mercoledì, 29 Ottobre 2025
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Lise Sarfati

Lise Sarfati nasce il 12 aprile 1958 a Orano, nell’allora Algeria francese, da famiglia pied-noir. Cresce tra Orano e, dopo l’esodo, la Costa Azzurra, in particolare Nizza, città che in molte interviste e note biografiche indica come matrice della sua sensibilità cromatica: il Mediterraneo, le facciate pastello, la luce radente dei pomeriggi estivi sedimentano una grammatica del colore che diverrà uno dei cardini della sua ricerca visiva. La condizione di sradicamento e la tensione identitaria tipiche della diaspora pied‑noir costituiscono uno sfondo biografico pregnante; non è un caso che, decenni più tardi, la sua fotografia insisterà su personaggi «sfuggenti», spesso giovani donne sospese tra appartenenze multiple e instabilità dell’identità, come sottolineano i profili critici più autorevoli. La traiettoria formativa è rigorosa: nel 1979 consegue una laurea magistrale in studi russi alla Sorbona, con un percorso che la porta a confrontarsi non solo con la lingua e la letteratura, ma con la storia dell’arte e della fotografia sovietica, inclusa la stagione costruttivista e post‑bellica. L’interesse per la cultura russa nasce in adolescenza e si consolida in viaggi, letture e ricerche che confluiranno in un approccio fotografico profondamente interculturale e attento ai processi storici.
Nel 1986 accetta l’incarico di fotografa ufficiale dell’Académie des Beaux‑Arts a Parigi: un laboratorio privilegiato per affinare disciplina tecnica, capacità di relazione con i soggetti e consapevolezza museografica dell’immagine. Queste competenze si tradurranno, in seguito, in una gestione quasi “architettonica” del quadro fotografico e della messa in scena. Tra la fine degli anni Ottanta e tutto il decennio successivo compie il primo, fondamentale salto: dal 1989 al 1998 vive e lavora in URSS e poi in Russia. Qui costruisce un archivio vastissimo di ritratti, interni e paesaggi urbani che restituiscono la precarietà della transizione post‑sovietica: dormitori, istituti, appartamenti comunitari, strade di periferia, impianti industriali dismessi. L’esito editoriale di questo itinerario è Acta Est (Phaidon, 2000), una monografia che sottrae il racconto della Russia al binomio fotogiornalismo/folklore, per inscenare un mondo al confine tra realtà e finzione, dove la posa, la luce e il colore costruiscono narrazioni aperte che lo spettatore deve completare. La ricezione critica è immediata e internazionale. Nel 1996 ottiene due riconoscimenti decisivi: il Prix Niépce (Parigi) e l’ICP Infinity Award (New York), che la proiettano tra le voci più ascoltate della fotografia contemporanea. Nello stesso periodo entra in Magnum Photos (1996), divenendone membro effettivo nel 2001 e mantenendo l’affiliazione fino al 2011. Questa militanza in Magnum è peculiare: pur situandosi nella costellazione del documentario, Sarfati rifiuta il reportage in senso stretto e pratica un ibrido in cui il ritratto psicologico dialoga con la table photography e con un uso narrativo dello spazio.

Dal 2003 si stabilisce a lungo negli Stati Uniti, dove avvia cicli che segnano il passaggio a una psicogeografia americana: La Vie Nouvelle (2005), Austin, Texas (2008), On Hollywood (2010) e She (2012) ripercorrono suburbi, assi viari, quartieri di Los Angeles, Berkeley, Oakland; la figura femminile diventa vettore di discontinuità tra un paesaggio codificato dallo spettacolo e la banalità del quotidiano. Nel 2012–2013 inaugura un’importante svolta strumentale, adottando una camera a corpi mobili 4×5 pollici e realizzando Oh Man (pubblicato/esposto dal 2017), ciclo centrato su solitudini maschili nel downtown di Los Angeles. La scelta del grande formato e la produzione di stampe di grande dimensione ampliano la zona di contemplazione e avvicinano il suo dispositivo a quello della pittura e del cinema.
Il percorso espositivo conferma una presenza costante nei maggiori centri: Rencontres d’Arles, LACMA, FOAM, Maison Européenne de la Photographie, Yossi Milo Gallery, Rose Gallery, Brancolini Grimaldi, Magnum Gallery Paris. Le sue opere figurano in collezioni come Centre Pompidou, LACMA, SFMOMA, Brooklyn Museum, Philadelphia Museum of Art, Bibliothèque nationale de France, tra le altre. La biografia essenziale è quindi chiara: nascita a Orano nel 1958, nazionalità francese, formazione alla Sorbona (MA in studi russi, 1979), carriera a cavallo tra Europa, Russia e Stati Uniti, riconoscimenti internazionali dal 1996, affiliazione a Magnum fino al 2011, attività espositiva capillare e continuità di ricerca fino a oggi. Lise Sarfati è vivente e continua a lavorare tra Parigi e Los Angeles, consolidando una posizione che incrocia identità femminile, psicogeografia e costruzione del ritratto come dispositivo conoscitivo. Le informazioni biografiche qui sintetizzate sono convergenti nelle principali fonti istituzionali e di settore, incluse le pagine ufficiali dell’artista e i profili enciclopedici, che ribadiscono le date, i premi e la progressione delle sue pubblicazioni e mostre, segnando un continuum ventennale tra Europa e America.

