Diane Arbus rappresenta una delle figure più controverse e significative della fotografia documentaria del XX secolo. La sua opera, caratterizzata da un’intensa esplorazione dell’umanità ai margini della società, ha ridefinito i confini della fotografia sociale, trasformandola da freddo reportage espositivo a cronaca intensa e partecipata dell’esperienza umana. Attraverso i suoi ritratti frontali di soggetti considerati “diversi” o “anormali”, Arbus ha sviluppato un linguaggio visivo unico che ha sfidato le convenzioni estetiche e sociali dell’America del dopoguerra. La sua capacità di stabilire relazioni profonde con i soggetti fotografati, unita a una tecnica rigorosa e a scelte formali precise, le ha permesso di creare immagini che ancora oggi interrogano il nostro rapporto con la diversità, la normalità e la rappresentazione dell’altro nello spazio fotografico.
Biografia e formazione fotografica
La comprensione del percorso artistico di Diane Arbus non può prescindere dall’analisi del suo background personale e della sua formazione. Nata Diane Nemerov il 14 marzo 1923 a New York, proveniva da una famiglia ebrea benestante di origine russa, proprietaria dei grandi magazzini di lusso “Russek’s” sulla Quinta Strada. Questa condizione privilegiata le garantì un’educazione raffinata, con lezioni di pianoforte, pittura e francese, ma al contempo la isolò dalle difficoltà e dalle asprezze della vita reale, creandole quello che lei stessa definirà in seguito come un “forte senso di straniamento dalla realtà”. Questo sentimento di alienazione e la costante sensazione di vivere in una sorta di “campana di vetro” rappresenteranno elementi fondamentali nella formazione della sua sensibilità artistica e della sua attrazione verso ciò che era considerato “diverso” o “strano” rispetto ai canoni della società borghese in cui era cresciuta.
Il primo contatto significativo di Arbus con la fotografia avvenne attraverso il suo matrimonio con Allan Arbus, un giovane commesso del negozio del padre, che sposò nel 1941 all’età di appena diciotto anni, nonostante la disapprovazione familiare. Fu proprio Allan a regalarle la prima macchina fotografica, una Graflex, e a introdurla al mondo della fotografia. Insieme fondarono lo studio “Diane e Allan Arbus”, specializzandosi inizialmente nella fotografia pubblicitaria e di moda. Durante questo periodo, la coppia collaborò con importanti riviste come Vogue, Harper’s Bazaar e Glamour, costruendosi una solida reputazione nel settore della fotografia commerciale newyorkese.
Nonostante il successo professionale, Diane sentiva che la fotografia di moda non le permetteva di esprimere pienamente la sua visione artistica e il suo crescente interesse per la realtà sociale che la circondava. Un momento cruciale nel suo sviluppo artistico fu l’incontro con Lisette Model, fotografa austriaca emigrata negli Stati Uniti, con cui studiò per due anni a partire dal 1955. Model, nota per i suoi ritratti diretti e spesso impietosi della società americana, ebbe un’influenza determinante sull’evoluzione stilistica di Arbus, incoraggiandola a seguire i propri istinti e a confrontarsi con soggetti che la interessavano profondamente, al di là delle convenzioni estetiche e sociali dominanti.
Il 1959 segnò uno spartiacque nella vita personale e professionale di Diane: si separò dal marito Allan (da cui aveva avuto due figlie, Doon e Amy) e abbandonò definitivamente la fotografia commerciale per dedicarsi a un percorso di ricerca e sperimentazione fotografica più personale e intenso. Questo cambiamento di direzione fu accompagnato anche da una significativa evoluzione tecnica: Arbus passò dalla Nikon 35mm utilizzata nel periodo della fotografia di moda a una Rolleiflex biottica di medio formato, una scelta che avrebbe influenzato profondamente il suo approccio al ritratto. La Rolleiflex, con il suo particolare sistema di visione dall’alto, le permetteva infatti di mantenere un contatto visivo diretto con i soggetti durante lo scatto, facilitando quella relazione di intimità e fiducia che diventerà una caratteristica fondamentale del suo lavoro maturo.
Gli anni Sessanta rappresentarono il periodo più fertile e significativo della produzione di Arbus. Libera dai vincoli della fotografia commerciale e sostenuta da una borsa di studio della Guggenheim Foundation (ottenuta nel 1963 e rinnovata nel 1966), poté dedicarsi completamente all’esplorazione fotografica di quella che lei chiamava “l’America non vista”, popolata da individui che vivevano ai margini della società o che, in vari modi, sfidavano le norme sociali e estetiche dominanti. Esplorò con determinazione i bassifondi di New York, luoghi come Coney Island, i cinema a luci rosse, i parchi pubblici e le strade della città, alla ricerca di soggetti che potessero incarnare l’alterità che tanto la affascinava.
Il crescente riconoscimento del suo lavoro culminò nel 1967 con la partecipazione alla storica mostra “New Documents” al Museum of Modern Art di New York, curata da John Szarkowski. Questa esposizione, che includeva anche opere di Lee Friedlander e Garry Winogrand, rappresentò un momento cruciale nella storia della fotografia americana, sancendo l’emergere di un nuovo approccio documentario, più personale e soggettivo, che avrebbe influenzato profondamente gli sviluppi successivi del medium fotografico. La mostra consacrò Arbus come una delle voci più originali e provocatorie della fotografia contemporanea, attirando al contempo critiche feroci e appassionati sostenitori.
