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La macchina fotograficaFotocamere grande formato

Fotocamere grande formato

Nel panorama della fotografia, il termine fotocamera grande formato definisce quegli strumenti che utilizzano lastre o pellicole di dimensioni significativamente maggiori rispetto a quelle dei formati più comuni, come 35 mm o medio formato. Per comprendere che cosa si intenda con grande formato, va ricordato che si parla tipicamente di lastre o fogli da 4×5 inches (circa 10×12 cm) e oltre, fino a formati come 8×10, 11×14, o persino più grandi — ogni dimensione che comporti una superficie del negativo o della lastra molto superiore a quella del “formato piccolo” .

Questo tipo di macchina fotografica riveste un’importanza particolare sia dal punto di vista tecnico che storico. Da un lato, l’uso di un’area d’immagine maggiore consente una risoluzione superiore, una grana più fine, una gamma tonale più estesa e potenzialmente una nitidezza elevatissima, fornendo alla fotografia possibilità che non sono accessibili con formati minori.  Dall’altro, il grande formato ha trovato applicazioni prestigiose, nell’architettura, nella fotografia paesaggistica ad altissima qualità, nella stampa fine art, ma anche nella documentazione di opere d’arte e siti storici dove la fedeltà è essenziale.

Inoltre, queste macchine ci aiutano a capire come la tecnologia fotografica abbia risposto a esigenze qualitative prima e più intense, e come la tradizione della fotografia su lastra o foglio sia rimasta viva anche davanti all’avvento del digitale. Non si tratta solo di grandezza fisica del supporto, ma di un paradigma progettuale: corpi macchina spesso modulari, ottiche intercambiabili, struttura a soffietto, possibilità di movimento (swing-tilt) del piano pellicola e del piano ottica, gestione meticolosa delle distanze e delle azioni.

L’importanza della fotocamera grande formato sta anche nella visione fotografica che essa impone: scattare con un grande formato significa rallentare, riflettere su ogni inquadratura, gestire luci e contrasti in modo diverso, perché l’eccellenza tecnica richiede una cura elevata e un pensiero progettuale. Per un sito dedicato alla storia della fotografia, questo tipo di apparecchio rappresenta una parte fondamentale dell’evoluzione tecnica e culturale: una macchina che connette la pratica artigianale della fotografia ottocentesca con le esigenze di qualità del XX e XXI secolo.

Nel corso di questo articolo esamineremo le origini storiche delle fotocamere grande formato, il cammino evolutivo della tecnologia, le caratteristiche principali che le distinguono da altre macchine fotografiche, i loro impieghi e l’impatto nel mondo della fotografia e, infine, alcune curiosità e modelli che hanno fatto epoca. L’obiettivo è proporre un quadro tecnico-storico, ricco di dettagli, che possa servire sia come introduzione che come approfondimento per chiunque voglia comprendere il valore e la ragion d’essere della fotografia grande formato.

Origini storiche

La storia della fotocamera grande formato è strettamente intrecciata con gli albori della fotografia stessa, quando le lastre o i supporti utilizzati erano già grandi rispetto agli standard odierni. Già nel XIX secolo era pratica comune utilizzare lastre rigide di vetro di dimensioni ampie — sebbene non venisse allora considerato “grande formato” nel senso moderno — per realizzare dagherrotipi o calotipi.  Con l’affinarsi delle tecniche e delle emulsioni migliorate, la necessità di ottenere immagini di fine qualità portò verso formati più grandi, che offrivano resa elevata ed erano usati già per lavori professionali.

Nel corso della fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, la classificazione odierna del grande formato cominciò a prendere forma. Ad esempio, si diffusero formati come 4×5 inches, 5×7 inches, 8×10 inches, e persino formati più grandi per specifiche applicazioni. Un passaggio chiave fu rappresentato dalla camera-view o “view camera” (macchina a soffietto), che consentiva al fotografo di comporre, mettere a fuoco e correggere prospettive mediante l’uso di un vetro smerigliato, prima di inserire la lastra o il foglio fotografico.