Stile fotografico e approccio tecnico

La fotografia di Lise Sarfati si definisce innanzitutto come sistema di relazioni: soggetto, luogo e dispositivo tecnico sono i tre vertici di un triangolo che, opera dopo opera, viene calibrato per generare ambiguità semantica e densità psicologica. La cifra più nota del suo lavoro è la fusione tra ritratto, istantanea e tableau arrangiato: non esiste una dicotomia netta tra spontaneità e costruzione; piuttosto, si assiste a un regime misto in cui la posa, discretamente guidata, convive con contingenze luministiche e micro-eventi nello spazio della scena. Questa regia minima produce immagini che appaiono semplici a un primo sguardo, ma che rivelano al secondo livello stratificazioni narrative: gesti trattenuti, sintassi cromatiche coerenti con il contesto, linee di fuga urbane usate non come mera scenografia ma come agenti psichici. Critici internazionali hanno descritto questa qualità come una «misteriosa semplicità», attribuendola alla sua abilità nel fondere generi e nel collocarsi sull’orlo tra documento e finzione.

Dal punto di vista ottico e strumentale, si possono distinguere due fasi principali. La prima, che comprende Acta Est e parte del lavoro successivo, privilegia il formato 35mm su pellicola: compattezza, profondità di campo più aperta, grana come valore espressivo e reattività operativa che si traduce in un tempo di scatto flessibile, adatto agli interni russi con luce naturale scarsa. La seconda fase, soprattutto con Oh Man, introduce la chamber 4×5: qui l’asse ottico e la pianarità del piano focale sono controllati con movimenti di basculaggio e decentramento, consentendo correzione prospettica e messa a fuoco selettiva su piani chirurgicamente scelti. La resa tonale del grande formato, unita a stampe di grande dimensione, spinge lo spettatore a un tempo di osservazione lento, coerente con la volontà dell’autrice di espandere lo spazio di contemplazione. In termini di workflow, il passaggio a 4×5 implica una riduzione del numero di fotogrammi e un incremento della pre‑visualizzazione, con conseguente densità compositiva per immagine più elevata.

Sul piano cromatico, Sarfati sviluppa una tavolozza coerente con ciascun ciclo. Nella fase russa domina una gamma fredda, dove verdi desaturati, azzurri grigiati e ocra polverosi costruiscono un’atmosfera post‑industriale e melanconica. Negli Stati Uniti, soprattutto tra California e Texas, la luce secca e i toni crema, sabbia e rosa dei suburbi entrano nella struttura dell’immagine come codici ambientali: non fondali neutri, ma segni che partecipano alla scrittura. Il colore non è mai decorativo; è comportamento della superficie fotografica che indicia stati d’animo e frizioni identitarie. Questa sensibilità cromatica è frequentemente ricondotta alla memoria mediterranea della sua infanzia a Nizza e al lungo esercizio nella stampa e nel proofing in galleria.

La composizione ricorre spesso a inquadrature ortogonali e a orizzonti stabili, con soggetti centrali o leggermente decentrati che interrompono sequenze seriali di facciate, recinzioni, vetrine, linee stradali. L’effetto è una tensione tra ordine e disordine: l’architettura contiene, il corpo disloca. Nelle immagini americane, la psicogeografia è evidente: l’individuo come vettore che misura la resistenza del tessuto urbano, indagando quella zona intermedia tra spazio pubblico e privato dove gesti minimi – voltarsi, sostare, intrecciare le braccia – assumono valenza semiotica. Il tempo nelle sue fotografie è sospeso: niente accade eppure qualcosa sta per accadere; una dramaturgia in potenza si addensa nella postura e negli oggetti.

