video portatile, dove il problema del tremolio della mano e delle oscillazioni del corpo ha rappresentato sin dagli anni Settanta e Ottanta un limite pratico per chi voleva filmare a spalla con dispositivi sempre più leggeri. Le sperimentazioni con giroscopi miniaturizzati e gruppi ottici mobili collocati lungo il cammino dei raggi non erano pensate per ottenere nitidezza di un singolo fotogramma, quanto piuttosto per garantire continuità percettiva e una sensazione di fluidità accettabile nella sequenza. Quando Panasonic (Matsushita Electric Industrial Co., fondata a Osaka nel 1918, tuttora operativa) introdusse, nel 1980, una videocamera con correzione basata su giroscopi in grado di addolcire le vibrazioni del corpo operatore, divenne chiaro che la compensazione ottica preventiva, eseguita cioè prima che l’immagine raggiungesse il supporto sensibile, era una strada percorribile e promettente. Il passaggio dal video alla fotografia non fu immediato perché il problema da risolvere, pur condividendo lo stesso fenomeno fisico del tremolio, presentava una differenza sostanziale: la fotografia fissa pretende nitidezza istantanea in un singolo intervallo di esposizione, non la media della stabilità su una finestra temporale; la soluzione doveva essere dunque più rapida, più precisa e, soprattutto, ripetibile scatto dopo scatto.
La rivoluzione in ambito fotografico porta una data che ha segnato l’intero settore: 1995. In quell’anno Canon Inc. (costituita a Tokyo il 10 agosto 1937 e tuttora attiva) presentò il Canon EF 75‑300mm f/4‑5.6 IS USM, primo telezoom per reflex con Image Stabilizer. Il principio era destinato a diventare il paradigma: all’interno del barilotto, un gruppo ottico flottante, sostenuto da supporti elastici e pilotato da attuatori elettromagnetici, veniva spostato con micromovimenti calcolati in tempo reale grazie ai giroscopi e a un’unità di controllo dedicata. I comunicati tecnici del periodo convergevano su una cifra che divenne presto linguaggio comune: due stop di vantaggio. Significava, per esempio, poter scattare a 1/125 s là dove, senza stabilizzazione, il tempo di sicurezza suggerito dalla regola empirica 1/focale avrebbe richiesto 1/500 s su una focale equivalente di 500 mm. In fotografia praticata sul campo questo si tradusse in nuove possibilità per la caccia fotografica, per la cronaca sportiva in condizioni di luce non ideale, per il ritratto ambientato e per le riprese naturalistiche dove il treppiede non era sempre praticabile.
Il contraltare industriale non si fece attendere. Nikon Corporation (nata come Nippon Kōgaku K.K. il 25 luglio 1917, operativa) introdusse nel 1999 il sistema Vibration Reduction (VR) inaugurandolo con l’AF VR Zoom‑Nikkor 80‑400mm f/4.5‑5.6D ED. Le logiche di fondo coincidevano: misura del moto angolare, calcolo della correzione e attuazione del gruppo stabilizzante lungo yaw e pitch. La differenza si giocò da subito sulle modalità operative e sul perfezionamento della catena di misura, con l’obiettivo dichiarato di ottenere una compensazione robusta non solo alla mano libera, ma anche in scenari a raffica e in panning. La progressiva adozione sui supertele professionali cambiò radicalmente il modo di lavorare a bordo campo e in capanno, perché lo stabilizzatore non era più un semplice aiuto marginale: diventava un sottosistema ottico‑meccatronico dotato di autonomia funzionale e intelligenza firmware, capace di dialogare con le routine dell’autofocus e con l’esposimetro. Mentre l’era AF‑S/USM portava motori di messa a fuoco a risposta rapida e silenziosa, la stabilizzazione apriva un canale di retroazione che migliorava la micro‑stabilità della visione nel mirino e, in alcuni casi, la tenuta del tracking AF grazie a un’immagine meno agitata.
