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Newsha Tavakolian

Newsha Tavakolian nasce nel 1981 a Teheran, Iran, in un contesto sociale e politico segnato da profonde trasformazioni successive alla Rivoluzione islamica del 1979. Fin dall’adolescenza manifesta un interesse per la fotografia, che coltiva in modo autodidatta, frequentando a 16 anni un corso intensivo di sei mesi. Questo momento segna l’inizio di una carriera precoce: subito dopo il corso, Tavakolian entra nel mondo della stampa iraniana, collaborando con il quotidiano femminile Zan, per poi lavorare con altri nove giornali riformisti, tutti successivamente chiusi dalle autorità.

Il suo primo incarico di rilievo è la copertura della protesta studentesca del luglio 1999, evento cruciale nella storia contemporanea iraniana. Armata di una Minolta con obiettivo da 50 mm, realizza immagini che vengono pubblicate su diverse testate nazionali, consolidando la sua reputazione come giovane fotoreporter. Negli anni successivi, Tavakolian amplia il proprio raggio d’azione, documentando conflitti regionali, disastri naturali e storie sociali in paesi come Iraq, Libano, Siria, Arabia Saudita, Pakistan e Yemen.

Il 2001 rappresenta una svolta internazionale: durante il festival Visa pour l’Image di Perpignan, incontra JP Pappis, fondatore di Polaris Images, che le apre le porte del fotogiornalismo globale. Da quel momento, Tavakolian inizia a collaborare con testate prestigiose quali Time, The New York Times, Le Figaro, National Geographic, Newsweek, Der Spiegel e Le Monde, consolidando la sua posizione nel panorama internazionale.

Il 2009 segna un punto di frattura: dopo aver documentato le elezioni presidenziali iraniane e le proteste conseguenti, subisce restrizioni che la costringono a sospendere temporaneamente il lavoro di fotoreporter. Questo periodo diventa occasione per una riconfigurazione del linguaggio fotografico: Tavakolian si orienta verso progetti autoriali e concettuali, mantenendo la dimensione documentaria ma contaminandola con elementi artistici e narrativi.

Nel 2011, co-fonda il collettivo Rawiya, formato da fotografe mediorientali impegnate a raccontare la regione da una prospettiva femminile. Questo gesto sottolinea la sua attenzione alle questioni di genere e alla rappresentazione critica delle donne nello spazio pubblico e privato.

Tra i riconoscimenti più importanti della sua carriera figurano:

  • Carmignac Gestion Photojournalism Award (2014), per il progetto Blank Pages of an Iranian Photo Album, dedicato alla memoria collettiva di una generazione cresciuta dopo la rivoluzione.
  • Prince Claus Award (2015), come principale vincitrice, per il contributo alla cultura visiva e alla libertà di espressione.
  • Partecipazione alla Joop Swart Masterclass di World Press Photo (2006 e 2017).
  • Finalista all’Inge Morath Award (2007).
  • Deloitte Photo Grant (2023), con il progetto And They Laughed At Me, presentato al MUDEC di Milano e successivamente alla Biennale della Fotografia Femminile di Mantova.

Dal 2015 Tavakolian è membro nominato di Magnum Photos, diventando membro effettivo nel 2019. Le sue opere sono entrate nelle collezioni di istituzioni come il British Museum, il Victoria & Albert Museum, il Los Angeles County Museum of Art (LACMA) e il Museum of Fine Arts di Boston, confermando la rilevanza museale del suo lavoro.

Oggi, Tavakolian vive e lavora a Teheran, continuando a sviluppare progetti che interrogano la condizione femminile, la memoria storica e le contraddizioni sociali dell’Iran contemporaneo, con una prospettiva che unisce rigore documentario e sperimentazione artistica.

Stile fotografico e approccio teorico

Il linguaggio visivo di Newsha Tavakolian si colloca in una zona di confine tra fotogiornalismo classico e ricerca autoriale, con una tensione costante verso la sperimentazione narrativa. La sua formazione come fotoreporter, maturata negli anni delle grandi crisi mediorientali, ha fornito una base di rigore documentario, ma la progressiva consapevolezza dei limiti del reportage tradizionale l’ha spinta a elaborare un approccio ibrido, in cui la fotografia diventa dispositivo critico per interrogare identità, memoria e rappresentazione.

Uno dei tratti distintivi del suo stile è la centralità del corpo femminile come territorio politico e simbolico. Nei progetti più noti, Tavakolian affronta la condizione delle donne iraniane attraverso ritratti costruiti, mise en scène e sequenze visive che oscillano tra realismo e allegoria. L’opera “Listen” (2011) è paradigmatica: sei cantanti iraniane, impossibilitate a esibirsi pubblicamente per le restrizioni governative, vengono ritratte in pose che evocano la performatività negata. Le immagini, accompagnate da copertine di album immaginari, non si limitano a denunciare la censura, ma mettono in scena il desiderio e la assenza come categorie estetiche. Il vuoto sonoro diventa pieno visivo, e la fotografia assume la funzione di architettura simbolica per restituire ciò che la legge sottrae.

