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Carolyn Drake

Carolyn Drake è una fotografa statunitense nata nel 1971 a Los Angeles, California, e cresciuta in una famiglia che le ha trasmesso una forte curiosità per il mondo e per le arti visive. La sua formazione iniziale non è stata strettamente legata alla fotografia: dopo il diploma, si iscrisse alla Brown University, dove conseguì una laurea in Media Studies e Letteratura. Questo background teorico ha influenzato profondamente il suo approccio alla fotografia, che si distingue per una forte componente narrativa e concettuale.

Dopo gli studi universitari, Drake iniziò a lavorare nel settore del design e della comunicazione visiva a New York, collaborando con agenzie creative e sviluppando competenze nell’uso delle immagini come strumenti di comunicazione. Tuttavia, la sua inclinazione verso la fotografia documentaria la portò a lasciare il mondo corporate per intraprendere un percorso indipendente. Nel 2006, decise di trasferirsi in Asia Centrale, una scelta che segnò l’inizio della sua carriera come fotografa documentarista.

Durante il periodo trascorso in Uzbekistan, Kirghizistan e altre regioni dell’Asia Centrale, Drake iniziò a sviluppare progetti a lungo termine che esploravano le trasformazioni culturali e sociali in aree periferiche rispetto ai centri globali. Il suo primo grande progetto, “Two Rivers”, si concentrò sulle comunità che vivono lungo i fiumi Amu Darya e Syr Darya, analizzando le conseguenze ecologiche e sociali della gestione delle risorse idriche. Questo lavoro, pubblicato in forma di libro nel 2013, le valse un riconoscimento internazionale e consolidò la sua reputazione come autrice di progetti complessi e stratificati.

Nel corso degli anni, Carolyn Drake ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il Guggenheim Fellowship nel 2019, il World Press Photo Award, e il prestigioso Henri Cartier-Bresson Award nel 2021 per il progetto “Men Untitled”. È stata inoltre insignita di borse di studio da istituzioni come il Pulitzer Center e il Magnum Foundation, che hanno sostenuto la sua ricerca visiva.

Un momento cruciale nella sua carriera è stato l’ingresso in Magnum Photos: Drake è diventata membro nominato nel 2015, associate nel 2018 e membro effettivo nel 2019. Questo traguardo la colloca tra i fotografi più influenti del panorama contemporaneo, confermando la rilevanza del suo lavoro nel contesto internazionale.

Dal punto di vista geografico, la sua vita professionale è stata caratterizzata da una costante mobilità: dopo gli anni in Asia Centrale, ha vissuto in Turchia, Ucraina e successivamente negli Stati Uniti, mantenendo sempre una prospettiva transnazionale nei suoi progetti. Attualmente, Drake risiede negli Stati Uniti, dove continua a sviluppare lavori che interrogano le dinamiche di identità, memoria e rappresentazione.

Il percorso di Carolyn Drake è emblematico di una fotografia documentaria che si distacca dai canoni tradizionali del fotogiornalismo per abbracciare una dimensione più autoriale e sperimentale. La sua formazione teorica, unita all’esperienza sul campo, le ha permesso di costruire un linguaggio visivo che combina rigore documentario e libertà interpretativa, ponendo al centro la relazione tra fotografo e soggetto.

Tra le caratteristiche distintive della sua biografia emerge la capacità di instaurare rapporti di fiducia con le comunità ritratte, un elemento che le consente di realizzare immagini intime e complesse, lontane da ogni forma di esotismo o stereotipo. Questo approccio etico e partecipativo è uno dei tratti che rendono il suo lavoro particolarmente significativo nel panorama del fotogiornalismo contemporaneo.

Stile fotografico e approccio teorico

Il percorso autoriale di Carolyn Drake si colloca nel solco della fotografia documentaria che rifiuta l’idea di una presunta neutralità dello sguardo e, al contrario, dichiara apertamente la dimensione costruttiva dell’immagine. Fin dagli esordi, Drake ha impostato i propri progetti come ricerche a lungo termine, capaci di stratificare tempi, linguaggi e fonti visive; la durata e la prospettiva immersiva diventano così strumenti metodologici che le consentono di ampliare il campo della testimonianza, oltrepassando la mera cronaca. L’adesione a Magnum Photos non ha mutato questa impostazione, bensì l’ha resa più leggibile nel dibattito sul fotogiornalismo contemporaneo, in cui la fotografa si distingue per una sperimentazione linguistica che integra cucitura, collage, disegno, scrittura e immagini d’archivio entro sequenze fotografiche destinate sia al libro sia all’installazione.