Sarfati tematizza con costanza l’identità femminile come processo e non come essenza: le giovani donne non sono tipi sociologici, ma singolarità non riducibili, rese attraverso variazioni su capelli, abiti, texture epidermiche, micro‑gestualità, micro‑cartografie degli ambienti domestici. Con Oh Man, lo spostamento sul maschile non smentisce, bensì amplia la sua teoria del ritratto: solitudini che camminano in un centro privo di centro, downtown Los Angeles, dove vetro, intonaco e asfalto rifrangono una luce spietata. Qui il grande formato funziona come specchio crudele e lento, favorevole a un montaggio interno dell’immagine basato su piani e micro‑dettagli.

Dal punto di vista editoriale e espositivo, la sua pratica tende a costruire serie coerenti per luogo, personaggio e tavolozza, destinate tanto al libro fotografico – con attenzione alla sequenza, alla paginazione e alla grammatica del bianco – quanto alla sala espositiva, in cui il formato di stampa e l’altezza di montaggio sono calibrati per ottenere prossimità e distanza a seconda dei casi. In diversi cicli, l’ordine seriale delle immagini lavora come contrappunto: gli scarti minimi da un fotogramma all’altro attivano una lettura comparativa, facendo emergere pattern che non sono riducibili a racconto lineare, ma a variazioni di una medesima situazione esistenziale.

Sul piano concettuale, la posizione di Sarfati nella fotografia contemporanea è spesso letta come antitesi tanto al neorealismo documentario quanto alla mise‑en‑scène totalizzante di certa fotografia post‑cinematografica: il suo interstizio mantiene ambivalenza, rifiuta chiodature narrative, esige partecipazione interpretativa. Proprio questa soglia – tra ciò che è visto e ciò che è immaginato – costituisce il cuore tecnico‑poetico del suo metodo.

Le Opere principali

Questo capitolo raccoglie i cicli maggiormente rappresentativi del lavoro di Lise Sarfati, con una descrizione tecnico‑critica pensata per un lettore di storia della fotografia. La sezione mantiene una narrazione discorsiva, e utilizza un elenco solo per i titoli e le coordinate essenziali, come richiesto.

