Nascita: ca. 1832, Venezia, Regno Lombardo‑Veneto (alcune fonti: Corfù, sotto protettorato britannico). Decesso: 29 gennaio 1909, Firenze, Regno d’Italia
Filadelfo Felice Beato (spesso Felix Beato) viene al mondo intorno al 1832 in Laguna, anche se il nucleo familiare si sposta poco dopo su Corfù, che era sotto tutela britannica: ciò gli garantirà doppia nazionalità (italiana e britannica). Il confronto tra fonti suggerisce un’esistenza iniziale all’ombra di Venezia, ma la formazione emerge soprattutto a Costantinopoli, dove nel 1851 rimane affascinato dal neonato medium: incontra James Robertson, incisore, fotografo emergente e futuro cognato. Qui apprende i rudimenti del collodio umido su lastra di vetro, base tecnica delle sue successive sperimentazioni.
Ancora giovane, si iscrive nella neonata rete professionale del vecchio continente ottomano: dapprima si specializza nella documentazione d’architettura religiosa come moschee, bazar e scorci urbani. Casualità storica e spirito imprenditoriale lo guidano, insieme al progetto “Robertson & Beato” (dal 1853 al 1860), che include Antonio Beato, venuto a rafforzare lo studio fotografico con esperienze nei Balcani e nel Mediterraneo.
Questa fase portò alla produzione di albumen silver print di notevole dettaglio, realizzati da vetri al collodio, tirature di pregio, su carta da albuminatura. Felice applica meticolosamente tecniche di stampa avanzate per l’epoca: bagni di oro tonificante, fissaggio con solfato di zinco, stesura uniforme e sviluppo controllato. L’impressione degli albumen print era resa più durevole, luminosità e contrasto marcato, ideale per il mercato europeo, in competizione con i litotipi delle illustrazioni.
La sua precisione nella stesura delle emulsioni era tale da permettere la stampa su vetri di grandi dimensioni, anticipando panoramiche complesse che avrebbe consolidato in Asia. L’approccio era duplice: consapevolezza tecnica occidentale e adattamento delle tecniche alle condizioni sul campo, anticipando un’etica fotografica pragmatica tipica del reportage bellico.
Carriera come fotografo di guerra: innovazioni e limiti tecnici
Verso il 1855 partecipa con Robertson alla spedizione britannica in Crimea (Sevastopol, Balaklava), impiegando wet‑collodion method per esporre in pochi secondi, riducendo drasticamente i tempi tecnici rispetto al dagherrotipo. Ma dovette mitigare i problemi di trasporto pesante, reagenti deteriorabili e la necessità di sviluppare in loco. Per questo concepisce un laboratorio mobile: un piccolo tendone nero, tavolo smontabile, contenitori portatili, un generatore di nitrato d’argento e amilico – il tutto conservato in cassetti rivestiti di feltro. Il nitrato d’argento veniva preparato direttamente in loco, miscelato a soluzione di collodio, applicato sul vetro, esposto e immediatamente sviluppato.
Il risultato fu strabiliante. Migliorò la qualità dei dettagli sul campo, restituendo fotografie della Prima guerra moderna con corpi, cadaveri e distruzione. È ampiamente considerato tra i primi a mostrare corpi reali sul campo ― uno shock visivo e culturale, sinora assente in foto di guerra . Nonostante la rigida lente dell’immagine, curava i chiaroscuri, evitando sovraesposizioni, realizzando albumen print con nitidezza superiore ai contemporanei. Si avvalse inoltre di tonalizzazioni con oro e selenio per stabilizzare l’argento, migliorare la gradazione tonale e ritardare l’ingiallimento.
Durante la Rivolta indiana del 1857, visitò Lucknow, Calcutta, Delhi. Qui immortalò cadaveri su scala per la prima volta nella storia fotografica, a Sikandar Bagh, riorganizzandone l’ambientazione per massimizzare l’impatto visivo e narrativo ‒ metodologia controversa, ma pionieristica nella fotografia documentaria. Era convinto che l’efficacia dell’immagine potesse trasmettere, oltre alla dimensione estetica, anche l’efficacia del reportage oculare.
Nel 1860 passa alla Seconda Guerra dell’Oppio in Cina. Le foto dei forti di Taku, del Palazzi d’Estate a Pechino, delle rovine post-incendio, mostrano un’acuta capacità compositiva: architetture in equilibrio prospettico, giochi di linee, interno-esterno, volumi ben definiti. Le panoramiche erano assemblate da sette negativi cuciti con precisione ad arte, stampate su carta albuminata, unite manualmente, e fissate con colla animale, fungendo da prototipi dei moderni panorami fotografici.
Beato ha dunque imposto nuovi standard: fotografia di guerra come documentazione, laboratorio itinerante sul campo, tecniche integrate di sviluppo e tonificazione, e montaggio panoramico. Il resto del mondo fotografico occidentale lo seguì, adottando quasi in toto i suoi accorgimenti tecnici.