Al centro dei progetti di Drake c’è l’intento di interrogare le narrazioni storiche dominanti mettendone in luce le omissioni, le ambiguità e i vuoti. Il suo lessico non aspira alla didascalia definitiva, ma a una polisemia controllata, ottenuta attraverso la relazione con i soggetti e l’uso di procedimenti che collassano la distanza fra autore e comunità rappresentata. L’assunto etico che sostiene questo metodo è la condivisione del processo: le persone ritratte diventano co‑autrici del risultato, contribuendo con gesti, segni e materiali che entrano a far parte dell’opera. Ciò emerge in modo esemplare in “Wild Pigeon”, dove l’incontro con la minoranza uigura in Xinjiang produce pagine cucite, fotografie annotate, interventi grafici che spezzano la linearità del racconto e ne evidenziano la frizione con i dispositivi di controllo dell’informazione. Il titolo stesso allude a una condizione di libertà vulnerabile, che il dispositivo editoriale – con i suoi strappi, piegature e sovrapposizioni – traduce in grammatica visiva, senza pretendere di ricomporre definitivamente i frammenti.

Analogo spostamento di paradigma si riscontra in “Internat”, progetto sviluppato in Ucraina in collaborazione con giovani donne recluse in un ex orfanotrofio sovietico. La co‑produzione di immagini e pitture decostruisce i ruoli tradizionali (fotografo/ritratto) e istituisce una zona intermedia in cui immaginazione e documento si alimentano reciprocamente. Qui la messa in scena non è un artificio illustrativo, ma una tecnica di emancipazione, capace di far emergere soggettività altrimenti invisibili. L’attenzione alla performatività del genere, che sarà poi approfondita nel libro “Knit Club”, si traduce in un uso calibrato di luce e spazio: interni domestici e micro‑rituali collettivi sono orchestrati come tableau in cui il dispositivo fotografico rende percepibile la politica del quotidiano. L’estetica del gesto (un filo, una trama, un ricamo) funziona così come metafora del montaggio: l’immagine viene tessuta insieme ai soggetti, e non semplicemente sottratta al mondo.

Se in “Carolyn Drake Two Rivers” – progetto cardine del periodo mediorientale e centroasiatico – la fotografa affronta la dimensione geopolitica del paesaggio, lo fa evitando l’enfasi descrittiva e privilegiando una cartografia affettiva: le fotografie si organizzano in costellazioni che accostano territori, oggetti, gesti e memorie; il design del libro (sequenze interrotte, immagini a cavallo di pagina, rimandi cromatici) non illustra, ma pensa il paesaggio come campo di forze in cui ecologia, potere e cultura si condizionano a vicenda. La coerenza cromatica – spesso imperniata su terre desaturate, azzurri polverosi e verdi spenti – sostiene questa idea di tempo lungo, di persistenza dell’ambiente sul sociale e viceversa. La scelta di formati e supporti non è mai neutra: carte porose, neri profondi, margini talvolta irregolari guidano una lettura sensoriale che rimette in gioco la fisicità dell’immagine, in opposizione alla fruizione smaterializzata del flusso digitale.

Una componente rilevante dell’approccio teorico di Drake è la critica del paradigma informativo dominante nel reportage classico. Piuttosto che offrire prove che inchiodano il reale a una didascalia, l’autrice pratica una retorica del dubbio: impaginazioni non lineari, variazioni di scala, interferenze testuali e inserti grafici destabilizzano il lettore/spettatore, chiedendogli una partecipazione attiva. Questa epistemologia dell’immagine ha precise conseguenze etiche: sposta il baricentro dal diritto di vedere (del fotografo) al diritto di collaborare (del soggetto), e interroga i rapporti di potere impliciti in ogni gesto di rappresentazione. È in questo quadro che si comprende la pluralità dei libri fotografici pubblicati dall’autrice, non come meri contenitori, ma come dispositivi di ricerca: ognuno di essi definisce un contratto di lettura differente, in cui montaggio, ritmo, silenzio, ridondanza e vuoto diventano categorie operative.

Sul piano tecnico, Drake adotta un linguaggio versatile. Alterna medio e grandangolare con scelte di messa a fuoco selettiva per isolare dettagli simbolicamente carichi; lavora con profondità di campo contenute per convertire i contesti in fondali porosi su cui far emergere segni minimi: un filo, una cicatrice del terreno, una mano che sfiora una superficie. La luce è spesso morbida e laterale, con predilezione per situazioni pre‑crepuscolari ed interne schermate, dove il colore si addensa senza saturarsi e le ombre non sono barriere ma zone d’attenuazione. Nelle installazioni museali, l’autrice amplia il vocabolario con stampe di dimensioni variabili, elementi tessili e oggetti, generando ambienti immersivi che riflettono la logica di “libro espanso”: ogni parete funziona come pagina e ogni relazione spaziale diventa grammatica.