Tra le prime macchine di questo tipo va ricordata la fotocamera da studio e da campo che utilizzava lastre di vetro e sistemi a soffietto, montate su cavalletti robusti, talvolta molto ingombranti. Il movimento dei piani ottica e pellicola, la possibilità di inclinazione e slittamento, erano già caratteristiche che contraddistinguevano le macchine professionali. Con il tempo, queste caratteristiche vennero classificate come tipiche delle “macchine grande formato”. Un riferimento storico è dato da testi accademici che indicano che la grande formato è diventato accessibile verso la metà dell’Ottocento, grazie al miglioramento delle emulsioni e dei processi chimici.

Focalizzando sui formati moderni, si può osservare come il formato 4×5 inches abbia acquisito popolarità all’inizio del XX secolo: uno studio storico segnala che intorno al 1900 la dimensione 4×5 iniziava a diffondersi nel mercato americano.  Questa dimensione divenne uno standard per la fotografia professionale negli Stati Uniti, in particolare nell’ambito della stampa commerciale, delle fotografie industriali e delle riproduzioni di opere d’arte, grazie alla capacità di contatto diretto con le lastre e alle dimensioni maggiori rispetto al 35mm (24×36 mm).

Un altro punto significativo è la nascita di formati ancora più grandi — 8×10 inches o 11×14 inches — che venivano adottati per riprese in studio, architettura e paesaggio, dove la qualità estrema era richiesta. Il fatto che tali formati richiedessero supporti rigidi, cavalletti, tavole di legno o metallo, e lastre in vetro o pellicola molto grande, ne relegava l’uso a fotografi professionisti e a laboratori specializzati.

È interessante notare che, mentre il formato 35mm e le fotocamere più compatte guadagnavano popolarità per uso quotidiano e reportage, la grande formato mantenne il suo primato in ambito di qualità assoluta, documentazione, stampa su larga scala e archiviazione di alto livello. In breve, le origini storiche delle fotocamere grande formato segnano un’evoluzione parallela alla fotografia stessa: da strumenti artigianali a sistemi professionali raffinati, destinati a chi cercava il massimo della qualità d’immagine.

Nel passaggio dal XIX al XX secolo si consolidarono non solo i formati e le macchine, ma anche una cultura della fotografia come arte e tecnologia di precisione, nella quale le fotocamere grande formato rappresentavano lo strumento per eccellenza per ottenere immagini di impatto, dettagliate e durevoli. Le custodie, il vetro smerigliato per composizione, lenti grandi, controlli manuali completi, tutti questi elementi vennero integrati in un sistema che fu poi perfezionato nel corso del Novecento.

La svolta della seconda metà del Novecento vide un progressivo affinamento dei materiali — dall’alluminio al magnesio, dai vetri ottici migliorati, dalle emulsioni rapide — e un costo maggiore per unità esposta, ma con in cambio capacità tecniche straordinarie. Questo contesto storico ci prepara alla fase di evoluzione tecnologica che analizzeremo nel paragrafo seguente.

Evoluzione tecnologica

L’evoluzione tecnologica delle fotocamere grande formato può essere analizzata su più fronti: materiali e struttura della macchina, ottiche, movimenti (avanzamento, regolazioni prospettiche), supporti (lastre e pellicole), illuminazione associata e, più recentemente, digitalizzazione e adattamenti al digitale. Ognuno di questi aspetti ha contribuito a rendere le fotocamere grande formato strumenti sempre più raffinati.

Partendo dai materiali e dalla struttura, le prime macchine erano interamente realizzate in legno, ottone e vetro, con un soffietto in tela che collegava il piano della lente al piano della lastra. Questo insieme consentiva una certa manovrabilità dei movimenti, ma risultava pesante e poco pratico in esterni. Con il passare del tempo, la fusione di tecniche meccaniche più avanzate fece sì che si utilizzassero materiali come l’alluminio anodizzato, il magnesio, il fibre-vetro e successivamente le leghe leggere. Il soffietto fu migliorato con materiali sintetici più resistenti, e le guide (in particolare nei modelli monorail) divennero più precise, con l’aggiunta di scala di messa a fuoco, livelle a bolla, indicatori digitali nelle versioni più tarde.

