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Nino Migliori

Nino Migliori nacque nel 1926 a Bologna, città che rimase il perno della sua attività. Avviò la sua carriera fotografica nel 1948, documentando con passione le regioni d’Italia che ancora emergevano dalle macerie del dopoguerra . Morì nel 2000, lasciando un’eredità tecnica e concettuale che ha profondamente influenzato la fotografia italiana e internazionale.

Formazione e primo sguardo neorealista

Il percorso di Migliori si costruì su una solida base neorealista, testimoniata dalle serie “Gente dell’Emilia”, “Gente del Sud” e “Gente del Delta”, tutte scattate nei primi anni Cinquanta. Questi lavori non rinunciano a un rigore documentario, ma già introducono l’idea di sequenza narrativa, una sorta di micro‑racconto visivo che sfida l’istantanea isolata.

Dotato di una Rolleiflex 6×6, scattava spesso in sequenza breve, cercando il fotogramma in grado di materializzare la tensione del momento. Lo scatto de Il Tuffatore (1951) è un esempio eloquente: l’istante in cui il ragazzo è sospeso sopra il molo non è frutto di manipolazione, ma di un sincronismo tra visione e macchina, catturato grazie alla fotocamera a pozzetto. Migliori stesso negò qualsiasi azione post‑scatto, sostenendo che quella immagine “è frutto del caso”, e che la vera libertà per l’autore viene dall’«essere liberi» piuttosto che da un bisogno di celebrità o guadagno.

Il suo approccio neorealista fu tutt’altro che passivo: restituiva dignità e particolarità ai soggetti ritratti, a partire dalle mani parlanti di Le mani parlano (1956), fino ai ragazzi in lotta di I ragazzi della via (1955).La profondità del bianco e nero, i contrasti ben calibrati, il controllo rigoroso dello sviluppo e degli ingrandimenti – spesso su carta pesante con pigmenti – erano già visibili in questa fase.

Tecnica, sperimentazione e materiali

Le serie neorealiste aprirono la strada alla sperimentazione tecnica che divenne cifra distintiva della sua poetica. Tra la fine degli anni Quaranta e Cinquanta introduce innovazioni su differenti livelli del processo creativo: nella zona di scatto, con l’uso delle Pirogrammi — una tecnica di bruciatura diretta sulla pellicola con un pirografo — trasforma il negativo in una lastra scultorea. Nacquero anche Cellogrammi, Lucigrammi, Idrogrammi, tecniche da lui inventate che combinavano ossidazione, manipolazione luminosa e azioni chimiche per ridefinire la materia fotografica.

Il suo interesse verso la materia fotografica si estese alle stampe, curando ogni passaggio: sviluppo calibrato, esposizione selettiva, stampa su carta poliestere o pigmentata e, sull’immagine Polaroid, interventi diretti con scalpelli in legno. «Nulla deve essere dato per scontato: la macchina, la pellicola, la carta possono sempre essere ridefiniti», ricorda il curatore Sandro Parmiggiani, delineando un autore che considerava la fotografia un campo aperto di esplorazione..

Negli anni Sessanta e Settanta emergono le serie Muri e Manifesti strappati, opere di staged photography in cui la rappresentazione urbana diviene materialità: la fotografia non è più semplice ritratto di realtà, ma rappresentazione di uno slittamento tra pittura, segno grafico e dialogo concettuale con lo spazio urbano.

Opere principali

Tra le principali opere emerse in oltre 70 anni:

  • Il Tuffatore (1951): sequenza estremamente cronometrica realizzata con Rolleiflex 6×6, rimane un’icona del fotogramma perfetto e della cronofotografia “casuale”.

  • Le mani parlano (1956): sequenza narrativa che esplora espressione e gesto umano, senza bisogno di parole.

  • Pirogrammi (da 1948): documentano l’invenzione tecnica di bruciatura del negativo, diventando materializzazioni visive di scultura fotografica.

  • Muri e Manifesti strappati (anni Cinquanta‑Sessanta): staged photography urbana in cui la superficie diventa “sguardo” e la distruzione una metafora del tempo cellulare marsilioarte.it+1ilfotografo.it+1.

  • Polapressures e Polaori (anni Ottanta): manipolazioni materiche su Polaroid, un esperimento tra colore, gestualità astratta e percezione mutabile.

  • Antimemoria, Il tempo dilatato, Segnificazione (1968‑1978): serie concettuali in cui l’immagine diviene riflessione meta‑fotografica.

  • Installazioni (anni Duemila): “Lo zooforo del Battistero di Parma” (2006), ritratti a lume di candela, scatti in penombra: nuove tecnologie, nuovi dispositivi su misura.

Didattica e affermazione internazionale

Negli anni Settanta Migliori intraprese un’attività accademica: fu docente di Storia della fotografia presso l’Università di Parma dal 1978 al 1987, promuovendo workshop e stimolando giovani ad esplorare tecniche alternative.. Fabbricò dispositivi dedicati – caleidoscopi per le serie Dreamhair, bastoni operativi per New York, strumenti per doppio scatto in Crossroads – restituendo agli allievi un metodo: invenzione di strumenti e sperimentazione continua.

Le sue opere comparvero in musei quali MoMA (New York), Centre Pompidou (Parigi), Grey Art Gallery, e in retrospettive come quella a MEP Parigi (2017‑2018). Nel 2016 le fu riconosciuta una Fondazione a Bologna, a testimoniare tanto il valore collettivo che si accompagna alla sua produzione .

La capacità di Migliori di reinventare per decenni il proprio linguaggio fotografico lo rese un precursore. Le serie di ossidazioni, i lucigrammi, i cellogrammi e i pirogrammi distrussero la tradizionale gerarchia tra scatto e stampa, restituendo all’immagine autonomia materica. Le manipolazioni polaroid puntavano su tempo espanso e colore indeciso, riflettendo una transizione verso il concettuale e il performativo .

Gli interventi su supporti digitali e scansionati – le Trasfigurazioni delle polaroid negli anni Novanta – rappresentano un ponte indispensabile verso la fotografia informatica, quando pochi fotografi osavano utilizzare il digitale come linguaggio fine a sé stesso. Negli anni Duemila, installazioni come Scattate e abbandonate raccolsero e disposero fotografie rifiutate, rimettendo in discussione valore, consumo e memoria del gesto fotografico.

Una buona parte del corpus di Migliori è stato raccolto e reso accessibile dalla Fondazione Nino Migliori di Bologna, istituita nel 2016. Serie come Così in cielo, Orantes, Checked – One year under control, Il tempo rallentato‑in vitro, Marmografie e Gocce e bollicine (anni 2000‑2010) evidenziano la relazione tra segno, forma e concetto. Scattate e abbandonate (2013) è una vera installazione collezionistica del dito della produzione, mentre Lumen (2016) vede l’artista confrontarsi di nuovo con la Polaroid e il chiaroscuro.

Migliori ha interpretato la fotografia come combinazione infinita di elementi: materia, tempo, luce, segno. La tensione tra rigore formale e libertà sperimentale ha prodotto un vocabolario unico, che ha influenzato generazioni di artisti. Ha incarnato la visione secondo cui la fotografia non è strumento, ma campo di ricerca aperto, attraverso il quale inventare dispositivi, tecniche, sequenze e installazioni.

Un tratto distintivo è l’autorialità della tecnica: Migliori non si limitava a eseguire i processi, ma li progettava e li adattava, vedendo la macchina, la pellicola, la luce e la materia come componenti di un sistema integrato. Il rilievo del dettaglio, il contrasto materico, la periodicità visiva – tutti elementi che traducono una poetica in un codice tecnico riconoscibile.

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