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Mario Giacomelli

Mario Giacomelli nacque il 1º agosto 1925 a Senigallia (Marche), in una famiglia di origini modeste. Rimase orfano di padre all’età di nove anni, interrompendo gli studi dopo il tragico evento e iniziando a lavorare come tipografo; nel tempo libero coltivò la pittura e la poesia . A partire dal 1953 orientò la sua espressività verso la fotografia, aderendo all’Associazione Fotografica Misa, fondata da Giuseppe Cavalli. Morì il 25 novembre 2000, sempre a Senigallia, a 75 anni, lasciando un’eredità visiva significativa per la storia della fotografia italiana.

Formazione e approccio espressivo

Il background tipografico di Giacomelli modellò profondamente la sua visione fotografica. Abituato a giocare con forme, contrasti e spazi tipografici, compì una transizione organica verso la fotografia: percepiva il negativo come una lastra litografica, da incidere e imprimere secondo la sensibilità del bianco e nero. L’adesione a Misa (1954) rappresentò un momento chiave: sotto l’egida di figure come Cavalli e Ferruccio Ferroni, maturò un linguaggio in cui alto contrasto, gestualità complessa e forte valenza simbolica si intrecciavano in modo originale.

I suoi soggetti – dalle vicende di un ospizio alla quotidianità dei campesinos, dalle vie di Scanno alle figure dei pretini – riflettevano non una ripresa oggettiva, ma una trasfigurazione esistenziale. L’uso dell’eccesso nel processo di stampa – sviluppo oltre il limite, utilizzo di filtri, impiego di flash diurno – permise di ottenere neri profondissimi e bianchi “mangiati”, accentuando il senso di straniamento e trascendenza. Fidelizzato a questa visione, non esitava a sporcare la granulosità con la manipolazione del negativo, grattature, sovrapposizioni, uscite di fuoco e movimento della camera.

Un suo pensiero esplicativo recitava: «Le cose più importanti sono quelle che non sono riuscito a fotografare» – un ossimoro che definisce la sua tensione verso l’inesprimibile.

Tecnica, strumenti e sperimentazioni

Il dettaglio tecnico rappresentò un universo per Giacomelli : iniziò con la Comet 127 (formato 4×4), che dominava con sicurezza, per poi approdare nel 1954 a una Kobell 6×9 modificata, opera della sua mano esperta su meccanica e otturatore. Il doppio scatto, il fuoco morbido, l’aggiunta di movimento volontario furono strumenti espressivi nella sua tavolozza visiva. In camera oscura, la tipica procedura prevedeva film sovrasviluppati, stampa su carta pesante e uso spregiudicato del flash per “separare” la figura dallo sfondo. Le sovraesposizioni selettive, il grattage del negativo e la frattura del dettaglio con gestualità manuale rendevano ogni stampa un pezzo unico, fortemente poetico e materico .

Negli anni Sessanta l’irruzione del suo stile nei concetti astratti e simbolici si intensificò: gli scatti diventavano “dipinti di luce”, e la sua visione paesaggistica si arricchì di astrazione lirica. Il bianco e nero passò da puro registro documentario al costruito esperienziale, carico di tempo e memoria.

Il suo lavoro si sviluppò in sequenze cinematografiche fotografiche, ciascuna con uno spessore concettuale.

Ospizio / Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1954‑56 / 1966‑68) – I primi lavori in ospizio sono straordinariamente crudeli: flash in ambienti claustrofobici, corpi smagriti, sguardi lontani – una poetica sulla sofferenza e la caducità . Ripresi successivamente con intensità formale e titolo mutuato da Cesare Pavese, assumono connotati drammatici e sommessi al tempo stesso.

Scanno (1957‑59) – Fotografie in Abruzzo, dove il bianco estremo della neve e la figura vestita in nero creano contrasti grafici fortissimi. Ritroviamo qui la sua inclinazione a stilizzare la figura umana, spesso convenzionalizzata in danze o processioni .