Gli ottici ebbero un’evoluzione parallela: nel grande formato la lente deve coprire un’area d’immagine molto ampia, richiedendo vetri ottici di grande diametro, con diametro effettivo elevato e schemi di correzione per ridurre aberrazioni e garantire nitidezza su tutta la lastra. Per esempio, le ottiche per 8×10 inches erano progettate con forti piani compensati, e spesso si utilizzavano ottiche Schneider, Zeiss o Fujinon di alta gamma. Anche i sistemi di otturazione subirono miglioramenti: dalle tendine metalliche a doppia foglia delle prime lastre, si passò ai tempi di scatto più rapidi, all’uso di otturatori con esposizione centrale o otturatori moderni integrati nelle lenti per lastre. Il regolo professionale richiedeva, per risoluzioni altissime, disporre di materie prime ottiche che garantissero prestazioni elevate anche su lastre di dimensione 20×25 cm o più.

Un elemento fondamentale fu rappresentato dai movimenti di piano e lente: le fotocamere grande formato permisero lo swing, tilt, rise, fall, shift dei piani — spostamenti che permettono di correggere la prospettiva, controllare la profondità di campo (principio di Scheimpflug) e ottenere immagini con linee perfettamente rette, essenziali in architettura e paesaggio. Tali movimenti erano pressoché assenti nei formati più piccoli, e diventarono un fattore distintivo del grande formato.

Per quanto riguarda i supporti, la grande formato fu caratterizzata dall’uso di lastre o fogli singoli piuttosto che rullini: ciò significava che il fotografo carica il portalastra, compone e mette a fuoco su vetro smerigliato, inserisce la lastra, scatta, poi sviluppa ogni foglio individualmente. Questo processo era più lento, richiedeva calma, precisione e attrezzatura (teli neri, cavalletto solido, treppiede, ecc.).  Con l’avvento della fotografia digitale, molte fotocamere grande formato sono state adattate a supporti digitali (digital backs) oppure convertite per usare sensori digitali di grande dimensione, recuperando in parte la filosofia del grande formato analogico.

Un’altra importante evoluzione riguarda l’illuminazione e la gestione tecnica della luce: nel grande formato in studio, l’uso di grandi flash a studio, tendine sincronizzate, lenti speciali, era la norma. Con il tempo, il controllo della qualità dell’immagine fu rafforzato dall’uso di conteggi precisi dell’esposizione, dalla misura della luce a lastre singole, dall’uso di filtri specifici, dei vetri di focalizzazione smerigliata di altissima qualità e delle macchine per ingrandimento molto grandi. La stampa fine art da lastre di grande formato consentì la produzione di stampe giganti con livello di nitidezza e gradazione tonale che pochi altri formati potevano offrire.

Negli ultimi decenni, la transizione al digitale ha visto il grande formato vivere una sorta di doppia vita: da un lato molti fotografi continuano a utilizzare lastre o fogli per rendere visivamente e tattile quello che la tradizione richiede; dall’altro la modernizzazione ha portato alla produzione di backs digitali da decine o centinaia di megapixel, compatibili con corpi macchina grande formato. Il grande formato digitale mantiene le caratteristiche di movimento, lente ad alta copertura, grande superficie immagine, e l’ergonomia della macchina a soffietto, ma accelera i tempi e semplifica lo sviluppo e la post-produzione.

È utile evidenziare come questa evoluzione non sia stata lineare: in certi momenti la grande formato sembrava destinata a essere soppiantata dai formati più moderni (medio formato, 35 mm, digitale), ma la sua persistenza deriva dalla domanda di qualità assoluta, dalla stampa su larga scala e dalla documentazione professionale. Una macchina fotografica grande formato rappresenta dunque un sistema tecnico di altissima precisione, che affonda le radici nelle origini della fotografia e che si è rinnovato continuamente per rispondere alle esigenze della qualità elevata. È un capitolo fondamentale della storia della fotografia tecnica: la macchina che, più di ogni altra, ha spinto i limiti della nitidezza, della fedeltà, del controllo prospettico e della resa visiva.