Nella stessa finestra temporale si affacciò un approccio alternativo, che avrebbe avuto un impatto enorme soprattutto nell’epoca mirrorless: la stabilizzazione sul sensore. Minolta (fondata nel 1928 come Nichi‑Doku Shashinki Shōten, cessazione come marchio autonomo nel 2003, confluita in Konica Minolta; il ramo fotografico consumer abbandonato nel 2006) presentò nel 2004 la Dynax 7D, con IBIS a spostamento del piano focale. L’idea era elegante: se si muove leggermente il sensore in fase con il tremolio misurato, la proiezione dell’immagine resta ferma nonostante l’oscillazione del corpo macchina. In prospettiva storica questa scelta anticipava soluzioni che sarebbero diventate standard nelle mirrorless, ma non sostituiva la stabilizzazione ottica nella lente per i tele estremi. La fisica è implacabile: a lunghezze focali molto spinte, minimi angoli di tremolio generano spostamenti amplificati sul piano immagine, e far “correre” un sensore per inseguire quel moto richiede accelerazioni e ampiezze fuori scala rispetto alla meccanica disponibile; spostare una lente leggera dedicata alla compensazione angolare rimane più efficiente e preciso.
Nel frattempo, altre due dinamiche acceleravano la maturazione dell’intero concetto. Da una parte, il mondo dei terzisti abbracciava la stabilizzazione: Tamron introdusse il proprio VC (Vibration Compensation) sul finire degli anni Duemila, Sigma portava il suo OS (Optical Stabilizer) su una gamma sempre più ampia di focali; la presenza dell’OIS non era più una prerogativa esclusiva dei due grandi marchi storici. Dall’altra, l’avvento del digitale e dei sensori ad alta risoluzione aumentava l’evidenza del micromosso: ciò che su pellicola o su sensori da pochi megapixel poteva passare inosservato, con 24, 36 o 45 megapixel diventava esplicito, esigendo stabilità micrometrica. In parallelo all’affinamento della meccanica, i costruttori introdussero modalità dedicate: la rilevazione del panning, capace di “sospendere” la correzione lungo l’asse del movimento intenzionale del fotografo, i profili per l’uso su treppiede in cui l’algoritmo riduce il guadagno per evitare loop di caccia su vibrazioni residue, e le tarature Sport ottimizzate per la continuità della visualizzazione in raffica ad alta frequenza. Si arrivò così alla stagione delle mirrorless di nuova generazione, dove l’integrazione IBIS + OIS prometteva valori cumulati fino a 7–8 stop in laboratorio secondo il protocollo CIPA, con caveat ben noti sul fatto che i numeri reali nel mondo pratico dipendono da tecnica, respiro, frequenza del tremolio e modalità d’uso. La genealogia della stabilizzazione ottica negli obiettivi non è soltanto una cronaca di modelli; è un cambio di paradigma: la pupilla d’ingresso non è più un’entità ottica fissa e inerte, ma un nodo attivo inserito in una catena di controllo closed‑loop, dove sensori, attuatori e firmware cooperano per restaurare, istante dopo istante, la coincidenza tra asse ottico e sensore.
Principio fisico e architettura di un sistema OIS moderno
La stabilizzazione ottica è un’applicazione fotografica del principio di conservazione dell’allineamento dell’immagine proiettata sul piano focale di fronte a micro‑rotazioni del corpo macchina. Il fenomeno da compensare è descritto, in prima approssimazione, come somma di due componenti angolari: yaw (rotazione attorno all’asse verticale) e pitch (rotazione attorno all’asse orizzontale). Tralasciando per un momento roll e componenti traslazionali, che entrano in gioco in macro e video a mano libera, lo scopo del sistema è minimizzare lo spostamento della proiezione dell’immagine provocato da questi micro‑angoli durante il tempo di posa. La grandezza dello spostamento cresce con la lunghezza focale: a 600 mm, un millesimo di radiante produce uno scarto più grande che a 35 mm, motivo per cui l’efficacia percepita dell’OIS aumenta al crescere della focale, ma anche perché il loop di controllo ha “più leva” per correggere all’origine l’inclinazione dei raggi.
L’architettura tipica di un OIS prevede un gruppo ottico flottante posizionato in una regione dell’obiettivo dove il decentramento controllato della lente produce la deflessione necessaria per riallineare il fascio in ingresso al centro ottico del sistema. Questo gruppo, spesso un singoletto o un piccolo sottogruppo cementato, è sospeso su supporti elastomerici o guide a basso attrito; il suo baricentro è scelto per minimizzare forze d’inerzia e ottenere una banda passante sufficiente a inseguire il tremolio umano, che presenta componenti di frequenza tipiche tra 1 e 12 Hz, con spettri sensibilmente variabili tra individui e condizioni. La misura del moto è affidata a giroscopi MEMS che rilevano velocità angolari; non si tratta di accelerometri lineari, ma di dispositivi che sfruttano l’effetto Coriolis su masse vibranti micrometriche integrate in silicio. Il segnale grezzo, affetto da rumore bianco, drift termico e quantizzazione, viene filtrato da un pre‑processing analogico‑digitale, poi consegnato al microcontrollore del modulo.