La questione dell’archivio attraversa trasversalmente il suo lavoro. Invece di trattare l’archivio come fonte autoritativa, Drake lo disarticola: fotografie trovate, ritagli, documenti e testimonianze sono sottoposti a operazioni di riscrittura – materiali cuciti, pagine riprodotte e sovrascritte, palinsesti che esplicitano la mediazione. Questo montaggio dialettico non mira a confutare la storia, ma a mostrarne l’instabilità. La storicità diventa una materia plastica, rielaborata con il contributo dei soggetti rappresentati e riconsegnata a chi guarda come ipotesi, non come verdetto. È una postura che allinea l’autrice con una corrente del documentario d’autore attenta a relazione, contesto e processualità, lontana tanto dall’illustrazione didattica quanto dalla pura fiction.

Nei lavori più recenti – dagli esperimenti con sculture fotografiche domestiche a “Knit Club” e a “Men Untitled” – la fotografa applica questa logica al campo della prossimità. L’osservazione si fa auto‑riflessiva: comunità locali, rituali familiari, rappresentazioni della mascolinità e coreografie del quotidiano vengono interrogate con la stessa attenzione analitica riservata in passato ai grandi temi geopolitici. L’uso di oggetti quotidiani – tessuti, corde, legni, utensili – introduce una materialità tattile che ancora il visivo al corporeo; la fotografia non è più solo indice, ma traccia lavorata, un manufatto che porta con sé il tempo dell’incontro. Così, quando Drake riflette sui modelli patriarcali in “Men Untitled”, affida alla combinazione di ritratto, natura morta e studio anatomico la costruzione di un discorso che, evitando slogan, scompone i segni della mascolinità mitica e ne mostra le fessure.

La sequenza rimane l’unità critica privilegiata. Che si tratti di Carolyn Drake Wild Pigeon o di Carolyn Drake Two Rivers, la pagina e la parete sono pensate come spazi di contrappunto: immagini “fredde” e “calde”, campi lunghi e dettagli, figure e oggetti si inseguono in figure retoriche visive (anafore, ellissi, chiasmi) che trasformano la lettura in esperienza. Graficamente, l’autrice utilizza accostamenti cromatici e interruzioni per segnalare passaggi di regime (dal documento alla finzione, dalla testimonianza al mito), mentre ripetizioni calibrate stabiliscono motivi tematici: acqua, tessuti, superfici specchianti, ombre tattili, recinti. In questa poetica del montaggio, la verità documentaria non è espunta, ma resa porosa, permeabile ai contributi dei soggetti e alle trasformazioni del contesto.

Da un punto di vista storiografico, la posizione di Drake è rilevante perché propone una terza via tra ortodossia fotogiornalistica e finzione pura: una pratica relazionale che redistribuisce l’autorialità, dichiara i propri strumenti e assume l’opera come processo condiviso. La legittimazione istituzionale – dall’ingresso in Magnum Photos ai riconoscimenti internazionali – non contraddice ma conferma la vitalità critica di questa impostazione, che si misura tanto con crisi ambientali e politiche quanto con micro‑politiche del quotidiano, sempre orientata a scardinare categorie binarie (vero/falso, autore/soggetto, documento/finzione). La forza della sua ricerca risiede proprio in questa etica della complessità: il fotolibro e l’installazione diventano forme di pensiero che danno conto della storia come tessitura – fatta di fili scoperti, nodi irrisolti e trame che, pur non chiudendosi, rendono leggibile ciò che altrimenti resterebbe indicibile.

Le Opere principali

La produzione di Carolyn Drake è organizzata in progetti a lungo termine che, pur nascendo in contesti geografici distinti, condividono un medesimo impianto metodologico: ricerca sul campo, collaborazione con le comunità e costruzione editoriale e/o installativa come esito critico del processo. In ciascuna opera, il fotolibro non è semplice contenitore, ma dispositivo di lettura che orchestra ritmo, silenzi, ritorni tematici e interferenze materiche (cuciture, collage, testi, disegni) per far emergere narrazioni plurali. La ricorrenza di motivi iconici – l’acqua e i suoi derivati, i tessuti e le trame, le superfici ferite del territorio, i gesti minimi – consente di leggere le opere in continuità e, al contempo, di apprezzarne gli scarti di metodo che definiscono la maturazione dell’autrice.

