Corinne Day nacque il 19 febbraio 1962 a Londra, in un quartiere della periferia sud-orientale segnato da un tessuto sociale popolare e lontano dai luoghi tradizionalmente associati al mondo dell’arte e della moda. La sua infanzia fu caratterizzata da un contesto familiare modesto, dove le opportunità creative erano limitate ma dove maturò una sensibilità particolare per le atmosfere quotidiane, spesso marginali, che in seguito avrebbero definito la sua visione fotografica. Morì a Londra il 27 agosto 2010, all’età di 48 anni, a seguito di un lungo confronto con un tumore al cervello diagnosticato nel 1996, contro il quale combatté per oltre un decennio.
La sua esistenza, relativamente breve ma intensa, rappresenta una svolta fondamentale nella storia della fotografia di moda degli anni Novanta, avendo introdotto un linguaggio radicalmente nuovo, in grado di spezzare i canoni consolidati del glamour e dell’estetica patinata che dominavano le riviste specializzate fino a quel momento. La sua eredità è inseparabile dal nome di Kate Moss, la giovane modella che lanciò sulla scena internazionale attraverso scatti che ancora oggi sono ricordati come l’inizio di una vera rivoluzione visiva.
Day non fu soltanto una fotografa di moda: il suo approccio narrativo, l’inclinazione verso una resa documentaristica e la volontà di portare all’interno del sistema moda una rappresentazione più autentica e vulnerabile dei corpi femminili la posizionano all’interno di una genealogia complessa, vicina tanto al reportage quanto alla fotografia artistica indipendente. La sua morte prematura interruppe un percorso che stava assumendo sempre più i tratti di una riflessione personale sulla vita, la malattia e la memoria, come dimostrano i suoi ultimi progetti fotografici.
Formazione e primi anni
Corinne Day non seguì un percorso formativo tradizionale nelle accademie di fotografia o nelle scuole d’arte. La sua traiettoria fu piuttosto irregolare e autonoma, caratterizzata da una lunga fase di ricerca personale in cui il medium fotografico divenne un linguaggio per esprimere la propria sensibilità. Dopo un’adolescenza segnata da difficoltà economiche e dalla necessità di lavorare per contribuire al sostentamento familiare, intraprese inizialmente una carriera nel campo della moda come modella. Questa esperienza le permise di entrare in contatto diretto con i meccanismi dell’industria editoriale, ma soprattutto le fece percepire con lucidità i limiti e le imposizioni di un sistema che riduceva la figura femminile a un ideale artificiale e stereotipato.
Durante la seconda metà degli anni Ottanta, Day si avvicinò con decisione alla fotografia, inizialmente attraverso esperimenti amatoriali e un lavoro da autodidatta. La sua formazione fu quindi essenzialmente empirica: imparò osservando, testando e sviluppando pellicole in autonomia, spesso ricorrendo a tecniche non convenzionali e privilegiando l’uso della luce naturale piuttosto che quello delle complesse attrezzature da studio. Questo approccio, nato anche dalla mancanza di mezzi, si trasformò in una scelta estetica precisa, che finì per diventare la cifra distintiva del suo linguaggio.
Fu in questo periodo che la fotografa sviluppò una sensibilità verso la condizione giovanile, interessandosi alle culture alternative e alla dimensione domestica della vita quotidiana. Gli anni Ottanta londinesi erano attraversati da profonde trasformazioni: da un lato, il potere delle sottoculture punk e post-punk, dall’altro la diffusione di un’immagine glamour e artificiosa veicolata da riviste come Vogue e Harper’s Bazaar. Corinne Day si collocò esattamente tra questi due poli, scegliendo di osservare e rappresentare i giovani non come icone da idealizzare, ma come individui complessi, con corpi fragili, imperfetti, segnati dall’esperienza reale.
Il suo trasferimento a Milano per lavoro come modella rappresentò un passaggio significativo: qui entrò in contatto con la fotografia di moda italiana, tradizionalmente più patinata e legata al lusso, che accentuò in lei il desiderio di reagire con un’estetica opposta. Tornata a Londra, iniziò a frequentare la scena creativa legata alla rivista The Face, vero laboratorio di sperimentazione visiva che offrì a molti giovani fotografi l’opportunità di emergere.
Day arrivò quindi al momento cruciale della sua carriera con un bagaglio di esperienze non convenzionali, segnato dall’osservazione critica dei modelli imposti dall’industria. La sua formazione autonoma le permise di sfuggire ai vincoli accademici e di definire uno stile che trovava forza nella spontaneità, nell’imperfezione e nella capacità di raccontare una generazione con un linguaggio nuovo.
