Masahisa Fukase (深瀬 昌久) nacque il 25 febbraio 1934 a Bifuka, nella regione di Hokkaido, Giappone, e morì il 9 giugno 2012 a Tokyo, dopo vent’anni di coma causato da una caduta nel 1992. È considerato uno dei fotografi più radicali e sperimentali del Giappone postbellico, noto soprattutto per il fotolibro Karasu (Ravens) del 1986, definito dalla critica internazionale come uno dei più importanti della storia della fotografia.
Formazione, approccio tecnico e prime sperimentazioni (1934–1970)
Masahisa Fukase crebbe in un contesto fotografico: la sua famiglia gestiva uno studio fotografico professionale a Bifuka, e fin da bambino fu coinvolto nelle attività di stampa e ritocco. Questo imprinting tecnico, inizialmente vissuto come imposizione, gli fornì una base solida: conoscenza dei processi di sviluppo, uso di ottiche standard per ritratti, gestione della luce continua in ambienti chiusi e controllo delle densità tonali per stampe in bianco e nero. Dopo il diploma, nel 1952 si trasferì a Tokyo per studiare al Dipartimento di Fotografia della Nihon University, dove si laureò nel 1956. Qui assimilò le pratiche della fotografia commerciale e pubblicitaria, lavorando con formati medio-grande e pellicole ad alta definizione, prima di approdare alla ricerca artistica.
Negli anni Sessanta, Fukase iniziò a sperimentare con temi disturbanti e tecniche contrastate. La serie Kill the Pig (1961), ambientata nel mattatoio di Shibaura, alternava immagini crude di macellazione a nudi performativi, con un uso sapiente di tempi rapidi per congelare il gesto e profondità di campo ridotta per isolare dettagli anatomici. L’illuminazione era spesso mista: luce naturale filtrata e flash diretto, con pellicole in bianco e nero spinte in sviluppo per ottenere grana pronunciata e contrasto drammatico. Questo approccio anticipa la cifra stilistica di Fukase: fotografia come atto autobiografico, dove la tecnica diventa strumento di introspezione.
Nel decennio successivo, la sua produzione si intrecciò con la vita privata. La moglie Yōko Wanibe, sposata nel 1964, divenne il fulcro di serie come Yūgi (Homo Ludence, 1971) e Yōko (1978). In queste opere, Fukase impiegò telecamere 35 mm per scatti rapidi e medio formato per ritratti più costruiti, sfruttando la plasticità tonale del negativo 6×6. Le immagini di Yōko, spesso colte da un punto di vista fisso (celebre la serie From Window, riprese quotidiane dalla finestra di casa), rivelano un uso rigoroso della sequenza: variazioni di posa, abiti e luce naturale orchestrate come un diario visivo. La stampa prediligeva la gelatina ai sali d’argento su carte baritate, con viraggi al selenio per stabilizzare i neri profondi.
Sul piano tecnico, Fukase si muoveva tra ottiche standard (50 mm) e moderati grandangoli (35 mm) per ambienti urbani, mentre per i ritratti familiari ricorreva a teleobiettivi corti (85–105 mm), capaci di comprimere i piani senza sacrificare la naturalezza. La sua attenzione alla materia fotografica si traduceva in controlli accurati di gamma tonale: esposizioni calibrate per preservare le alte luci, sviluppo compensatore per mantenere dettaglio nelle ombre, e stampe con curve dolci per evitare chiusure. Già in questa fase, la fotografia per Fukase non era mai “istantanea”: ogni immagine era pensata come parte di un corpus narrativo, destinato a diventare libro.
Karasu (Ravens) e la maturità espressiva: tecnica e poetica (1975–1986)
Il ciclo Karasu (Ravens), realizzato tra il 1975 e il 1986, rappresenta il vertice della ricerca di Fukase. Nato dopo la separazione da Yōko, il progetto si sviluppò lungo viaggi in treno verso Hokkaido, dove il fotografo iniziò a riprendere stormi di corvi come metafora visiva della solitudine. Dal punto di vista tecnico, la serie è un laboratorio di esposizione estrema: soggetti neri su sfondi lattiginosi, neve e cieli plumbei richiedevano compensazioni negative per evitare la perdita di dettaglio nelle sagome. Fukase utilizzò pellicole ad alta sensibilità (ISO 400 e oltre), spesso spinte in sviluppo per ottenere grana espressiva, e tempi rapidi (1/250–1/500) per congelare il volo, alternati a mosso intenzionale per evocare dinamismo.
Il fotolibro Karasu, pubblicato nel 1986 da Sokyu-sha, è un capolavoro anche sul piano editoriale. Formato 25,7 × 25,7 cm, 132 pagine, rilegatura in tela nera con impressione a secco di un corvo, slipcase in cartone con etichetta tipografica. La stampa è in tritone su carta di alta grammatura, con neri profondi e mezzitoni vellutati, ottenuti grazie a retini finissimi e inchiostri calibrati per restituire la densità atmosferica delle immagini. La sequenza alterna pagine singole e doppie, orchestrando un ritmo che simula il volo: aperture ampie per i paesaggi costieri di Hokkaido, strette serrate per i dettagli di piume e carcasse. L’uso del layout minimale, con testi ridotti all’essenziale, accentua la forza visiva.