Two Rivers (2013) rappresenta, sotto questo profilo, il banco di prova iniziale e ancora oggi uno dei momenti più influenti del suo lessico visivo. Concepite nel corso di quindici viaggi nell’area che si estende fra Amu Darya e Syr Darya – un paesaggio segnato dalla storia sovietica dell’irrigazione, dalla crisi del Mare d’Aral e da una fragilità socio‑economica che si deposita sui luoghi come sabbia – le immagini compongono una cartografia affettiva capace di connettere ecologia, memoria politica e pratiche quotidiane. La struttura del libro – con impaginazioni interrotte, immagini che “sfondano” la piega, cromie volutamente smorzate – mima l’entropia idrica che il progetto interroga. L’opera ha avuto una rilevante circolazione critica, sostenuta dalla Guggenheim Fellowship e da un interesse curatoriale che l’ha accolta in collezioni e mostre, ribadendo come il documentario d’autore possa farsi dispositivo epistemico capace di ripensare la relazione fra politica delle risorse e identità dei luoghi. In Two Rivers è già avvertibile il metodo Drake: residenza prolungata, osservazione dei dettagli, montaggio che rifiuta la linearità. A livello tecnico, l’uso di focali medio‑grandangolari, profondità di campo contenute e luce laterale diffusa produce un paesaggio poroso dove l’occhio non “legge” soltanto ma tasta, sfiora, ricorda.

Con Wild Pigeon (2014), la strategia si fa più apertamente collaborativa. Il lavoro nasce nel Xinjiang, in dialogo con membri della minoranza uigura e con i loro segni grafici: scritture, disegni, ricami entrano nel libro come interventi diretti sui positivi, strappi e cuciture che lacerano e ricompongono la fotografia, esponendo la violenza dei dispositivi di controllo e la resistenza quotidiana che si dà nei gesti minimi. Il dispositivo editoriale – pagine che si aprono come lenzuola, inserti semi‑trasparenti, ripetizioni variate – è parte dell’argomentazione: l’immagine documentaria viene esplicitamente manipolata, e proprio attraverso questa confessione di artificio rivendica una più alta verità relazionale. La sestina di SFMOMA di opere tratte dal progetto e la mostra monografica del 2018 hanno sancito la centralità di Wild Pigeon nel dibattito sulla fotografia partecipativa e sulla crisi del paradigma testimoniale; il riconoscimento in ambito di libro fotografico ha, per parte sua, messo in luce la qualità della scrittura editoriale con cui Drake orchestra tempo e materia per sostenere un racconto spezzato ma coerente (fonti: SFMOMA; Magnum Photos; Wikipedia; Bio ufficiale).

Internat (2017) segna un cambio di scala: dal paesaggio geopolitico alla micropolitica di un’istituzione, un ex orfanotrofio sovietico in Ucraina. Qui la fotografa attiva un laboratorio collettivo con giovani donne che vivono in condizione di reclusione: fotografie e pitture co‑prodotte, azioni performative e still life costruiti insieme costituiscono un corpus che smonta il binarismo tra autore e soggetto. L’estetica del gesto – piegare, strappare, dipingere, ricamare – risalta come linguaggio emancipativo: il fare condiviso sottrae i corpi alla sola logica disciplinare dell’istituzione e li restituisce, per frammenti, a una immaginazione politica. L’esito installativo e editoriale conferma la volontà di allineare forma e contenuto: cornici leggere, formati misti, pannellature morbide accentuano la dimensione provvisoria, aperta del racconto. A livello storiografico, Internat si inserisce nella riflessione internazionale sul documentario espanso, dove dispositivo, relazione e mostra sono parti di un unico atto di conoscenza condivisa (fonti: Bio ufficiale; LensCulture; Officine Fotografiche Roma; Magnum Photos).

Con Knit Club (2020), la ricerca si sposta negli Stati Uniti – un ritorno “a casa” che non attenua, anzi intensifica, la tensione analitica. In un piccolo centro del Mississippi, Drake incontra un gruppo di donne che si raccoglie nel segno pratico e simbolico del cucito. La domesticità non è luogo di riduzione del politico, ma campo tattico in cui spazio, corpo e oggetti diventano figure per raccontare potere, protezione, alleanze, segretezza. Il libro, pubblicato da TBW Books, sviluppa un montaggio ritmico di ritratti, nature morte e ambienti che evocano una drammaturgia sospesa; la carta, la gamma tonale studiata e la densità dei neri costruiscono un clima in cui l’ambiguità non è indeterminatezza, ma strategia critica. Il progetto ha ottenuto una shortlist al Paris Photo–Aperture Book of the Year e ha circolato fra gallerie e istituzioni (McEvoy Foundation, ICP, Yancey Richardson Gallery), confermando l’attualità di un femminile pensato oltre i cliché (fonti: HCB Foundation; LensCulture; Yancey Richardson).

