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I Maestri della FotografiaAnton Giulio Bragaglia

Anton Giulio Bragaglia

Anton Giulio Bragaglia, nato a Frosinone l’11 febbraio 1890, fu una figura poliedrica nell’arte e nella cultura italiana del Novecento. Le sue opere attraversarono le arti visive, il teatro, il cinema e il giornalismo, segnando tappe fondamentali nel fotodinamismo futurista e nella scena avanguardista romana. Figlio di Francesco Bragaglia, ingegnere e direttore artistico della casa cinematografica Cines, Anton Giulio fin da giovane si confrontò con le tecniche visive emergenti. Morì a Roma il 15 luglio 1960, lasciando un’eredità duratura nelle sperimentazioni fotografiche e cinematografiche.

Formazione, ambiente familiare e primi approcci visivi (1890–1910)

Anton Giulio cresce a Roma, immerso in un ambiente familiare votato alla sperimentazione visiva e al mecenatismo artistico. Suo padre, Francesco, è un ingegnere con competenze tecniche e managerial, nominato nel 1906 direttore artistico della Cines di Roma. In questo contesto Anton Giulio, insieme ai fratelli Arturo e Carlo Ludovico, apprende fin da bambino tecniche legate alla produzione cinematografica, all’illuminazione e alle dinamiche di ripresa.

La sua formazione si sviluppa tra cultura classica, archeologia e innovazione: Anton Giulio collabora con archeologi come Giacomo Boni e Rodolfo Lanciani, sviluppando uno sguardo attento allo spazio, alla narrazione visiva e alla relazione tra immagine e contesto archeologico. Queste esperienze lo portano a considerare la rappresentazione non come semplice riproduzione, ma come strumento di interpretazione del reale in movimento.

Alla vigilia della Grande Guerra, la fotografia viene percepita da Bragaglia come un terreno ancora da esplorare. Non contento della staticità del mezzo, lavora sul tema della fotodinamica, ovvero la restituzione visiva del movimento, influenzato dagli studi sulla cronofotografia di Marey e Muybridge. Tuttavia, Bragaglia respinge la cronofotografia per la sua analisi sequenziale, mentre aspira a un’immagine sintetica che rappresenti il movimento nella sua interezza.

Fotodinamismo futurista: la fotografia del movimento (1911–1913)

Nel 1911 pubblica Fotodinamismo futurista, concluso un saggio-manifesto che segna il primo tentativo tecnico e teorico di fotografia del movimento reale dentro un’unica immagine. L’obiettivo è restituire non solo una traiettoria fisica ma anche la sensazione vissuta del movimento, la sua energia sonora, luminosa, spirituale.

Tecnicamente, Bragaglia utilizza tempi di posa mediamente lunghi, luci artificiali o naturali accentuate e un fondo scuro/contrasto spinto, ottenendo scie e moltiplicazioni del soggetto in movimento. Il processo coinvolge esperimenti con ottiche prismatiche e specchi concavi o convessi, insieme al montaggio in camera oscura. La sequenza di immagini sovrapposte genera un effetto astratto, dove il corpo si frammenta nello spazio.

Il portfolio de Fotodinamismo futurista (1911–1913) comprende edizioni di tavole firmate da Carlo Ludovico, prodotte in tiratura limitata. Oggi sono rare, ma apprezzate e vendute in asta: stampe gelatina ai sali d’argento d’epoca o ristampe curate, come evidenziato da Finarte.

Nel 1912-1913 segue la pubblicazione del manifesto La fotografia del movimento, ponendo netta distanza da cronofotografia e cinema: la riflessione verte sull’essenza del movimento e la capacità della fotografia di rappresentarlo nella sua continuità, piuttosto che come una serie di istantanee separate.

Le immagini fotodinamiche realizzate dai fratelli Bragaglia includono scatti ritrattistici come “Un gesto del capo” (1913), fotomontaggi gravitanti sul tema del corpo dinamico. Un’opera come “Le Rose” esprime anche una dimensione simbolica, intrecciando allure futurista con la nascente Diva Film italiana.

