Le Officine GOMZ (Gosudarstvennyi Optiko-Mekhanicheskii Zavod) e il loro successore LOMO (Leningradskoye Optiko-Mekhanicheskoye Obyedineniye) rappresentano un capitolo fondamentale nella storia della fotografia del XX secolo. Nate nel contesto dell’industrializzazione sovietica, queste realtà produttive unirono l’esigenza di democratizzare l’accesso alla fotografia con l’ambizione tecnologica tipica della Guerra Fredda. La loro produzione spaziò dalle semplici biottiche per dilettanti alle sofisticate macchine per applicazioni scientifiche e militari, lasciando un’impronta indelebile nella cultura visuale globale.
La storia della GOMZ affonda le radici nel 1926, quando il governo sovietico riorganizzò le residue capacità industriali zariste nel settore ottico. Con sede a Leningrado (oggi San Pietroburgo), lo stabilimento ereditò parte del know-how della tedesca Carl Zeiss Jena attraverso gli accordi di collaborazione tecnica dei primi anni ’201. Questo trasferimento tecnologico permise alla neonata industria di avviare la produzione di lenti per microscopi e strumenti di precisione, settori strategici per lo sviluppo scientifico del Paese.
Durante gli anni ’30, sotto la direzione di Andrei Mikhailovich Filimonov, la GOMZ ampliò la propria produzione ai dispositivi fotografici. Il primo modello significativo fu la Sport, una fotocamera a telemetro sviluppata nel 1937 che incorporava un mirino a pentaprisma rimovibile1. Questo dispositivo, ispirato alle contemporanee tedesche Exakta, presentava un’innovativa sincronizzazione dell’otturatore centrale Compur con il flash a magnesio, raggiungendo tempi di sincronizzazione di 1/30s1. La Sport montava un obiettivo T-22 5cm f/4.5 con messa a fuoco elicoidale e diaframma a iride a 6 lamelle, caratteristiche avanzate per l’epoca.
Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale trasformò radicalmente la produzione. Durante l’assedio di Leningrado (1941-1944), gli stabilimenti GOMZ vennero riconvertiti alla fabbricazione di ottiche per mirini di carri armati T-34 e cannoni anticarro1. La ripresa postbellica vide l’introduzione nel 1948 della Komsomolets, una fotocamera a lastre 6.5×9 cm con otturatore centrale a tendina in gomma, capace di raggiungere 1/200s1. Questo modello, destinato al mercato amatoriale, utilizzava un insolito sistema di caricamento a cassetta magnetica per le lastre, anticipando soluzioni che sarebbero diventate comuni negli anni ’60.
La Guerra Fredda segnò una nuova fase di sviluppo. Nel 1962, la GOMZ venne riorganizzata come LOMO, acronimo di Leningrad Optical-Mechanical Association. Questa trasformazione rispondeva alle esigenze del complesso militare-industriale sovietico, che richiedeva ottiche sempre più performanti per satelliti spia e sistemi di puntamento3. Parallelamente, la produzione civile si orientò verso fotocamere compatte ed economiche, come la celebre Lubitel 2, della quale verranno prodotti oltre 2 milioni di esemplari tra il 1955 e il 1980.
Innovazioni Tecniche e Soluzioni Progettuali
Il design industriale sovietico applicato alla fotografia si caratterizzò per robustezza costruttiva e semplicità d’uso, senza però trascurare innovazioni tecniche spesso pionieristiche. Le fotocamere GOMZ/LOMO adottarono precocemente soluzioni come i corpi in bachelite stampata, materiale termoindurente che consentiva produzione in serie a basso costo mantenendo standard qualitativi accettabili6. Questo approccio si ritrova nella Lubitel 2 (1955), dove il telaio in plastica veniva rinforzato da inserti metallici negli snodi critici.
L’evoluzione degli otturatori centrali rappresenta un altro capitolo significativo. Il modello V-2 sviluppato per la Smena 8M (1965) utilizzava tendine in tessuto gommato rinforzato con fibra di vetro, garantendo una durata operativa di almeno 5.000 scatti nonostante la velocità massima limitata a 1/250s. La sincronizzazione flash avveniva attraverso un contatto laterale a molla, protetto da un cappuccio in gomma per prevenire la corrosione3.