Infine, Men Untitled (2023–2024), sostenuto dall’Henri Cartier‑Bresson Award 2021, porta a maturazione la riflessione su genere e rappresentazione: ritratti, studi di oggetti, nudi e interventi scultorei compongono una topologia della mascolinità in cui empatia e violenza coesistono come strati – non come categorie morali, ma come regimi di segni che la fotografia può rendere leggibili senza stabilire gerarchie definitive. La mostra alla Fondation HCB (Parigi, 2023–24) ha messo in scena questa dialettica attraverso sale tematiche e scale di stampa variabili, ribadendo il ruolo dell’installazione come scrittura spaziale del pensiero. Se Knit Club aveva interrogato la politica del legame in una comunità femminile “protetta”, Men Untitled rivoluziona il punto di vista, spostando lo sguardo verso figure maschili marginali e modelli di virilità che scricchiolano sotto la pressione del mito nazionale. Il risultato è un atlante non concluso (da cui il titolo “Untitled”), che scompone e ricompone gli indizi della mascolinità egemone nel tentativo di aprirne le possibilità interpretative (fonti: Fondation HCB; Magnum Photos).

Sebbene i cinque nuclei appena richiamati costituiscano l’ossatura dell’opera, è importante ricordare che la pratica di Drake include installazioni, sculture fotografiche e progetti site‑specific sviluppati negli anni – dalle sperimentazioni domestiche durante la pandemia, confluite in mostre collettive come Close to Home: Creativity in Crisis (SFMOMA, 2021), a lavori di ricerca comunitaria sul territorio statunitense e commissioni che hanno messo alla prova la trasferibilità del suo metodo in contesti istituzionali e editoriali diversi. In tutti i casi, la fotografia resta asse e catalizzatore: indice del reale e campo di manipolazione, traccia e invenzione; un medium poroso che, attraversando montaggio, materia e relazione, permette di pensare storicamente con e dentro le immagini (fonti: SFMOMA; Light Work; Wikipedia).

Al di là delle differenze, un tratto comune delle opere principali è la loro capacità di generare bibliografie: ogni libro richiama testi, archivi, lessici che sono parte integrante dell’argomentazione. Paratesti come titoli, epigrafi, schede tecniche vengono calibrati per orientare senza chiudere; note e apparati (dove presenti) non forniscono soltanto dati, ma indicano la rete di relazioni – persone, istituzioni, luoghi – che ha reso possibile il progetto. Questa trasparenza processuale è uno dei segni etici del lavoro: non tanto “mostrare come è stata fatta la foto”, quanto rendere leggibile il patto che ha consentito all’immagine di esistere.

In prospettiva storico‑critica, le opere principali di Carolyn Drake contribuiscono a ridefinire lo statuto del fotolibro contemporaneo come forma‑saggio: ogni progetto non si limita a “raccogliere” immagini, ma costruisce un dispositivo che produce conoscenza situata. Two Rivers propone una geopolitica sensibile; Wild Pigeon radicalizza la collaborazione come scrittura condivisa; Internat espande la co‑autorialità in performatività; Knit Club traduce il domestico in metafora politica; Men Untitled affronta la mascolinità come campo semiotico instabile. In questo arco, la fotografa consolida un’idea di fotografia documentaria come pratica relazionale che redistribuisce l’autorialità e apre il senso.

Elenco sintetico delle opere chiave

  • Two Rivers (2013, self‑published): ricerca lungo Amu Darya e Syr Darya su ecologia, potere, cultura; sostegno Guggenheim Fellowship; ampia circolazione critica.
  • Wild Pigeon (2014, self‑published): collaborazione con la comunità uigura in Xinjiang; collage, cuciture, testi; solo show SFMOMA e acquisizioni di serie.
  • Internat (2017, self‑published): co‑produzione di fotografie e pitture con giovani donne in un ex orfanotrofio in Ucraina; installazioni e mostre in Europa.
  • Knit Club (2020, TBW Books): comunità femminile in Mississippi; libro shortlisted al Paris Photo–Aperture Book of the Year; circuiti espositivi in USA.
  • Men Untitled (2023, mostra e pubblicazione): indagine sulla mascolinità; HCB Award 2021; esposizione alla Fondation HCB (2023–24).

 Fonti

Curiosità Fotografiche

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