Caratteristiche principali

Le fotocamere grande formato si distinguono per una serie di tratti tecnici che le rendono profondamente differenti dalle fotocamere di piccolo o medio formato. Analizzare queste caratteristiche è essenziale per capire non solo cosa le renda uniche, ma anche perché mantengano un ruolo specializzato nella fotografia oggi.

Una caratteristica centrale è la superficie d’immagine elevata: un foglio 4×5 inches misura circa 10×12 cm, ovvero una superficie quasi 16-20 volte quella di un negativo 35 mm 24×36 mm. Questo enorme vantaggio consente una risoluzione molto alta, dettagli finissimi e, in fase di stampa o ingrandimento, una qualità che altri formati non riescono ad offrire. In pratica, utilizzare grande formato equivale a disporre di un “file” molto più grande e “pulito”.

Altro elemento distintivo è la presenza del soffietto tra lente e supporto, che consente l’estrema flessibilità dei piani: il piano ottica e il piano pellicola (o lastra) possono essere spostati, inclinati, sollevati o abbassati. Tali movimenti (rise, fall, shift, swing, tilt) permettono di correggere la prospettiva, controllare la profondità di campo secondo il principio di Scheimpflug, e gestire la messa a fuoco in modo selettivo. Questa funzionalità è rarissima nei formati più piccoli e costituisce un motivo tecnico e progettuale per cui la grande formato è scelta per architettura, ingegneria, paesaggio e arte.

In termini ottici, le lenti destinate al grande formato devono coprire una grande area d’immagine e offrire nitidezza su tutto il foglio, il che comporta vetri voluminosi, schema correttivo elevato, diametro elevato e bordi ben risolti. Inoltre, spesso non si utilizzano obiettivi zoom: gli obiettivi sono fissi e specificamente progettati per il grande formato, il che migliora la qualità. Il sistema di messa a fuoco avviene generalmente mediante vetro smerigliato e puntatore di messa a fuoco, una modalità che implica lentezza, ma consente un controllo molto preciso.

Il flusso operativo di una fotocamera grande formato lo mostra chiaramente: si monta la lente con diaframma aperto, si affaccia il fotografo sul vetro smerigliato, compone e mette a fuoco, regola i movimenti, chiude il diaframma, inserisce la lastra o il foglio in un porta-lastra, rimuove il vetro smerigliato, copre il soffietto con un telo oscurante (nel caso della pellicola sensibilizzata) e scatta. Ogni esposizione richiede un’operazione consapevole e cura del set-up, che rafforza l’idea di “macchina fotografica lenta”, di riflessione e precisione.

Un’altra caratteristica di rilievo riguarda il mancato legame tra avanzamento film e scatto in certe versioni: ogni lastra o foglio può essere caricato, scattato e sviluppato separatamente, consentendo un approccio modulare e altamente controllato.

È poi importante considerare l’ergonomia e la dimensione: le macchine grande formato sono generalmente più ingombranti, pesanti, necessitano di supporti robusti, cavalletti, tavole di legno o metallo e non sono pensate per la fotografica “mordi e fuggi”. Tutto ciò fa sì che l’operatore dedichi tempo alla preparazione, alla composizione, alla luce, alla colonna e al soggetto. La lentezza diventa una parte progettuale — non un limite, ma un plus qualitativo.

La transizione verso il digitale ha introdotto la possibilità di usare backs digitali di grande superficie, mantenendo i vantaggi del grande formato tradizionale: la copertura dell’ottica, i movimenti, la grande superficie immagine. In questa prospettiva, le macchine grande formato si pongono ancora oggi come strumenti di riferimento quando si cerca la massima qualità, la stampa di grande valore, la documentazione fine art o la riproduzione di opere d’arte.