La sezione di controllo implementa un regolatore che nelle generazioni iniziali era un PID a guadagni fissi, divenuto nel tempo una struttura più ricca con feed‑forward basato su modelli della dinamica del gruppo e con adattatività in funzione della frequenza dominante del tremolio misurato. Il set‑point è lo zero movimento proiettato sul piano immagine; l’errore è la componente residua di velocità/posizione che il sistema intende annullare spostando la lente. Gli attuatori possono essere voice‑coil lineari, concettualmente simili a quelli degli hard‑disk, oppure driver elettromagnetici con magneti permanenti e bobine a bassa resistenza; in applicazioni compatte si incontrano anche attuatori piezoelettrici ad alta risposta, sebbene la corsa utile debba restare nell’ordine dei micrometri. La richiesta ingegneristica chiave è ottenere banda sufficiente senza eccitare risonanze strutturali: la sospensione del gruppo deve garantire rigidità per non introdurre ritardi di fase deleteri alla stabilità del loop, e al tempo stesso consentire una escursione minima indispensabile per correggere gli angoli target.
Il rumore di misura e le non‑linearità della catena attuativa impongono una compensazione in calibrazione: durante la produzione, il modulo riceve tabelle di linearizzazione e offset termici per garantire che la risposta in posizione/forza resti coerente con il modello in un range di temperature tipico di esercizio tra 0 e 40 °C o più, in base alla classe ambientale dichiarata. Alcuni progetti prevedono un sensore di posizione relativo, come un Hall o una lettura ottica interna, che riduce la dipendenza dal modello di corrente‑spostamento del voice‑coil, migliorando la ripetibilità su scale di centinaia di migliaia di cicli. Il consumo elettrico dipende da ampiezza e frequenza della correzione, oltre che dall’efficienza delle bobine: la progettazione della sezione di alimentazione deve limitare i picchi che potrebbero innescare cadute di tensione viste dal corpo macchina durante raffiche o registrazioni video prolungate. Non si tratta di un dettaglio: nel video, dove lo stabilizzatore resta sempre attivo, la dissipazione deve restare accettabile, pena deriva termica dei giroscopi e riduzione del margine di compensazione.
La collocazione del gruppo stabilizzante nel treno ottico nasce da un compromesso: più vicino all’ingresso l’azione di decentramento è più “potente” nel deflettere i raggi, ma cresce il rischio di introdurre vignettatura e aberrazioni fuori asse; spostandolo verso il centro dell’obiettivo l’effetto è più controllabile, con minori effetti collaterali sull’MTF periferico, ma occorre aumentare la corsa per ottenere lo stesso grado di correzione angolare. La progettazione moderna ottimizza congiuntamente schema ottico e parametri meccatronici: il gruppo OIS non è un “accessorio” calato a valle, bensì un blocco funzionale attorno al quale si dimensionano diametri, spaziatura tra lenti, camme di messa a fuoco e persino la geometria delle lamelle del diaframma per evitare interferenze nella formazione della pupilla d’ingresso quando la lente è decentrata. La questione non è puramente accademica: la forma del bokeh e la firma dei riflessi speculari possono cambiare con l’azione dell’OIS, soprattutto a ampie aperture e a distanze ravvicinate, motivo per cui le specifiche di rotondità dell’apertura e coerenza della pupilla lungo il range di correzione vengono verificate in metrologia.
