La Kambayashi & Company Ltd viene fondata a Tokyo negli anni ’60, specializzandosi nella distribuzione e, con ogni probabilità, nella produzione di fotocamere subminiature economiche, destinate a un pubblico di appassionati alla ricerca di strumenti compatti e accessibili. L’indirizzo reso noto – 3–10, 3-chome Hatanodai, Shinagawa-ku – conferma la sua presenza nel cuore industriale giapponese del dopoguerra .
Il modello più noto è la Homer No. 1, una camera di dimensioni estremamente contenute, realizzata con materiali economici ma tecnicamente allineati ai bisogni dell’epoca. Utilizzava probabilmente film da 16 mm, con un sistema di avanzamento a passo costante, senza mirino sofisticato né esposimetro integrato. La lente, probabilmente menisco o doppietto, era pregiata per la sua semplicità ottica e per la capacità di offrire una profondità di campo discreta su un piccolo formato.
Il design prevedeva un corpo in lamiera con meccanismi di armamento a molla e un piccolo otturatore meccanico, con tempi probabilmente limitati tra 1/25 e 1/50 sec. L’assenza di controlli avanzati era funzionale a un uso rapido e spontaneo, ricalcando la filosofia “point‑and‑shoot” ante litteram. Queste scelte tecniche la collocano in un filone tipicamente giapponese di fotocamere subminiaturizzate, che cercavano di massimizzare portabilità e semplicità, a scapito della qualità d’immagine.
Dal punto di vista produttivo, la quantità e qualità dei materiali suggerisce un impianto semi-industriale: stampaggio, assemblaggio e collaudo meccanico, pur approssimativi, erano strutturati per garantire volumi sostenibili. Documenti come il manuale utente rivelano scansioni circuitali semplici e un’attenzione alla facilità d’uso. La Homer No. 1 rimase in produzione vari anni, con esemplari sopravvissuti valutati oggi tra i 20 e i 60 USD, segno di una diffusione significativa ma di qualità costruttiva limitata .
La Homer No. 1 rappresenta il culmine di una linea di produzione specializzata in miniature di economia. Il corpo è realizzato in lamiera sagomata, verniciata o cromata su stampi. Il piccolo otturatore centrale era pennellato a molla, con tempi unificati – presumibilmente tra 1/30 e 1/60 – azionati da una levetta interna. Non erano previste variazioni di tempo o apertura: il diaframma era fisso, calibrato tra f/11 e f/16, garantendo una profondità di campo sufficiente per inquadrature a breve distanza.
Il formato subminiatura, generalmente 16 mm o quasi, permetteva un’estrema compattezza ma imponeva notevoli sacrifici ottici. La lente, spesso menisco singolo o doppietto economico, offriva aberrazione cromatica piuttosto pronunciata, ma restituiva un’immagine riconoscibile, con una qualità che risultava accettabile per scopi amatoriali quotidiani. Il sistema di avanzamento del film era meccanico, a ghiera manuale, con stop automatico su passo telaio e leve che segnalavano la posa completata.
All’interno c’era un tamburo a carica precaricabile, un meccanismo compatto, che garantiva velocità di utilizzo. La Homer No. 1 infatti permetteva di scattare cinque o sei fotogrammi in rapida successione, con armamento della molla e avanzamento manuale. Tutto era calibrato per offrire una sensazione meccanica fluida e ripetibile.
La costruzione elettronica era assente, coerente con la filosofia economica. Non c’era bulb né posa lunga, e non era prevista alcuna sincronizzazione per flash. I modelli successivi condivisero questa filosofia: anonimato, semplicità, compattezza alla portata di molti, senza alcuna pretesa tecnica elevata.
La Homer No. 1 era pensata come fotocamera da tasca, da portare con sé ovunque senza appesantire: peso inferiore a 100 g, dimensioni contenute (circa 60×30×15 mm), nessuna parte sporgente. Ideale per “instant snapshot” tra amici, viaggi brevi, foto di famiglia. Il fatto di non avere esposimetro né mirino sofisticato imponeva all’utente una certa approssimazione: l’inquadratura veniva fatta approssimata a “voce”, stimando a occhio la distanza e il tempo di esposizione.
La distribuzione avveniva tramite cataloghi, ferramenta e piccoli negozi di fotografia a Tokyo o Osaka. Non risultano esportazioni evidenti, ma la Homer No. 1 è oggi presente nei cataloghi collector americani, probabilmente importati come curiosità vintage. Il marketing del periodo faceva leva sulla portabilità e semplicità, con slogan in giapponese che puntavano alla “fotografia quotidiana senza fronzoli”.
L’assistenza tecnica era minima: riparazioni meccaniche base, sostituzione dell’otturatore o gruppi meccanici, sostituzione lente centrale. Non era previsto il service per elettroniche, e comunque l’assenza di componenti elettronici moderni rendeva il dispositivo stabile nel tempo, pur soggetto a usura meccanica e ossidazione della lamiera.
La Homer No. 1 è oggi un oggetto da collezionismo minoritario: vale tra i 20 e i 60 USD, spesso venduta in gruppo. Nonostante non sia un modello professionale, la sua rarità e il contesto storico la rendono interessante per collezionisti di miniature giapponesi e tecnofili vintage .
Dal punto di vista tecnico, la lente singola produce immagini morbide ai bordi, contrasti bassi, aberrazioni cromatiche. L’otturatore meccanico è preciso nel funzionamento ma impreciso nei tempi reali. Chi ha provato a scattare con essa segnala scarti fino a ±50 % rispetto ai tempi dichiarati, comportando sovra o sottoesposizioni evidenti. Tuttavia, con pellicole ad alta latitudine, diventa uno strumento creativo dalle atmosfere sognanti.
La complessità di restauro è minima: smontaggio del corpo, lubrificazione delle molle, verniciatura. L’assenza di circuiterie elettroniche rende possibile una riparazione completa anche con strumenti artigianali. Le guide collector giapponesi la inseriscono tra le “mini-box vintage da ristampare”, accompagnata nel tempo da post-produzione creativa per preservare l’effetto analogico.

Sono Manuela, autrice e amministratrice del sito web www.storiadellafotografia.com. La mia passione per la fotografia è nata molti anni fa, e da allora ho dedicato la mia vita professionale a esplorare e condividere la sua storia affascinante.
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