Affermazione internazionale e linguaggio fotografico
L’inizio degli anni Novanta segnò l’ingresso di Corinne Day nel panorama internazionale della fotografia di moda, grazie alla collaborazione con la rivista londinese The Face, punto di riferimento assoluto per le nuove tendenze culturali e visive. Qui Day pubblicò nel 1990 il servizio fotografico che sarebbe rimasto il più celebre della sua carriera: un editoriale con una giovanissima Kate Moss, fotografata a 16 anni in una serie di scatti ambientati in contesti domestici e quotidiani, lontani dall’estetica patinata delle grandi campagne pubblicitarie.
La scelta di proporre un corpo esile, naturale, privo delle pose artificiali e del trucco pesante tipici della fotografia di moda dell’epoca, rappresentò un vero terremoto nel settore. Moss appariva fragile, adolescente, quasi acerba, eppure carica di una forza espressiva nuova, in grado di parlare a una generazione che non si riconosceva più nei modelli glamour e irraggiungibili. La luce naturale, l’uso di interni poveri, i tessuti sgualciti, i capelli spettinati: tutto concorreva a costruire un linguaggio visivo radicalmente diverso, vicino alla fotografia documentaria e al linguaggio dello snapshot.
La critica parlò di “grunge aesthetic” per descrivere questa nuova sensibilità, in parallelo al movimento musicale che, proprio negli stessi anni, stava affermandosi con gruppi come Nirvana e Pearl Jam. L’elemento comune era la rinuncia al perfezionismo e l’abbraccio dell’imperfezione come valore autentico. Day non aveva intenzione di costruire icone, ma di mostrare corpi reali, vulnerabili, spesso segnati da quella tensione esistenziale che accompagnava la condizione giovanile della sua epoca.
Dal punto di vista tecnico, la fotografa operava principalmente con pellicole a grana evidente, sfruttando spesso sensibilità elevate (ISO 800 e oltre) che le consentivano di lavorare in condizioni di luce ridotta senza ricorrere al flash. La resa granulosa e imperfetta diventava parte integrante dell’immagine, amplificando l’impressione di immediatezza e di spontaneità. Day prediligeva obiettivi a focale standard o grandangolare corta, capaci di restituire una visione più ravvicinata e intima dei soggetti.
Il suo lavoro con The Face non si esaurì con lo scatto a Kate Moss, ma inaugurò un’estetica che sarebbe stata ripresa e sviluppata in seguito da riviste come i-D e Dazed & Confused, contribuendo a ridefinire le coordinate visive della moda britannica. Parallelamente, Corinne Day cominciò a collaborare anche con testate internazionali come Vogue, portando all’interno delle grandi piattaforme editoriali uno stile che rompeva con le convenzioni consolidate.
La reazione non fu priva di controversie. Alcuni critici accusarono Day di promuovere un modello estetico malsano, troppo vicino alla magrezza estrema e a una rappresentazione quasi disturbante del corpo femminile. La celebre serie di fotografie di Kate Moss in lingerie, pubblicata nel 1993 su Vogue, sollevò dibattiti accesissimi sulla responsabilità etica della fotografia di moda. Ma, al di là delle polemiche, è innegabile che Day stesse proponendo un linguaggio fotografico nuovo, più aderente alla realtà e meno filtrato dall’idealizzazione glamour.
La forza del suo linguaggio risiedeva nella capacità di coniugare l’immediatezza del documento con la forza iconica del ritratto. Day non mise mai in scena un “mondo ideale”: preferì mostrare la quotidianità, i corpi fragili, i sorrisi spontanei, i momenti di noia e vulnerabilità. Questo approccio influenzò in profondità l’intera generazione di fotografi che si affacciarono sulla moda negli anni Novanta, da Juergen Teller a David Sims, fino ad arrivare a Wolfgang Tillmans, con il quale condivideva una sensibilità affine.
Opere principali e progetti fotografici
Tra le opere principali di Corinne Day spicca senza dubbio il servizio fotografico con Kate Moss pubblicato su The Face nel luglio 1990, intitolato “The 3rd Summer of Love”. Questo lavoro non fu soltanto un editoriale di moda, ma un vero manifesto estetico. Moss, ritratta con abiti casual, a piedi nudi sulla spiaggia o in interni modesti, divenne il simbolo di una nuova femminilità, più vicina al vissuto reale e meno vincolata a standard artificiali. Quelle immagini furono decisive per il lancio della carriera internazionale di Moss e restano ancora oggi uno dei cicli fotografici più studiati e citati nella storia della moda contemporanea.
