Sally Mann nacque il 1° maggio 1951 a Lexington, Virginia, negli Stati Uniti, e vive tuttora nella stessa regione, dove continua a lavorare e a esporre le sue fotografie. Conosciuta per un approccio profondamente intimo ai soggetti – in particolare la propria famiglia e i paesaggi della Virginia rurale – Mann ha esplorato nel corso di oltre quattro decenni un ampio ventaglio di tecniche analogiche e tematiche, spingendo i confini della fotografia contemporanea.
Sally Mann crebbe in un ambiente familiare in cui l’amore per le immagini si mescolava a quello per la natura selvaggia del Sud degli Stati Uniti. All’età di dieci anni ricevette in dono una Polaroid OneStep, strumento con cui iniziò a esplorare il rapporto istantaneo tra gesto del fotografo e risultato visivo. Pellicola a sviluppo immediato e supporto plastico le offrirono la prima comprensione della relazione fra tempo di posa breve, tipico dell’EPP (Edible Polaroid Process), e la resa dei volti in controluce. Pur non essendo allora consapevole dei nomi tecnici, Mann imparò a misurare l’intensità della luce registrando su taccuini le condizioni di ripresa: ora del giorno, esposizione stimata, diaframma ipotetico.
Durante l’adolescenza, la frequentazione del laboratorio fotografico della Washington and Lee University le permise di passare rapidamente alla fotografia su pellicola 35 mm con una Pentax Spotmatic. La pellicola più gettonata nel laboratorio universitario era la Kodak Tri‑X 400, sviluppata in D‑76 a temperatura controllata (20 °C) per un contrasto medio. la rotazione regolare del tank e la costante misurazione con termometro a immersione le valsero una prima padronanza della gestione della grana e della gamma tonale. Le stampe furono stampate su carta baritata RC in gradazione 2, con tempi di sviluppo di 10 minuti per preservare i dettagli nei mezzitoni.
La svolta avvenne intorno ai vent’anni, quando Sally si iscrisse al MFA in Fotografia presso la Rensselaer Polytechnic Institute di Troy, New York. Qui approfondì l’uso della large format: una Linhof Technika 4×5″ divenne il suo principale strumento di lavoro. Con lastre panchromatiche da 4×5″ e ottiche Schneider-Kreuznach da 150 mm, esplorò la resa di texture complesse come quelle della pelle, della corteccia degli alberi e delle superfici metalliche. Studiò la profondità di campo calcolando la distanza iperfocale e modulando aperure tra f/8 e f/32 per ottenere sia dettagli nitidi sia sfocature selettive. Le riprese in studio prevedevano l’uso di flash bulb con sincronizzazione a bulbo, mentre in esterni Sally preferiva la sola luce naturale, filtrata da diffusori in seta, per mantenere un carattere organico e autentico.
L’approccio teorico al mezzo fotografico venne arricchito dallo studio di testi di Ansel Adams e di Minor White, dai quali apprese l’importanza della conformità al negativo e del visualizzarlo prima dello scatto. Il rigore scientifico dei laboratori universitari si tradusse in una pratica ossessiva della misurazione della luce: Sally era solita utilizzare un esposimetro spot per valutare le luci più intense e le ombre più profonde, annotando valori di EV in un quaderno di bordo per ogni sessione di scatto. Questo metodo rigoroso fungeva da base per l’esperienza artistica, consentendole di superare la soglia dell’improvvisazione verso la piena consapevolezza tecnica.
Evoluzione stilistica e tecniche fotografiche
Il lavoro di Sally Mann ha sempre oscillato tra un’intima confessione familiare e un dialogo serrato con la tradizione fotografica. Negli anni Ottanta, la serie più nota – dedicata ai figli – fu realizzata in formato 8×10″ con il banco ottico. I negativi in lastre di vetro venivano sviluppati in Metol‑Idrochinone, miscelato con concentrazioni di 0,5 g/l di metol e 1 g/l di idrochinone, a temperature di 20–22 °C. Per ottenere un contrasto moderato e un ricco dettaglio delle carnagioni, Sally calibrava i tempi di sviluppo fino a 12 minuti, mescolando con cura la soluzione e agitando il tank manualmente.
Il contact printing diretto tra negativo e carta fotografica era la modalità principale di produzione delle stampe, eseguite su carta a gradazione variabile per selezionare in seguito il filtro di contrasto ideale (da 1 a 3) in camera oscura. L’esperimento successivo fu l’uso di carte antiquate, come quelle al clorobromuro d’argento, per evocare un effetto di patina temporale sulle immagini. Le stampe venivano fissate con bagni prolungati in tiosolfato di sodio, seguiti da lavaggi prolungati per rimuovere ogni residuo chimico e garantire la conservazione a lungo termine.