H2 La fase in Estremo Oriente: Giappone e influenze tecniche
Nel 1863 sbarca in Giappone, stabilendosi a Yokohama. Assieme a Charles Wirgman fonda “Beato & Wirgman”, primo studio commerciale a vendere foto in serie in Occidente. Inizia a dominare la scena fotografica giapponese per oltre vent’anni, fino al 1884. Durante questo periodo inventa e perfeziona diverse soluzioni:
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Introduce il doppio approccio fotografico: “Views & Costumes/Manners”, un formato tipico europeo applicato al Giappone, con scorci urbani, cerimonie, abbigliamento, paesaggio, dedali di strade e interni.
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Coloritura manuale: recluta artisti giapponesi specializzati in acquerello e xilografia per colorare panorami e ritratti, con meticolosità: pigmenti naturali (indaco, rosso satins, giallo oriente), applicati in strati uniformi con pennelli fini, ottenendo splendide sfumature realistiche .
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Panorami lunghi: india campagne e paesaggi urbani, sviluppando viste di decine di metri, incollando unione di più negative di vetro, finiture bordate, e cornici composite. Un esempio notevole è il dipanarsi di panorami del Tōkaidō road in più segmenti individuali.
La casa di Beato depositò migliaia di immagini in album come “Native Types” (100 ritratti) e “Views of Japan” (98 panorami) già nel 1868. Le immagini erano eccelse dal punto di vista tecnico e compositivo: vengono apprezzate per bilanciamento tonale, profondità di campo (posizionamento di diaframmi f/11–f/16 con vetri sensibilizzati da formula collodio contenente ioduro di ammonio), divisione prospettica, e nitidezza centrica.
La maggior parte dei negativi di questo periodo (dagli anni ’60 ai ’70) erano glass-plate collodion, immersi in bagni disidratanti a zolfo ammoniacale e nitrato d’argento, sviluppati in loco in taniche portatili. Il calore del Giappone imponeva rigide misure di stabilizzazione: tende oscure, ghiaccio o soluzioni refrigeranti artigianali, per mantenere la temperatura sotto i 20 °C. Quando l’incendio di novembre 1866 distrusse parte del suo studio, persero negativi e apparecchiature, ma in pochi mesi Beato ricostituì l’infrastruttura, investendo in nuove lenti (Petzval 300 mm f/4.5 e 150 mm f/6.3 per ritratti) e vetro più sottile.
Beato formò giovani giapponesi come Kusakabe Kimbei, Stillfried-Ratenitsch e H. Woollett, trasmettendo loro conoscenze avanzate come tecniche di sviluppo accorciate, fusione di emulsioni multi-strato, uso di tonalizzazioni selettive in oro-rosato per dettagli dorati nei kimono, motivi architettonici, e composizioni su sfondo neutro.
Nel comparto commerciale, le sue foto divennero un modello di riferimento per la Yokohama Shashin (fotografia turistica), veicolate tramite agenti europei e americani, commesse per album turistici, riviste illustrati. Riallineava focale, tempi di posa, apertura obiettivo e sensibilità in funzione degli errori prospettici e del controluce freddo, restituendo immagini artistiche ma anche impregnate di rigore geometrico.
Principali opere fotografiche
Tra le sue creazioni più note, emergono:
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Panorama di Pehtang, Cina, 1860: sette negativi su vetro, uniti senza soluzione di continuità in un rotolo lungo oltre 2 m, con controllo delle sovrapposizioni e cornici dipinte per continuità ottica .
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Palazzo d’Estate di Qingyi Yuan, Pechino, prima dell’incendio in ottobre 1860: frammenti architettonici che documentano strutture cinesi prima della distruzione, inquadrati con precisione geometrica, diaframma chiuso e tonalizzazioni leggere per evidenziare i toni martoriati.
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Cadaveri di Lucknow, 1858: uso deliberato della composizione fotografica per evocare la tragedia; luci dure, alta definizione dei dettagli anatomici, reportage ibrido fra documentario e scenografia .
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Album “Views of Japan” (1868): 98 vedute con punto di fuga centrale, profondità tonale uniforme, bilanciamento fra ombra e luce diffusa tipica dei paesaggi orientali .
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Album “Native Types” (1868): 100 ritratti in posa, a figure intere, con f/11, tempi medio‑lunghi, uso di vetro 20×25 cm, riflettori rifrangenti, per valorizzare texture, rughe, stoffe tipiche, cervelli di carne e stile di vestizione .
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Fotografie del Buddha di Kamakura, primo soggetto giapponese immortalato da occidentale: inquadrato frontalmente, con apertura f/16–f/22, vetro di grossa dimensione (30×40 cm) per catturare texture in pietra.
A queste si aggiungono innumerevoli immagini di consuetudini giapponesi (tattoo, Thibaw Min in Mandalay, barbiere, riti quotidiani…), pubblico o privato, grazie a focali medio‑corte (135–210 mm) di lunga esposizione. Le immagini sostennero poi cataloghi fotografici, riprodotti da editori come Fournier, Tuttle e Quaritch, con tonificazioni selettive orientate alla durabilità.
Beato operava anche come editore: stampava, fotografava, vendeva e distribuiva album con negativi su vetro originali. Confezionava edizioni per Londra, Parigi e New York, coprendo l’intero percorso: dalla composizione in studio alla preparazione dell’album, garantendo quantità, qualità e controllo sulla distribuzione.