Un altro nucleo di opere centrali fu quello pubblicato sulle pagine di British Vogue nei primi anni Novanta. Qui Day ebbe l’opportunità di portare il suo linguaggio su una piattaforma istituzionale, provocando reazioni contrastanti ma aprendo la strada a una ridefinizione dell’estetica della rivista. Celebre rimase l’editoriale del 1993, in cui Kate Moss appariva in lingerie trasparente, immortalata in ambienti domestici poveri, con una resa che ricordava più il reportage intimo che la fotografia di moda tradizionale.
Parallelamente, Corinne Day sviluppò un corpus di lavori più personali, non legati direttamente alla committenza editoriale. Tra questi emerge il progetto Diary, pubblicato in forma di libro fotografico nel 2000. Si tratta di un’opera radicale, in cui la fotografa racconta in modo diretto e senza filtri la vita del suo entourage: amici, coinquilini, giovani londinesi immersi in un contesto segnato da droghe, amori, precarietà e fragilità. In queste immagini, la linea tra documentario e diario personale scompare, e la fotografia diventa un atto di testimonianza intima, a tratti disturbante. Diary rappresenta una delle opere più discusse della Day, ma anche quella che meglio sintetizza il suo approccio: la ricerca di verità attraverso l’abbattimento delle barriere tra fotografo e soggetto.
Negli ultimi anni della sua carriera, segnata dalla malattia, Day portò avanti progetti in cui la dimensione personale diventava sempre più centrale. La serie di autoritratti realizzati durante le cure oncologiche è una testimonianza straordinaria della capacità della fotografa di rivolgere lo sguardo verso se stessa, mantenendo intatta la radicalità del suo approccio. In questi lavori, la fragilità del corpo malato si trasforma in immagine artistica, confermando la coerenza del suo percorso fino alla fine.
Un altro ambito di lavoro significativo fu quello delle mostre fotografiche. Day espose i suoi progetti in diverse istituzioni, tra cui la Tate Modern di Londra, che nel 2011 – un anno dopo la sua morte – le dedicò una retrospettiva importante. Queste esposizioni contribuirono a consolidare il suo status non solo come fotografa di moda, ma come autrice capace di superare i confini dei generi, avvicinandosi alla fotografia d’arte contemporanea.
Le opere principali di Corinne Day mostrano dunque una continuità interna: dalle immagini di Moss a Diary, fino agli autoritratti della malattia, si ritrova sempre la stessa tensione verso l’autenticità, la stessa volontà di abbattere i filtri della rappresentazione patinata per restituire al soggetto una verità complessa, vulnerabile e irriducibile.
Stile fotografico e approccio tecnico
Il linguaggio fotografico di Corinne Day è uno degli elementi più riconoscibili della fotografia di moda degli anni Novanta, tanto da essere considerato una delle matrici fondative del cosiddetto stile “grunge” applicato all’immagine. La sua estetica nacque da un insieme di necessità pratiche, scelte consapevoli e una visione del medium che privilegiava l’immediatezza e la sincerità rispetto alla costruzione artificiale della scena.
Il primo aspetto fondamentale riguarda l’uso della luce naturale. Day evitava quasi sempre i set illuminati con lampade da studio o flash, preferendo lavorare con ciò che era disponibile nell’ambiente. Questa scelta, inizialmente dettata dalla mancanza di risorse economiche, si trasformò presto in una firma stilistica. La luce naturale, spesso morbida e irregolare, donava alle sue immagini un carattere intimo, immediato e distante dalla perfezione levigata delle fotografie patinate. Scattare in interni poco illuminati o in esterni con condizioni atmosferiche variabili implicava la necessità di adottare pellicole ad alta sensibilità ISO, accettando l’evidenza della grana fotografica come parte integrante dell’immagine.
L’accettazione della grana non era un limite tecnico, bensì una precisa scelta estetica. L’imperfezione, lungi dall’essere mascherata, veniva esaltata per trasmettere un senso di realtà e di immediatezza. La grana, unita a leggere sfocature o a inquadrature apparentemente casuali, avvicinava le immagini di Day al linguaggio della fotografia snapshot e alla tradizione del reportage amatoriale. In questo senso, la sua opera stabiliva un ponte con la fotografia degli anni Settanta, in particolare con autori come Nan Goldin, che avevano già sperimentato la forza narrativa della fotografia diaristica.