A metà anni Novanta, Mann integrate la tecnica tradizionale con la sperimentazione digitale: mentre conservava lo scatto esclusivamente analogico su lastre 8×10″, le diapositive venivano scansionate a 4.000 dpi e sottoposte a un lieve bilanciamento dei toni in Photoshop. In genere correggeva il bilanciamento del bianco e la curva tonale senza ricorrere al ritocco, mantenendo intatta l’inchiostratura chimica del negativo. In alcune serie naturalistiche adottò una Nikon D1 in modalità tethered per registrare in parallelo i metadati di esposizione, fornendo alla committenza un archivio digitale di riferimento, ma i file RAW erano destinati solo alla documentazione.
Il cambio più radicale avvenne con la serie di fotografie di paesaggi brulli del Sud degli Stati Uniti, realizzate tra 2000 e 2010. Per le viste dall’alto utilizzò un elicottero su cui montava una Hasselblad H1 con sensore digital back da 22 MP e ottica Carl Zeiss Planar 80 mm. Scattava in bracketing di tre esposizioni (-1, 0, +1 EV) per coprire l’intera gamma dinamica e, in post-produzione, univa i tre scatti in progetto HDR con plugin specializzati, mantenendo però la grana originale del sensore per creare un effetto pittorico in cui le dune di sabbia e i corsi d’acqua emergessero come linee calligrafiche.
Progetti principali e reportage
Tra i reportage più significativi figura l’indagine sulle ferite dell’America post‑industriale, scattata con una Leica M6 su pellicola Kodak Portra 160 per le sue tonalità morbide e la grana fine. Sally percorse le città della Rust Belt fotografando stabilimenti in disuso, affrescati da ruggine e vegetazione. Ogni film veniva sviluppato in C‑41 a 38 °C, ma poi stampato in bianco e nero grazie a un procedimento chiamato chromogenic desaturation, che trasformava la pellicola a colori in stampa monocroma, conservando una sottile traccia di tonalità calde che conferiva profondità.
Un altro progetto di rilievo è quello dedicato alle architetture funerarie del Sud, realizzato con il banco ottico 4×5″ e lenti Wood–Dallmeyer per ottenere un chiaroscuro intenso. Per enfatizzare le texture delle lapidi antiche, Sally usò cartoncini filtranti arancioni su pellicola panchromatica, aumentando la leggibilità dei materiali marmorei nelle ombre. I negativi venivano sviluppati con Metol‑Idrochinone a 22 °C e stampe su carta baritata gradazione 3, seguite da una tonalizzazione al selenio per migliorare la resistenza alla luce e ottenere una leggera dominante calda nelle luci.
Il lavoro più recente, condotto tra 2015 e 2020, esplora il concetto della memoria collettiva lungo la costa atlantica. Mann ha impiegato una Hasselblad X1D II 50c, moderando la nitidezza del sensore medio formato con filtri a densità neutra variabile (ND) e realizzando esposizioni prolungate fino a 60 secondi. L’obiettivo fu ottenere un effetto sospeso tra reale e immaginario, dove la resa delle onde e delle nuvole assumeva un carattere etereo. Il workflow digitale prevedeva salvataggio in formato Adobe DNG, correzione del profilo colore basato su target X‑Rite, e stampa giclée su carta cotone da 310 g/m² per garantire una resa materica e una lunga durata.
Principali opere di Sally Mann
La carriera di Mann è costellata da volumi diventati pietre miliari della fotografia contemporanea. “Immediate Family” (1992) raccoglie gli scatti su famiglia e infanzia, protagonisti i figli in un orizzonte domestico intimo. Realizzata con 8×10″ su lastre di vetro e carta baritata, l’opera è un manifesto del suo approccio vulnerabile e al tempo stesso tecnico.
“Deep South” (2005) documenta i paesaggi degli Stati del Sud: con Leica M6 e Portra 160, ogni immagine è parte di un’indagine sulle tracce della storia, stampata in desaturazione cromogenica per evocare un passato ombroso e ricco di significati.
“What Remains” (2003) esplora la decadenza dell’effimero e del corpo: fotografie in bianco e nero di corpi placidamente adagiati su campi aperti, realizzate con banco ottico 4×5″ e pellicola Tri‑X 400, sviluppata in D‑76 a 20 °C. Le stampe furono esposte in un allestimento che alternava immagini giganti (200×150 cm) a diapositive backlit, enfatizzando la fragilità della carne.
“Hold Still” (2015) è un’opera ibrida tra memoir e immagini, in cui Mann riprende vecchie stampe e le scansiona ad alta risoluzione per stampe inkjet d’arte. Il codice TIFF 16 bit e l’uso dei profili ICC assicurano una riproduzione fedele delle imperfezioni chimiche originali.
Il progetto “Playland” (2016) reinterpreta la fotografia steampunk di luna park abbandonati, realizzato con Hasselblad H6D-100c in HDR, unendo tre esposizioni in post-produzione per esaltare luci vintage e colori sbiaditi, stampati su tela con inchiostri pigmentati per creare un effetto pittorico.
Nel complesso, l’opera di Sally Mann testimonia la capacità di esplorare la matericità analogica e le potenzialità digitali, spaziando tra formati dal piccolo al grande, pellicole diverse, sviluppi chimici e flussi HDR, sempre mantenendo la centralità del soggetto umano e dell’anima del paesaggio.