Questa strategia di compensazione narrativa si ritrova in “Blank Pages of an Iranian Photo Album” (2014), progetto che le vale il Carmignac Gestion Photojournalism Award. Qui Tavakolian costruisce un album immaginario di una generazione cresciuta dopo la rivoluzione islamica, alternando ritratti, ambienti domestici, oggetti quotidiani e pagine bianche. L’assenza di immagini in alcune sezioni non è un mero espediente grafico, ma un atto politico: il bianco diventa metafora della censura, della memoria interdetta, del non detto che struttura la vita privata sotto il regime. La sequenza è orchestrata con rigore editoriale: cromie neutre, luce diffusa, inquadrature stabili e profondità di campo controllata costruiscono un tempo sospeso, in cui la quotidianità si rivela come campo di tensione tra intimità e sorveglianza.

Sul piano tecnico, Tavakolian predilige un registro sobrio, lontano dall’enfasi drammatica tipica del fotogiornalismo di crisi. Le sue immagini si caratterizzano per composizioni equilibrate, palette cromatiche desaturate e un uso della luce naturale che privilegia la morbidezza e la gradazione tonale. Questa scelta non è neutra: la assenza di contrasti violenti riflette la volontà di evitare la spettacolarizzazione del dolore, sostituendo alla retorica dell’impatto una poetica della persistenza. Nei ritratti, la posizione del soggetto è spesso centrale, ma mai rigidamente frontale: lievi torsioni, sguardi decentrati, gesti minimi introducono una ambiguità che destabilizza la lettura univoca. La profondità di campo è gestita per isolare il volto o il corpo, lasciando sullo sfondo tracce ambientali che contestualizzano senza saturare.

Un elemento chiave del suo approccio è la dialettica tra documento e finzione. Tavakolian non rinuncia alla veridicità referenziale della fotografia, ma la sottopone a operazioni di riscrittura: montaggi, accostamenti concettuali, interventi grafici e testi che ampliano il campo semantico. In questo senso, il fotolibro diventa il suo principale laboratorio di sperimentazione: ogni progetto è pensato come dispositivo narrativo che articola immagini, silenzi, vuoti e paratesti per costruire una struttura aperta, capace di accogliere la complessità del reale senza ridurla a cronaca. La pagina bianca, il ritratto interrotto, la ripetizione variata sono figure retoriche che sostituiscono la linearità informativa con una logica poetica, in cui il senso si produce per differenza e risonanza.

Dal punto di vista etico, il lavoro di Tavakolian si fonda su una relazione di prossimità con i soggetti. Lontana da ogni forma di esotismo, la fotografa costruisce rapporti di fiducia che le consentono di accedere a spazi privati e di rappresentare esperienze marginali senza cadere nella retorica della vittimizzazione. Questa postura si traduce in una scrittura visiva rispettosa, che evita la violenza dello sguardo e privilegia la co‑autorialità: nei progetti più recenti, le persone ritratte partecipano alla definizione delle immagini, scegliendo abiti, pose, oggetti che veicolano la loro autonarrazione. Tale pratica si inserisce nel dibattito contemporaneo sul documentario partecipativo, confermando la rilevanza teorica del suo lavoro.

Un altro asse di riflessione è la temporalità. Se il fotogiornalismo tradizionale è orientato all’evento, Tavakolian lavora sul tempo lungo: le sue immagini non cercano la notizia, ma la persistenza di condizioni storiche e sociali. Questa scelta implica una estetica della lentezza, visibile nella serialità dei ritratti, nella ripetizione di motivi (finestre, tende, oggetti domestici) e nella assenza di climax narrativi. Il risultato è una scrittura visiva che pensa la storia come durata, non come sequenza di shock.

Nei lavori più recenti, come “And They Laughed At Me” (2023), Tavakolian approfondisce la dimensione performativa: il corpo diventa medium di resistenza, e la fotografia si apre a installazioni, video e testi che ampliano il campo espressivo. Questa espansione mediale non è mero virtuosismo, ma risposta alla necessità di tradurre la complessità di contesti in cui la censura e la sorveglianza impongono strategie oblique di comunicazione. La ibridazione dei linguaggi – fotografia, scrittura, suono assente – diventa così politica della forma, capace di aggirare il controllo e di restituire voce a chi ne è privato.

In sintesi critica, lo stile fotografico di Newsha Tavakolian si definisce attraverso cinque vettori:

  • Sobrietà formale (luce naturale, cromie neutre, composizioni equilibrate).
  • Ambiguità semantica (documento contaminato da finzione, uso di vuoti e silenzi).
  • Centralità del corpo femminile come campo di tensione politica.
  • Etica relazionale (co‑autorialità, prossimità, rispetto).
  • Espansione mediale (fotolibro come dispositivo, installazione come scrittura spaziale).