Un altro elemento distintivo era la gestione della messa in scena. A differenza della maggior parte dei fotografi di moda, che costruivano set elaborati e lavoravano con pose rigidamente dirette, Corinne Day adottava un approccio relazionale con i soggetti. Più che dirigerli, li osservava, li lasciava muovere liberamente, incoraggiava momenti di naturalezza e di vulnerabilità. Le sue fotografie, per quanto destinate a riviste di moda, somigliavano a ritratti intimi di amici colti in un momento qualsiasi della loro giornata. Questo metodo produceva immagini con un forte senso di autenticità, capaci di catturare espressioni non filtrate, sguardi distratti, corpi rilassati.
Dal punto di vista tecnico, Day utilizzava principalmente macchine fotografiche reflex 35mm, leggere e facili da maneggiare, ideali per lavorare in contesti non strutturati. Non ricercava la perfezione tecnica, bensì la rapidità e la possibilità di cogliere il momento. Obiettivi a focale standard (50mm) o grandangolari moderati (28-35mm) erano i più usati, poiché permettevano di mantenere una relazione ravvicinata con i soggetti senza deformarli eccessivamente. Questa scelta rafforzava il carattere di prossimità e di intimità delle sue immagini.
Il colore nella sua fotografia merita un’attenzione particolare. Sebbene Day abbia lavorato sia in bianco e nero sia a colori, i suoi scatti più celebri sono quasi tutti a colori, ma con una resa tonale lontana dalla saturazione vivida tipica delle riviste patinate. Le sue palette cromatiche erano spesso spente, dominate da tonalità naturali e da una resa morbida che accentuava la dimensione quotidiana e non glamourizzata delle scene. Per ottenere questo effetto, oltre alla luce naturale, ricorreva spesso a pellicole come la Kodak Portra, che offrivano una resa cromatica delicata e fedele, ideale per il ritratto.
Un altro tratto centrale del suo stile era la vicinanza concettuale con la fotografia diaristica. In progetti come Diary, Day portò alle estreme conseguenze il suo approccio anti-glamour, documentando con schiettezza episodi della vita quotidiana dei suoi amici, senza filtri o abbellimenti. Dal punto di vista tecnico, queste immagini erano spesso scattate in ambienti domestici con scarsa illuminazione, utilizzando tempi lenti e diaframmi aperti, con conseguenti sfocature e profondità di campo ridotte. Tutto ciò contribuiva a trasmettere un senso di intimità, quasi come se lo spettatore fosse presente nella stanza.
Nell’ultima fase della sua carriera, segnata dalla malattia, il suo stile divenne ancora più essenziale e diretto. Gli autoritratti durante le cure oncologiche non facevano uso di tecniche complesse: erano scatti semplici, spesso realizzati con luce ambientale, che però acquistavano una forza straordinaria grazie al soggetto stesso – il corpo vulnerabile dell’autrice, trasformato in testimonianza visiva della propria condizione. Qui, più che mai, la tecnica era al servizio della verità, e la fotografia diventava un atto di resistenza e di auto-rappresentazione.
La lezione tecnica e stilistica di Corinne Day sta proprio in questo: dimostrare che la forza di un’immagine non dipende dall’apparato scenografico, ma dalla capacità di instaurare una relazione autentica con il soggetto e di sfruttare i limiti tecnici come risorse espressive. L’uso della luce naturale, della grana, delle inquadrature imperfette, delle palette cromatiche smorzate, ha creato un’estetica riconoscibile che ha ridefinito l’intero campo della fotografia di moda.
Mi chiamo Marco Americi, ho circa 45 anni e da sempre coltivo una profonda passione per la fotografia, intesa non solo come mezzo espressivo ma anche come testimonianza storica e culturale. Nel corso degli anni ho studiato e collezionato fotocamere, riviste, stampe e documenti, sviluppando un forte interesse per tutto ciò che riguarda l’evoluzione tecnica e stilistica della fotografia. Amo scavare nel passato per riportare alla luce autori, correnti e apparecchiature spesso dimenticate, convinto che ogni dettaglio, anche il più piccolo, contribuisca a comporre il grande mosaico della storia dell’immagine. Su storiadellafotografia.com condivido ricerche, approfondimenti e riflessioni, con l’obiettivo di trasmettere il valore documentale e umano della fotografia a un pubblico curioso e appassionato, come me.