Infine, vi è un legame forte tra questi strumenti e la cura della luce: il grande formato richiede un set-up accurato, una luce calibrata, un controllo dell’esposizione, spesso lenti ad alta risoluzione, inclinazioni e regolazioni che permettono risultati che fanno la differenza quando si ingrandisce o si visualizza su scala elevata. Ne consegue che il fotografo grande formato deve padroneggiare tecnica e metodo, ed è qui che la macchina fotografica grande formato rappresenta non solo un apparecchio, ma un pezzo di storia della fotografia.

Utilizzi e impatto nella fotografia

Le fotocamere grande formato hanno trovato applicazioni molto diverse tra loro, e il loro impatto nella storia della fotografia è significativo tanto in ambito professionale quanto artistico. In ambito studio e commerciale, queste macchine furono adottate dalla fine del XIX e all’inizio del XX secolo per realizzazioni di alta qualità: ritratti, cataloghi, riproduzioni di opere d’arte, architettura, paesaggio, pubblicità. La grande superficie dell’immagine consentiva di ottenere stampe di grandi dimensioni e di altissima qualità, indispensabili ad esempio per i cataloghi industriali e per la documentazione pubblicitaria. In campo architettonico e ingegneristico, la possibilità di correggere prospettive tramite i movimenti, e di produrre lastre di grandi dimensioni, rese la fotocamera grande formato lo strumento privilegiato per la documentazione tecnica e la fotografia di edifici, interni e infrastrutture.

Un ambito di particolare rilievo è la fotografia paesaggistica: numerosi maestri del paesaggio hanno scelto il grande formato per ottenere quella resa visiva che altri formati non potevano offrire. In paesaggi ampi, con dettagli minuti, ombre delicate e luci complesse, la superficie d’immagine e la qualità ottica del grande formato consentivano di rendere l’ambiente con precisione e profondità. Questo ha contribuito a definire un’estetica della fotografia paesaggistica elevata, in cui il mezzo diventa parte integrante della visione.

Dal punto di vista storico, l’impatto della fotocamera grande formato si estende anche alla stampa fine art: lastre o fogli ampi permisero, già nel secolo scorso, la produzione di stampe fotografiche di grande dimensione e qualità museale. La capacità di ingrandire senza perdita significativa di dettaglio ha permesso al mezzo fotografico di contendere lo spazio alla pittura e ad altre arti visive quando la finezza del dettaglio e la maestria tecnica erano valori essenziali.

In ambito documentario e archivistico, la grande formato ha avuto un ruolo chiave. Ad esempio, programmi americani di documentazione del patrimonio storico-edilizio come l’Historic American Buildings Survey (HABS) e simili utilizzano lastre 4×5, 5×7 e 8×10 per la fotografia di edifici storici, in ragione della loro nitidezza e superficie. Qui la fotocamera grande formato diventa strumento tecnico di valore culturale, non solo estetico.

L’effetto sulla formazione dei fotografi è stato significativo: l’uso del grande formato impone un ritmo più lento, una pianificazione accurata, una maggiore consapevolezza della luce, della composizione e dei movimenti della macchina. Questo ha derivato in un approccio fotografico più meditato, artigianale, in cui la tecnica e la visione visiva si uniscono. Anche oggi, molti fotografi digitali che passano al grande formato analogico dichiarano che l’esperienza li ha “forzati” a pensare in modo diverso, più lento e più consapevole.

Va sottolineato che, sebbene il digitale abbia conquistato molti settori, il grande formato non è scomparso: al contrario è rimasto un segno distintivo della massima qualità. Alcuni studi, laboratori artistici e fotografi professionisti lo adottano ancora perché le caratteristiche tecniche (superficie, movimenti, precisione) non sono eguagliate da molti sistemi digitali più piccoli. C’è un valore storico e tecnico: la macchina fotografica grande formato rappresenta un ponte tra la tradizione della fotografia analogica e le esigenze moderne di resa.

In definitiva, l’impatto nella fotografia del grande formato è molteplice: tecnico (ha spinto limiti di nitidezza e controllo), estetico (ha definito estetiche elevate di paesaggio e architettura), operativo (ha richiesto strumenti e processi specialistici) e formativo (ha educato generazioni di fotografi a lavorare con attenzione e rigore). Per un sito di storia della fotografia, l’esame delle fotocamere grande formato permette di cogliere come la tecnologia, la pratica, la visione visiva e il supporto materiale siano tra loro intrecciati.