Nelle ottiche, i progettisti LOMO perfezionarono il classico schema Tessar sviluppando l’Industar-24 35mm f/2.8, montato sulla Sokol Automat (1971). Questo obiettivo presentava una formula ottica a 5 elementi in 3 gruppi con trattamento antiriflesso a singolo strato, ottenendo una risoluzione di 68 linee/mm al centro e 42 ai bordi a piena apertura. La messa a fuoco avveniva mediante un sistema a camma elicoidale con corsa di 270°, permettendo una precisione di 0,05 mm nella regolazione.
Per le applicazioni scientifiche, la LOMO sviluppò nel 1978 la Almaz-101, prototipo di fotocamera mirrorless con esposimetro TTL a silicio blu e accoppiamento elettromagnetico tra otturatore e diaframma1. L’otturatore a tendina in titanio raggiungeva 1/2000s con tempi di latenza di soli 12ms, prestazioni paragonabili alle contemporanee Nikon F21. Il sistema di trasporto pellicola utilizzava un motore passo-passo a magnete permanente alimentato a 4.5V, capace di 3 fps in modalità continua.
Modelli Iconici e Loro Specifiche Tecniche
La Lubitel 2 (1955) rimane l’incarnazione dell’approccio sovietico alla fotografia amatoriale. Questa biottica a pozzetto utilizzava due obiettivi LOMO T-22 75mm f/4.5 con schema Triplet, dove l’elemento superiore serviva per la messa a fuoco tramite un sistema a cremagliera dentata6. La distanza minima di messa a fuoco era di 1.3m, regolata mediante una scala metrica e imperiale incisa sul barilotto. L’otturatore centrale offriva tempi da 1/10 a 1/200s più posa B, con sincro flash su tutti i tempi tramite contatto laterale.
La Sokol Automat (1971) rappresentò invece il vertice della tecnologia civile LOMO. Questo telemetro avanzato incorporava un esposimetro CdS a lettura attraverso l’obiettivo (TTL) con sensore semicircolare posto dietro il pentaprisma. L’elettronica analogica, alimentata da una pila PX625, permetteva modalità  priorità dei tempi con compensazione esposimetrica ±2EV. Il sistema di trasporto pellicola includeva un contatore automatico a ruota dentata con riavvolgimento a manovella ripiegabile.
Per il mercato professionale, la Almaz-101 (1978) introdusse funzionalità rivoluzionarie. Il mirino elettronico a diodi LED mostrava i tempi di scatto selezionati, mentre un sistema di autofocus a contrasto utilizzava un sensore CCD lineare da 128 pixel1. La fotocamera supportava pellicole da 35mm in caricatori standardizzati GOST 2818-75, con avanzamento motorizzato opzionale a 2 fps1. L’otturatore in titanio bilanciato magneticamente riduceva le vibrazioni a soli 3μm durante lo scatto.
La Lomografia: Fenomeno Culturale e Tecnica Artistica
Nato casualmente a Praga nel 1992, il movimento della Lomografia trasformò i limiti tecnici delle fotocamere LOMO in un’estetica riconoscibile5. La LC-A (Lomo Compact Automat), prodotta originariamente per la Stasi tedesco-orientale, divenne lo strumento principe di questa rivoluzione visuale. Il suo obiettivo Minitar 1 32mm f/2.8 produceva una caratteristica vignettatura a gradiente con caduta di 2 stop ai bordi, enfatizzata dall’uso di pellicole scadute.
I principi tecnici della Lomografia sfruttavano deliberatamente i difetti ottici: l’aberrazione cromatica dell’Minitar (fino a 15μm di dispersione laterale) creava aloni colorati, mentre la bassa risoluzione (48 lp/mm) generava un effetto “pittorico”. I lomografi sperimentarono tecniche come il sovraesposizione forzata (fino a +5EV) e il cross-processing di pellicole E-6 in chimica C-41, ottenendo saturazioni cromatiche estreme.
L’eredità tecnica della GOMZ/LOMO sopravvive oggi nella produzione di obiettivi come l’Lomo OKS 1-40-1 per cinematografia, caratterizzato da una copertura di immagine 46mm e apertura relativa T/2.1. Queste ottiche, originariamente progettate per proiettori 16mm, vengono oggi riadattate per fotocamere mirrorless grazie al loro unico rendimento bokeh a vortice.