Questi elementi collocano Tavakolian tra le figure più influenti del fotogiornalismo contemporaneo, capace di ridefinire il paradigma documentario in chiave critica e poetica, con una attenzione costante alla dimensione sociale e politica della rappresentazione.

Le Opere principali

La produzione di Newsha Tavakolian si articola in una serie di progetti che, pur nascendo da urgenze documentarie, si configurano come dispositivi narrativi complessi, capaci di coniugare rigore informativo e sperimentazione poetica. Ogni opera è pensata come costruzione editoriale e, talvolta, installativa, in cui la fotografia dialoga con testi, silenzi, vuoti e paratesti per restituire la densità storica e affettiva dei contesti indagati.

Listen (2011)

Questo progetto segna una svolta nella carriera di Tavakolian, sancendo il passaggio dal fotogiornalismo puro alla ricerca autoriale. Listen nasce dalla condizione di censura musicale in Iran: le cantanti donne non possono esibirsi pubblicamente né pubblicare album. Tavakolian risponde con una messa in scena fotografica che ritrae sei cantanti in pose evocative, accompagnate da copertine di album immaginari. L’assenza di suono diventa presenza visiva, e la fotografia assume la funzione di architettura simbolica per restituire il desiderio negato. Il progetto è stato esposto in numerose istituzioni internazionali e ha contribuito a ridefinire il ruolo della fotografia come atto politico e poetico.

Blank Pages of an Iranian Photo Album (2014)

Premiato con il Carmignac Gestion Photojournalism Award, questo lavoro affronta la memoria generazionale di chi è cresciuto dopo la rivoluzione islamica. Tavakolian costruisce un album immaginario fatto di ritratti, interni domestici, oggetti quotidiani e pagine bianche. Il bianco non è semplice spazio grafico, ma metafora della censura e del non detto che struttura la vita privata sotto il regime. La sequenza editoriale alterna presenza e assenza, generando una retorica del vuoto che interroga la possibilità stessa di raccontare. Il libro è stato accolto con grande interesse dalla critica, consolidando la reputazione di Tavakolian come autrice capace di trasformare il documento in forma-saggio.

Iraq e Medio Oriente: reportage di guerra (2003–2009)

Prima della svolta autoriale, Tavakolian ha realizzato un corpus significativo di fotogiornalismo di crisi, documentando la guerra in Iraq, il conflitto in Libano, le elezioni iraniane del 2009 e le proteste conseguenti. Queste immagini, pubblicate su testate internazionali, testimoniano la capacità della fotografa di operare in contesti ad alta tensione, mantenendo una scrittura visiva sobria, lontana dalla retorica dello shock. Pur non costituendo un progetto unitario, questo periodo è fondamentale per comprendere la genesi del suo linguaggio, che si emancipa dal paradigma dell’evento per orientarsi verso la durata e la complessità.

And They Laughed At Me (2023)

Presentato al MUDEC di Milano e alla Biennale della Fotografia Femminile di Mantova, questo lavoro esplora la dimensione performativa del corpo femminile come medium di resistenza. Tavakolian utilizza fotografia, video e installazione per costruire un dispositivo polifonico che affronta il tema della derisione sociale e della violenza simbolica. L’opera conferma la tendenza dell’autrice verso una espansione mediale, in cui la fotografia non è più solo indice del reale, ma materia plastica che si intreccia con altri linguaggi per generare spazi di senso.

Progetti collettivi e Rawiya

Nel 2011, Tavakolian co-fonda Rawiya, collettivo di fotografe mediorientali impegnate a raccontare la regione da una prospettiva femminile. Pur non essendo un’opera singola, questa esperienza è cruciale per comprendere la politica dello sguardo che informa il suo lavoro: la fotografia come atto di restituzione, capace di redistribuire l’autorialità e di contrastare le narrazioni egemoniche.

Elenco sintetico delle opere chiave

  • Listen (2011): ritratti di cantanti iraniane censurate; copertine di album immaginari; denuncia poetica della censura.
  • Blank Pages of an Iranian Photo Album (2014): album immaginario di una generazione post-rivoluzione; pagine bianche come metafora del silenzio imposto.
  • Reportage di guerra (2003–2009): Iraq, Libano, Iran; fotogiornalismo sobrio e analitico.
  • And They Laughed At Me (2023): installazione multimediale; riflessione sulla violenza simbolica e la performatività del corpo.
  • Rawiya Collective (dal 2011): piattaforma di narrazione femminile mediorientale; pratica collaborativa e politica dello sguardo.

Fonti 

Curiosità Fotografiche

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