  • Acta Est (Phaidon, 2000)
    Il progetto nasce da quasi un decennio di lavoro in URSS/Russia (1989–1998). La Russia di transizione è indagata non come cronaca, ma come teatro di soggettività: dormitori, scuole, colonie di rieducazione, appartamenti con carta da parati scrostata, bagni comuni, fabbriche e scale diventano quinte in cui i corpi – spesso adolescenti o giovani – sostano in un tempo svuotato. La scelta del 35mm si traduce in mobilità e rapidità nel catturare luci radenti e ombre profonde; la grana è parte dell’enunciazione: non difetto ma materia che porta il clima dell’epoca. L’inquadratura si ferma spesso su soglie: porte, finestre, telai che ritagliano campi e fuoricampo. Il libro Phaidon consolida la reputazione internazionale dell’autrice e si impone come benchmark di una nuova fotografia d’autore sulla Russia post‑sovietica, lontana tanto dall’esotismo quanto dall’aneddoto. La letteratura critica insiste sul carattere poetico del ciclo, sul limine tra realtà e finzione, nonché sul ritratto come atto relazionale più che come immagine‑tipo.
  • La Vie Nouvelle (Twin Palms, 2005)
    Realizzato negli Stati Uniti nel 2003 e pubblicato nel 2005, il titolo rimanda a Dante e introduce un canone di rinascita trasposto nel suburbio americano. Qui compaiono giovani donne che sostano in camere da letto, salotti dei genitori, giardini, parcheggi e market; la mise‑en‑scène è minimale: gesti piccoli, sguardi laterali, posture spezzate. La luce è spesso piana, la gamma cromatica tende a pastelli smorzati; l’ambiente non descrive psicologie ma le produce: la psicogeografia è strutturale. Sul piano tecnico, si avverte una transizione: il controllo compositivo si fa più rigido, prefigurando il passaggio al grande formato. L’assenza di climax narrativi risulta coerente con l’ipotesi fenomenologica dell’autrice: identità come campo di forze più che storia.
  • Austin, Texas (2008)
    Ciclo focalizzato sulla topografia texana. Facciate basse, marciapiedi larghi, tetti a falda, cartellonistica commerciale: il paesaggio è un dispositivo che spinge i soggetti in posizioni eccentriche rispetto al centro del quadro. Le temperature calde dominano; il contrasto medio riduce l’effetto drammatico a favore di una percezione termica della scena. La serialità è più marcata: soggetti ricorrenti, abiti che variano per micro‑slittamenti, angolazioni ripetute con scarti minimi. La lettura comparativa tra immagini è parte integrante dell’opera. Per il lettore tecnico, è utile notare come l’uso sistematico di linee orizzontali e verticali “raddrizzate” lasci presagire sperimentazioni di decentramento e tilt tipiche del grande formato.
  • On Hollywood (2010)
    Il mito di Hollywood è qui decostruito per sottrazione. Le giovani donne sono accostate a insegne, muri, vetrine e arterie che alludono all’industria dello spettacolo senza mai mostrarla in azione. L’immagine lavora a basso regime di spettacolarità: non ci sono premiére, set, divi; c’è l’interfaccia tra corpo e città. Tecnologicamente, l’estensione della profondità di campo e la precisione dei bordi fanno pensare già a un workflow ibrido o a un formato maggiore nei passaggi chiave. La composizione alterna piani frontali e diagonali leggere, con margini che accolgono informazioni periferiche importanti: numeri civici, graffiti, tracce d’uso. Il risultato è un contro‑ritratto di Hollywood, dove la mitologia è ridotta a segnaletica.
  • She (2012)
    Forse il ciclo più analitico sull’identità femminile come instabilità. Sloane, Gina, Christine e altre figure ritornano in scene multiple, che non compongono una storia, ma una matrice. L’abito e l’acconciatura funzionano come variabili, così come elementi d’arredo e porzioni di paesaggio. La temperatura di colore è neutrale, talvolta fredda; la pelle è trattata con fedeltà tonale; la postura è spesso di tre quarti, lo sguardo raramente diretto. In termini di tecnica, l’attenzione alle linee e ai piani suggerisce un controllo ottico già molto vicino alla prassi large format, pur senza ostentarne gli effetti. “She” radicalizza la serialità come metodo, e la differenza minima come evento.
  • Oh Man (2017)
    Il progetto losangelino compie la svolta: formato 4×5, tempi lenti, stampe di grande formato. I soggetti maschili camminano o sostano in downtown LA; il campo visivo include facciate, capitolati materici (cemento, vetro, metallo), ombre nette. Il grande formato permette una nitidezza diffusa che convive con piani di fuoco selettivi grazie a movimenti (tilt/swing). La prospettiva è corretta con shift, riducendo fughe indesiderate e verticali cadenti: ciò dona una “verticalità pittorica” ai volumi architettonici. La retorica dell’eroe urbano è disinnescata: l’uomo è minuscolo davanti a superfici sproporzionate e assenze. Una fotografia di questa serie è stata scelta come visual ufficiale di Paris Photo 2017, a conferma della centralità del ciclo nel percorso dell’autrice.
    Dal punto di vista espositivo, “Oh Man” richiede distanza di visione generosa: le stampe ampliano lo spazio di contemplazione, invitando il pubblico a una perlustrazione del quadro che è prima ottica e poi semantica. La coerenza tra scelta tecnica e ipotesi concettuale è qui esemplare: la lentezza operativa della 4×5 si riflette nella lentezza della fruizione.

Questi corpora non vanno letti come capitoli isolati, ma come sistema. La continuità tra Acta Est e i cicli americani è duplice: metodologica (ritratto come relazione e tableau) e tematica (identità come instabilità). La differenza è nella relazione con lo spazio: spazio chiuso e residuale in Russia, spazio esterno e urbanistico negli USA. In entrambi i casi, la fotografia è dispositivo di conoscenza, non illustrazione. La scrittura per serie e la cura editoriale (sequenze, labelling, formati) completano una pratica dove la coerenza non significa ripetizione, ma variazione su tema.

Fonti

Curiosità Fotografiche

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