Il dialogo tra OIS e autofocus merita un cenno specifico. La stabilizzazione agisce sulla direzione dei raggi che raggiungono il modulo AF (a contrasto o a fase, a seconda del sistema): una immagine più ferma migliora la stima di fase e riduce la varianza del segnale per l’AF a contrasto, soprattutto in condizioni di luce scarsa. Nei sistemi ibridi mirrorless con pixel dedicati on‑sensor, il beneficio si riflette nella continuità del tracking su soggetti in movimento; è anche il motivo per cui le modalità Sport dei supertele sono tarate per privilegiare la stabilità della vista nel mirino rispetto al massimo guadagno teorico in stop, perché l’obiettivo pratico è mantenere il soggetto ancorato al punto AF durante le raffiche. L’algoritmo OIS riconosce inoltre il panning intenzionale misurando la coerenza direzionale del moto a basse frequenze: se il fotografo segue un corridore lungo una traiettoria principalmente orizzontale, la correzione lungo yaw viene attenuata o disattivata per non “remare contro” l’intenzione espressiva, continuando però a filtrare la componente verticale pitch indesiderata.
Molti schemi includono una logica di rilevazione su treppiede. Un sistema OIS ad alto guadagno acceso su una fotocamera perfettamente ferma può introdurre micro‑oscillazioni per inseguire rumori di misura e vibrazioni strutturali del cavalletto, generando softness paradossalmente superiore a quella di un obiettivo non stabilizzato. Le generazioni moderne superano il problema rilevando l’assenza di moto sopra una soglia temporale e riducendo automaticamente il guadagno, o spegnendo il loop. Resta compito del progettista garantire che la transizione non sia brusca e non introduca scalini nella proiezione dell’immagine durante lo scatto. La somma di queste scelte determina il carattere di un OIS: non due stabilizzatori sono identici, anche a parità di stop dichiarati; ciò che differenzia l’esperienza è la firma dinamica della risposta, la latenza apparente, la fluidità della vista e la robustezza ai disturbi reali della scena.
Cronologia comparata e strategie d’implementazione dei principali marchi
L’adozione della stabilizzazione ottica segue traiettorie che riflettono strategie industriali e filosofie di sistema differenti. Nel caso di Canon, dopo l’esordio del 1995, la mappa si allarga a focali più corte e a ottiche professionali serie L, consolidando progressivamente modalità Mode 1 per la correzione biassiale e Mode 2 per il panning, quindi profili avanzati destinati allo sport con priorità di mirino. L’introduzione del sistema EOS nel 1987 aveva già reso elettronico l’innesto e i canali di comunicazione; l’integrazione di EMD per il diaframma elettronico e la progressiva incorporazione di stabilizzazione nelle ottiche ha beneficiato di un protocollo ricco, in grado di trasportare telemetrie e comandi a bassa latenza. Con il passaggio alla piattaforma RF per mirrorless, Canon ha potuto coreografare IBIS e OIS in modo cooperativo: la prospettiva IBIS + IS ha portato dichiarazioni fino a 8 stop su combinazioni specifiche, valore calcolato secondo il metodo CIPA su set di prova codificati. Sul piano storico, va ricordato che l’architettura EF del 1987 offriva una base già predisposta a far dialogare moduli attivi dentro l’obiettivo con il firmware del corpo, e la stabilizzazione ha sfruttato quel canale sin dall’inizio della propria evoluzione. Il risultato oggi è una famiglia di supertele RF stabilizzati in cui la fluidità del mirino elettronico e la tenuta del tracking sono parte integrante della resa, non semplici numeri di stop in scheda.
La cronologia di Nikon segue un percorso più prudente nella prima fase, a causa della lunga eredità dell’innesto F. Il VR del 1999 segna l’avvio su zoom e tele a destinazione professionale; l’ampliamento nel decennio successivo porta il VR II e poi profili Sport con priorità tracking, a cui si aggiungono miglioramenti nella rilevazione del panning e nella compatibilità su treppiede. L’arrivo del sistema Z per mirrorless consente finalmente la cooperazione nativa tra IBIS sul sensore e OIS in lente, recuperando sul piano sistemico ciò che Canon aveva introdotto con RF: l’obiettivo non è solo aumentare la cifra degli stop cumulati, ma distribuire compiti in modo ottimale tra traslazioni e rotazioni, lasciando alla lente la correzione angolare ad alta efficacia e al sensore quella multi‑asse a bassa ampiezza, inclusi roll e micro‑componenti X/Y che incidono su macro, close‑up e video. Nella gamma S‑Line la stabilizzazione non è più un’opzione, ma una caratteristica di piattaforma che interagisce con il profilo di ripresa impostato sul corpo, con effetti sensibili in registrazione 4K/8K dove rolling shutter e micro‑vibrazioni diventano visibili.