Dal punto di vista stilistico, Ravens è stato letto come allegoria del Giappone postbellico e come autoritratto psicologico. La grana pronunciata, il mosso controllato, le composizioni oblique e le campiture nere costruiscono un linguaggio che fonde documento e visione interiore. Fukase dichiarò di aver “diventato un corvo”, segnalando la fusione tra soggetto e autore. Questa identificazione si riflette nella scelta di sequenze iterative, dove la ripetizione ossessiva diventa struttura narrativa.
Il successo di Karasu fu immediato: il libro si esaurì in poche settimane e, nel 2010, il British Journal of Photography lo ha eletto miglior fotolibro pubblicato tra il 1986 e il 2009. Le ristampe (MACK, 2017) hanno mantenuto il progetto originale, aggiungendo saggi critici e materiali d’archivio. Dal punto di vista tecnico-editoriale, Ravens è oggi considerato un caso di scuola per la resa del nero profondo e per la capacità di tradurre una poetica in oggetto libro.
Opere principali e sperimentazioni (1971–1991)
Oltre a Karasu, l’opera di Fukase comprende una serie di fotolibri che esplorano il rapporto tra vita privata e linguaggio fotografico. Yūgi (Homo Ludence), pubblicato nel 1971, raccoglie immagini realizzate nell’arco di dieci anni: sezioni tematiche che alternano scene domestiche, ritratti di Yōko, atmosfere urbane e incursioni nel mondo underground di Shinjuku. La struttura del libro è complessa: sei capitoli, ciascuno con un registro tonale distinto, ma unificati da un impianto grafico sobrio e da stampe in gelatina d’argento di grande qualità.
Nel 1978, con Yōko, Fukase radicalizza la sua indagine sull’intimità: il libro è un diario visivo della relazione, costruito con immagini che oscillano tra ritratto frontale, inquadrature oblique e dettagli corporei. La tecnica privilegia il medio formato per i ritratti e il 35 mm per le scene urbane, con un uso sapiente della luce naturale e del flash di riempimento. La stampa, curata da Asahi Sonorama, mantiene la gamma tonale ampia, con neri compatti e bianchi puliti.
Negli anni Ottanta, Fukase sperimenta con soggetti animali e autoritratti performativi. La serie Sasuke (dedicata ai suoi gatti) è un laboratorio di composizione dinamica: scatti ravvicinati, uso di grandangoli spinti, tempi rapidi per congelare il movimento, e stampe che esaltano la texture del pelo. In parallelo, progetti come Bukubuku e Private Scenes introducono elementi di pittura e collage, anticipando pratiche ibride tra fotografia e arti visive.
Nel 1991, con Kazoku (Family) e Chichi no Kioku (Memories of Father), Fukase torna alle origini: il ritratto familiare. Ma lo fa sovvertendo il codice tradizionale: pose innaturali, nudità parziali, sguardi distolti. Dal punto di vista tecnico, queste immagini sfruttano il grande formato (6×8) per ottenere una definizione estrema, con profondità di campo ridotta e nitidezza chirurgica. La stampa è rigorosa, con attenzione alla resa dei grigi medi, che diventano veicolo di ambiguità semantica.
Riconoscimenti e mostre
Fukase partecipò alla storica mostra New Japanese Photography al MoMA nel 1974, accanto a autori come Tomatsu e Hosoe. Nel corso della carriera, espose in istituzioni come il Victoria & Albert Museum, il Fondation Cartier, il San Francisco MoMA. Ricevette il Premio Ina Nobuo nel 1976 per la mostra “Karasu” e il Premio Speciale Higashikawa nel 1992. Dopo la caduta del 1992 e il coma, la sua opera fu riscoperta postuma, con retrospettive e monografie che ne hanno consolidato il ruolo nel canone internazionale.
Fonti
- Masahisa Fukase – Wikipedia
- Masahisa Fukase Archives – Biography
- Ravens – Masahisa Fukase Archives
- Aperture – Essay on Family
- Tokyo Photographic Art Museum – Retrospective
- Plac’Art Photo – Karasu First Edition
- Fiebre Photobook – Ravens
- Masahisa Fukase Timeline
- PhotoAnthology – Family
- Masahisa Fukase Archives – Photobooks
Mi chiamo Marco Americi, ho circa 45 anni e da sempre coltivo una profonda passione per la fotografia, intesa non solo come mezzo espressivo ma anche come testimonianza storica e culturale. Nel corso degli anni ho studiato e collezionato fotocamere, riviste, stampe e documenti, sviluppando un forte interesse per tutto ciò che riguarda l’evoluzione tecnica e stilistica della fotografia. Amo scavare nel passato per riportare alla luce autori, correnti e apparecchiature spesso dimenticate, convinto che ogni dettaglio, anche il più piccolo, contribuisca a comporre il grande mosaico della storia dell’immagine. Su storiadellafotografia.com condivido ricerche, approfondimenti e riflessioni, con l’obiettivo di trasmettere il valore documentale e umano della fotografia a un pubblico curioso e appassionato, come me.