Questo approccio è il primo, riconosciuto a livello internazionale, in cui la fotografia supera la staticità e si configura come linguaggio dinamico astratto, un ponte estetico-tensionale tra pittura, fotografia e cinema futurista.

Dalla scrittura fotografica al cinema e alla Casa d’Arte (1914–1919)

Dopo i manifesti fotodinamici, Anton Giulio manifesta un interesse sempre più teorico. Dal 1913 al 1916 pubblica saggi come Il film sonoro. Nuovi orizzonti della cinematografia (1929) ed Evoluzione del mimo (1930), oltre a un Manifesto del cinema futurista (1916), centrato sull’idea che la macchina cinematografica potesse amplificare le potenzialità della fotografia in movimento.

Nel 1916 fonda la casa di produzione Novissima Film, dirigendo opere visionarie come Il mio cadavere, Thaïs (1917) e Perfido incanto (1916–1918). Questi film adottano tecniche scenografiche futuriste e giochi ottici: ottiche prismatiche, mobili scenici in movimento, frammentazioni visive che riecheggiano i movimenti fotografici analizzati nel fotodinamismo. L’effetto è un cinema sperimentale, espressionista e astratto.

Nel 1918 Anton Giulio inaugura la Casa d’Arte Bragaglia a Roma, luogo di riferimento per circa venticinque anni. Qui organizza oltre 300 mostre, includendo figure come Giacomo Balla, De Chirico, Klimt, e artisti Dada. La Casa diviene pure sede del Bollettino delle attività (1921–1929), un giornale che documenta rivoluzioni visive e ideologiche dell’epoca.

Teatro Sperimentale, attività giornalistica e maturità artistica (1920–1936)

Negli anni venti Anton Giulio amplia le proprie azioni nel teatro: nel 1922 fonda il Teatro Sperimentale degli Indipendenti insieme a Carlo Ludovico e dirige spettacoli incentrati su avanguardie europee come Pirandello, Strindberg, Wedekind, Brecht, Unamuno e Maeterlinck. Nel 1937 sposterà la sede al Teatro delle Arti (attivo fino al 1943). Le regie teatrali sono caratterizzate da una ricerca scenotecnica avanzata e da una riflessione sulla maschera, sulla linea visiva e spazio teatrale, in dialogo con le sue sperimentazioni visive di fotografo e cineasta.

Parallelamente, Anton Giulio dà vita a numerose riviste: L’Artista (1911), Cronache di Attualità (1916), Index Rerum Virorumque Prohibitorum (1921–1924), offrendo riflessioni su fotografia, teatro, architettura e società futurista.

Dal punto di vista tecnico, anche in teatro il suo approccio visivo e scenografico risente dell’esperienza fotodinamica, con prove di proiezioni dinamiche, scenografie cinetiche, controluce e ombre teatrali in movimento.

Ultimi anni: riflessioni, libri e teatro lirico (1936–1960)

La seconda metà degli anni Trenta vede Bragaglia meno impegnato in produzioni visive e più dedito alla sperimentazione teorica e alla scrittura critica. Pubblica saggi come Maschera mobile, Del teatro teatrale (1927), Il segreto di Tabarrino (1933), in cui riflette sull’essenza dello spettacolo, dell’identità e della funzione della scena.

Dal 1953 assume la direzione della rivista Gala, ampliando la sua influenza culturale nel campo delle arti visive. L’ultima produzione teatrale lo vede sul podio come regista per l’opera Le maschere di Mascagni al Teatro dell’Opera di Roma (1960).

Muore a Roma il 15 luglio 1960, durante un periodo in cui la sua riflessione attraversa la modernità post-bellica. È sepolto nel cimitero del Verano. Il suo lascito viene recepito da studiosi come Lawrence S. Rainey (futuro curatore MoMA) e conservato nella memoria di avanguardia italiana, teatro visivo e fotografia dinamica.

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