La parabola di Minolta e della successiva Sony illumina un’altra strategia. Dopo il 2004, la filosofia IBIS guadagna terreno: con l’acquisizione degli asset fotografici Konica Minolta da parte di Sony (azienda fondata a Tokyo il 7 maggio 1946, tuttora attiva), il marchio Alpha spinge con decisione il sensore stabilizzato, soprattutto nel mondo A‑mount prima e E‑mount poi. Ciò non impedisce a Sony di implementare OSS (Optical SteadyShot) nelle ottiche dove l’approccio lens‑shift rimane più efficace, in particolare su tele e zoom standard. La cooperazione 5‑assi IBIS con correzione angolare ottica è diventata col tempo il comportamento predefinito sui corpi di fascia medio‑alta. Il mercato dimostra che, al netto delle differenze di filosofia, la coabitazione delle due forme di stabilizzazione è tecnicamente la più solida: per la fotografia macro e grandangolare l’IBIS offre vantaggi evidenti nel ridurre traslazioni minute e roll, mentre per le focali oltre i 300 mm l’efficacia angolare della lente resta insuperata.
Il mondo Micro Quattro Terzi merita una parentesi dedicata. L’alleanza Panasonic–Olympus ha visto convergere la stabilizzazione sul sensore e il Power O.I.S. nelle lenti, portando alla pubblicazione di schemi Dual I.S. e Dual I.S. 2 dove corpi e ottiche condividono telemetrie per ripartire la correzione su 5 assi in modo sinergico. È una piattaforma che, sin dalla sua nascita, ha fatto della stabilizzazione un pilastro: per sensori più piccoli, dove il rumore in alti ISO è stato a lungo più problematico, la possibilità di scattare a tempi più lunghi senza mosso ha inciso direttamente sulla qualità percepita. La storia di questa famiglia dimostra come la stabilizzazione non sia un accessorio ma una scelta architetturale: obiettivi e corpi sono progettati con la meccatronica in mente fin dall’inizio, inclusi canali di comunicazione a bassa latenza e una semantica condivisa di stati e transizioni (idle, panning, tripod‑like, video‑continuous).
La cronaca non sarebbe completa senza menzionare i terzisti. Tamron e Sigma hanno portato rispettivamente VC e OS su molte focali e formati, e il loro apporto ha avuto una duplice valenza: da una parte, la stabilizzazione è divenuta onnipresente e democratica, non più vincolata alle sole ottiche proprietarie; dall’altra, la competizione ha innescato una corsa alla raffinatezza del controllo e alla riduzione della latenza, perché il mercato non si accontenta della cifra di stop ma percepisce la qualità della vista nel mirino e la consistenza del risultato in condizioni reali. In parallelo, la miniaturizzazione di OIS nel mondo smartphone ha spinto la tecnologia dei MEMS e degli attuatori verso consumi ridotti e dimensioni sempre più compatte, tornando utile anche ai moduli per obiettivi fotografici, in un circolo virtuoso che dalla telefonia rientra nella fotografia tradizionale. Si assiste così a una convergenza di soluzioni: giroscopi ad alto Q, elettroniche a basso rumore, driver più efficienti, meccaniche a bassa isteresi; l’insieme permette loop più rapidi e compensazioni più stabili, soprattutto nei video a frame‑rate elevati dove l’OIS collabora con la stabilizzazione elettronica lato immagine per rifinire ciò che la meccatronica non può completamente annullare.
Mi chiamo Marco Adelanti, ho 35 anni e vivo la mia vita tra due grandi passioni: la fotografia e la motocicletta. Viaggiare su due ruote mi ha insegnato a guardare il mondo con occhi più attenti, pronti a cogliere l’attimo, la luce giusta, il dettaglio che racconta una storia. Ho iniziato a fotografare per documentare i miei itinerari, ma col tempo è diventata una vera vocazione, che mi ha portato ad approfondire la storia della fotografia e a studiarne i protagonisti, gli stili e le trasformazioni tecniche. Su storiadellafotografia.com porto una prospettiva dinamica, visiva e concreta: mi piace raccontare l’evoluzione della fotografia come se fosse un viaggio, fatto di tappe, incontri e visioni. Scrivo per chi ama l’immagine come mezzo di scoperta e libertà, proprio come un lungo viaggio su strada.


