Horst Faas è stato uno dei più autorevoli fotoreporter bellici del XX secolo, noto per le sue immagini emblematiche dalla guerra del Vietnam e da altri teatri di guerra. Vincitore di due Premi Pulitzer, la sua azione non si limitò allo scatto: come chief photographer della Associated Press per il Sud-est asiatico ha esercitato un’influenza cruciale sulla narrazione visiva del conflitto. Nacque a Berlino (Germania Nazista) il 28 aprile 1933 e morì il 10 maggio 2012 a Monaco di Baviera (Germania).
Horst Faas iniziò la sua carriera fotografica nel 1951 come assistente in una sala di posa della Keystone Agency a Monaco. Lì apprese le basi dello sviluppo dei negativi, del contatto carta-negativo, della conservazione delle lastre e dell’archiviazione delle immagini. Quell’esperienza affinò la sua sensibilità tecnica: imparò presto a riconoscere l’importanza della qualità del negativo, della densità tonale e della scelta dei tempi di sviluppo, elementi che avrebbero definito il suo approccio documentaristico nei conflitti.
All’età di ventitré anni, nel 1956, entrò nella Associated Press. Nelle file dell’agenzia, iniziò a coprire guerre in Congo e Algeria, sviluppando uno stile caratterizzato dalla reattività visiva in situazioni estreme. Dal punto di vista tecnico, Faas prediligeva le fotocamere Leica M e Nikon F, apprezzate per l’ergonomia, la resistenza e la qualità delle ottiche, soprattutto nelle focali tra i 35 mm e i 50 mm, ad apertura f/1.4 – f/2. Le pellicole che preferiva erano quelle a media sensibilità (ISO 100–400), scelte per garantire nitidezza e resa tonale, fondamentali per i reportage in condizioni variabili.
Nel 1962 diventò responsabile fotografico AP per il Sud-est asiatico, con sede a Saigon. Fu un periodo di intensa sperimentazione tecnica sul campo: imparò a leggere il contrasto tra sole tropicale e ombra durante le missioni e a regolare in modo rapido tempi e apertura per ottenere esposizioni efficaci in situazioni dinamiche. Spesso ricorreva a filtri UV e condensatori per rallentare il tempo di esposizione quando la luce era troppo intensa, consumando pochi ISO e preservando la grana visiva.
È in Vietnam che Faas compì il salto da fotografo di guerra a figura chiave della narrazione visiva. Arrivato per documentare l’escalation militare, si trovò a fronteggiare situazioni inedite: battaglie urbane, bombardamenti su villaggi e azioni aeree. Per catturare queste scene, Faas divenne rapido nell’impostare la messa a fuoco e nel calibrare l’esposizione in frazioni di secondo, sfruttando il mirino Leica per la lettura visiva veloce e istintiva.
Particolare importanza diede all’uso del teleobiettivo, adottato per isolare dettagli all’interno di campi di battaglia, come elicotteri colpiti, soldati feriti o momenti di evacuazione. Questi strumenti gli permettevano di produrre immagini ricche di narrazione, in cui la scelta del frame diventava evocativa. L’uso dello zoom era limitato; preferiva le focali fisse per la loro maggiore resa ottica.
Durante la sua regia come photo editor, Faas esercitò un ruolo fondamentale nel decidere quali immagini avessero valore simbolico. È noto che scelse di far passare lo scatto di Eddie Adams ritraente l’esecuzione a Saigon e fece spedire contro le resistenze interne la foto di Nick Ut raffigurante la bambina scottata dal napalm. Quella scelta si basava sulla capacità visiva di quelle foto di diventare icone. Anche dal punto di vista tecnico, Faas insistette perché tali immagini conservassero una gamma tonale equilibrata, capace di restituire il drammatico contrasto tra carne, sole, ombra e colore.
Il suo lavoro come editor significava verificare che le immagini fossero plasticamente coerenti, che la grana non fosse alterata in fase di scansione o stampa e che la resa visiva sui giornali rispondesse all’intento narrativo. Questo aspetto del suo lavoro rispecchiava la sua consapevolezza delle tecnologie di riproduzione (off-set, rotocalco, telex fotografico) e dell’effetto che un’immagine poteva avere una volta stampata su carta di notizie.
Dopo essere stato ferito alla gamba nel 1967 da una granata in un’escalation nel Vietnam centrale, Faas trascorse più tempo come photo editor nello studio di Saigon. Qui consolidò un team tanto composito quanto talentuoso: nominava fotoreporter emergenti come Henri Huet, Eddie Adams, Peter Arnett e Nick Ut, insegnando non solo regole tecniche ma anche etica professionale, selezione critica del frame e mantenimento di una coerenza visiva nel racconto.
Usava la sala di redazione come luogo di confronto: proiettava contatti in bianco e nero, li esaminava alla luce di lampade calibrate, valutava tonalità di grigio, intensità di contrasto, possibili interventi di stampa. Per Faas quello era un laboratorio di sviluppo visivo: chi usciva, dopo, era pronto a “fotografare la verità della guerra”.
Nel 1972 vinse il secondo Pulitzer per la copertura in Bangladesh, documentando esecuzioni sommarie. Qui mise in campo la sua esperienza nella tempistica visiva e la capacità di stabilire empatia nei fotogrammi. La foto non era un’immagine neutra, ma una narrazione emotivamente potente, ma contornata da sviluppo analitico e rigoroso.
Nel 1976 entrò nelle redini dell’AP europea a Londra, dove supervisionò le trasmissioni, l’editing e la qualità visiva fino al 2004. Il suo approccio era sempre lo stesso: rigore tecnico, qualità visiva, intensità narrativa e utilità giornalistica. Ha curato il rilancio della copertura fotografica di guerra, dandomi valore non solo ai singoli scatti, ma ai tempi, al contesto e al rischio insito in quella narrazione fotografica.
Opere principali
Tra le opere più emblematiche della carriera di Horst Faas possiamo individuare alcuni momenti chiave, che attraversano conflitti e decenni.
La copertura della guerra del Vietnam (1962–1974) è il suo progetto principale: centinaia di immagini che documentano evacuazioni, bambini resi vittime del conflitto, truppe in ritirata, combattimenti mano a mano. Da queste missioni scaturirono i suoi premi Pulitzer (1965 e 1972) e la possibilità di selezionare immagini simbolo come quelle di Adams e Ut.
Il volume Requiem: By the Photographers Who Died in Vietnam and Indochina (1997), curato con Tim Page, racconta una storia visiva della guerra attraverso gli sguardi di colleghi meno fortunati, come Jean Péraud, Larry Burrows, Henri Huet. Il volume sfugge alla semplice cronaca, diventando un omaggio ritmico, una collezione in cui archiviare etica, lavoro e vocazione professionale.
Lost Over Laos: A True Story of Tragedy, Mystery, and Friendship (2003), scritto insieme a Richard Pyle, restituisce la vicenda narrativa della squadra aerea precipitata nel 1971, con profonde riflessioni sul rapporto tra fotoreporter e guerra, dimensioni tecniche e umane.
Durante la sua carriera ha anche pubblicato lavori sul confine tra fotografia e memoria storica, come “Horst Faas: 50 Ans de photojournalisme” e altre antologie che mostrano i suoi scatti digitalizzati e le stampe originali confrontate con le repliche su agenzie stampa digitali.