Pretini (1961‑63) – I giovani seminaristi immortalati in attimi giocosi, catturati dall’alto come sagome scure su terra e neve bianchissima: composizioni astratte e ironicizzate, quasi coreografiche .

La buona terra / Presa di coscienza sulla natura (1964‑66 / fino al 1977) – Il paesaggio approfondito nei tempi ciclici, terra lavorata, segni arati motivano una riflessione sui segni stessi. Pregiati sono i suoi scatti aerei, dove i confini geografici diventano linguaggio visuale .

Serie lirico‑astratte (dalla fine anni ’60 a ’80) – Iniziò a intervenire sul negativo con graffi, collage, stampa concettuale; le immagini divennero superfici da interpretare. In quest’epoca le figure “fantasmatiche” acquistano petto linguistico, talvolta poetico, sempre interno .

Negli ultimi due decenni lavorò su sequenze oniriche intrecciate alla poesia: titoli rimandano a Leopardi, Montale, Dickinson. Le pubblicazioni e le mostre consolidano la sua rilevanza e sperimentazione linguistica.

Attività espositiva e riconoscimenti

La notorietà si sviluppò a partire dal 1955 con il prestigioso Concorso di Castelfranco Veneto: Paolo Monti fu tra i giurati e scrisse che quella selezione fu un’apparizione nuova nel panorama italiano. Nel 1960 fu invitato nella mostra Subjektive Photographie 3 di Otto Steinert a Varese. Nel 1957 il gruppo Misa partecipò alla mostra “Contemporary Italian Photography” al George Eastman House (Rochester), inclusa la fotografia paesaggistica del giovane Giacomelli.

Nel 1964, John Szarkowski del MoMA New York inserì la serie di Scanno tra i migliori cento fotografi viventi. Nel 1975, la sua fotografia entrò nella mostra “The Land” al Victoria & Albert Museum di Londra, a cura di Brandt e Haworth‑Booth. Infine, numerose rassegne in Italia (Rivoli 1992; Photology 2001; Roma e Milano 2025 per il centenario) consacrano la sua figura.

Opere principali

Tra i lavori più rilevanti:

  • Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1954–56 / 1966–68): scatti in ospizio, stampa su carta argentica ad alto contrasto, scelte simboliche scaturite da Pavese.

  • Scanno (1957–59): un racconto paesaggistico-umano in Abruzzo, dominato da contrasti grafici e composizioni “ballerine” .

  • Pretini (1961–63): sequenze dal taglio astratto e perturbante, con uso del punto di vista dall’alto e presenza scenica magnetica.

  • La buona terra / Presa di coscienza sulla natura (1964–66 / fino al 1977): spostamenti tra reportage agrario e alto astrattismo geografico.

  • Serie lirico-astratte (anni ’70–’90): slebri operazioni di graffio, alterazioni, sovrapposizioni – l’immagine fu trasformata in un atto visivo-concettuale.

  • Poems in search of an author (anni ’90): sequenze oniriche tra memoria e poesia, finali teatrali della sua ricerca visiva. 

La biografia di Mario Giacomelli non si ferma ai dati anagrafici: è un percorso di scoperta visiva e concettuale. Equilibrando tradizione umanista e spirito innovativo, trova nella sua terra – Senigallia, Scanno, le Marche – la materia per forgiare un linguaggio universale. La tensione tra realtà documentaria e trasfigurazione poetica caratterizza ogni suo ciclo, ciascuno evoluzione di uno sguardo che, da tipografo, impara a scrivere con la luce.

Il rigore meccanico del flash, la scelta del formato 6×9, il piacere del contrasto esasperato e la manipolazione del negativo sono strumenti al servizio di una poetica interiore. Immagini disturbanti, emozionanti o evocative emergono dalla trama della sua vita, dell’esperienza personale, del coinvolgimento nel territorio. Il percorso espositivo – dal riconoscimento nazionale fino all’inclusione in musei internazionali – testimonia il suo ruolo centrico nella storia della fotografia del Novecento.

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