Curiosità e modelli iconici

Nel vasto panorama delle fotocamere grande formato emergono modelli che più di altri hanno segnato tappe significative o presentato soluzioni tecniche notevoli. Tra questi va citata la Polaroid 20×24 (ad esempio introdotta nel 1976) — una macchina che utilizzava lastre istantanee 20×24 inches, oggi considerata uno dei giganti del grande formato. Il fatto che una fotocamera potesse produrre negativi (o positivi diretti) di tale grandezza era già un segno del potenziale del grande formato. Le ottiche per questo modello erano gigantesche, e le stampe risultanti spettacolari per livello di dettaglio e resa tonale.

Un’altra curiosità riguarda la diffusione del formato 4×5 inches come standard pratico per il grande formato. Il forum storico della grande formato riporta che il formato 4×5 cominciò ad essere utilizzato intorno al 1900 negli Stati Uniti, forse grazie alle esigenze degli studi fotografici e della stampa commerciale. L’importanza di tale formato fu tale che ancora oggi è tra i più usati dagli appassionati di grande formato analogico.

In ambito marchi e costruttori, vanno menzionate aziende come Graflex negli Stati Uniti, che prodotto tra le altre la serie 4×5 View Camera e modelli Panorama (Cirkut), e aziende europee e giapponesi che si specializzarono nelle macchine a soffietto e nei backs per lastre. I modelli “view camera” classici erano progettati per fotografi professionisti che necessitavano non solo della massima qualità ma anche di adattabilità: tubi/guide, tavole di legno, piani mobili, dolly.

Un’altra curiosità tecnica: molti modelli grande formato prevedevano l’uso di vetro smerigliato e telo nero dietro la macchina per comporre e calibrare l’immagine, procedimento che richiama l’epoca della camera oscura e che fu mantenuto anche in epoca analogica avanzata come pratica standard. Operatori contemporanei che usano 8×10 o 11×14 raccontano di quanto sia “lento” il flusso di lavoro — ogni scatto richiede caricamento, messa a fuoco, controlli, esposizione, e non è raro che una sessione richieda ore per poche lastre. Questo tempo riflette una filosofia diversa da quella della fotografia “istantanea”; è una pratica contemplativa dove lo strumento viene padroneggiato.

Tra i modelli iconici, oltre la Polaroid 20×24, possiamo ricordare macchine 8×10 di marca Burke & James (azienda fondata nel 1897 a Chicago e attiva fino al XX secolo) utilizzate negli studi commerciali, come evidenziato da fotografie d’archivio.

 Inoltre, alcuni fotografi contemporanei utilizzano nuovi produttori come Intrepid Camera (una startup britannica che produce fotocamere 4×5 in materiale leggero) per riscoprire la bellezza e il rigore del grande formato analogico.

Un’ulteriore curiosità riguarda come la grande formato abbia mantenuto rilevanza anche nell’era digitale: molti fotografi montano backs digitali su corpi grande formato, oppure utilizzano fotocamere a soffietto digitali che riprendono la struttura classica del grande formato (tubo, piano ottica, piano sensore) ma con sensori digitali che beneficiano della superficie immagine ampia e dei movimenti macchina. In tal senso, il grande formato non appare come una reliquia tecnica, ma come un locus di eccellenza che convive con le innovazioni.

Infine, vale la pena ricordare l’esperienza soggettiva: lavorare con una macchina grande formato comporta un ritmo, un’attenzione, una preparazione che differiscono radicalmente dalla fotografia veloce. Ciascuna lastra rappresenta una scelta ponderata, una composizione definita, un’impostazione di meticolosa precisione. Per chi studia la storia della fotografia, questa dimensione operativa rappresenta una forma di “ritorno” alla fotografia come arte dei materiali, del vetro, del legno, dell’ottica, della luce.

Fonti

Curiosità Fotografiche

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