Nonostante il crescente successo professionale, gli ultimi anni della vita di Arbus furono segnati da periodi di profonda depressione e difficoltà personali. Il 26 luglio 1971, all’età di 48 anni, Diane Arbus si tolse la vita, lasciando un vuoto incolmabile nel panorama fotografico americano. L’anno successivo, la sua opera fu selezionata per rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia, facendo di lei la prima fotografa americana a ricevere questo prestigioso riconoscimento. Nello stesso anno, il Museum of Modern Art di New York le dedicò una grande retrospettiva che attirò un numero record di visitatori, contribuendo a consolidare la sua fama postuma e il suo status di figura chiave nella storia della fotografia del XX secolo.
L’approccio tecnico e stilistico
L’originalità e la forza del lavoro di Diane Arbus derivano in larga misura dal suo peculiare approccio tecnico e stilistico, che univa rigore formale e intensità emotiva in un linguaggio visivo inconfondibile. La sua evoluzione stilistica riflette il passaggio da una fotografia principalmente commerciale a un’espressione artistica profondamente personale, caratterizzata da scelte tecniche precise e coerenti con la sua visione del mondo e dei soggetti rappresentati.
Dopo aver abbandonato la fotografia di moda, Arbus sviluppò gradualmente un approccio diretto e frontale al ritratto che sarebbe diventato il suo marchio distintivo. Questa scelta formale non era casuale, ma rifletteva la sua volontà di stabilire una relazione paritaria con i soggetti fotografati, evitando sia la distanza oggettivante del reportage tradizionale sia la manipolazione estetica della fotografia pittorica. La frontalità del ritratto arbusiano rimanda alla tradizione del ritratto ottocentesco e, in particolare, alle fotografie di identificazione, ma viene reinterpretata in chiave espressiva e psicologica, diventando strumento di rivelazione dell’identità profonda del soggetto fotografato.
Dal punto di vista dell’attrezzatura, la scelta della Rolleiflex biottica di medio formato rappresentò una svolta decisiva nel suo percorso artistico. Questa fotocamera, con il suo formato quadrato 6×6 cm, imponeva una disciplina compositiva diversa rispetto alle macchine 35mm, privilegiando composizioni centrate e simmetriche che si adattavano perfettamente all’approccio frontale che Arbus stava sviluppando. La Rolleiflex presentava inoltre vantaggi significativi per il tipo di fotografia che Arbus praticava: la maggiore qualità dell’immagine consentita dal formato più grande permetteva di catturare dettagli minuziosi, fondamentali per il suo interesse verso le texture della pelle, le espressioni facciali e gli elementi dell’abbigliamento che contribuivano a definire l’identità dei soggetti.
Ma forse l’aspetto più importante della Rolleiflex per il lavoro di Arbus era il suo peculiare sistema di visione. A differenza delle reflex 35mm, che costringono il fotografo a coprirsi il viso con la macchina nel momento dello scatto, la Rolleiflex, con il suo mirino a pozzetto posizionato nella parte superiore della fotocamera, permetteva ad Arbus di mantenere il contatto visivo con i soggetti durante tutta la fase di ripresa. Questa caratteristica tecnica facilitava l’instaurarsi di quella relazione di fiducia e complicità con i soggetti che era essenziale per il suo lavoro. Come lei stessa affermava, “non scatto finché non sento di avere il permesso della persona”, sottolineando l’importanza dell’aspetto relazionale nella sua pratica fotografica.
Per quanto riguarda l’illuminazione, Arbus prediligeva la luce naturale o, quando necessario, il flash diretto, evitando sistemi di illuminazione complessi o effetti pittorici. Questa scelta tecnica era coerente con la sua ricerca di un’immagine diretta e non mediata, capace di rivelare piuttosto che abbellire. L’uso del flash, in particolare, contribuiva a creare quell’effetto di isolamento del soggetto dallo sfondo che caratterizza molti dei suoi ritratti più celebri, concentrando l’attenzione sulle qualità fisiche e espressive della persona ritratta e amplificando il senso di straniamento e sospensione temporale che pervade il suo lavoro.
Un altro aspetto tecnico fondamentale dell’opera di Arbus è il suo approccio alla stampa fotografica. Le sue stampe, realizzate con cura meticolosa, si caratterizzano per una gamma tonale ricca ma controllata, che evita sia i contrasti drammatici della tradizione modernista sia la morbidezza atmosferica della fotografia pittorica. Arbus stampava personalmente i propri lavori, considerando questa fase come parte integrante del processo creativo, e non un semplice passaggio tecnico. Le dimensioni relativamente contenute delle sue stampe (generalmente 40×40 cm per i lavori maturi) invitano a un’osservazione ravvicinata e intima, coerente con il tipo di relazione che cercava di instaurare con i suoi soggetti e, di riflesso, con gli spettatori delle sue immagini.
Il bianco e nero è un altro elemento caratterizzante del linguaggio visivo di Arbus. La sua scelta di lavorare esclusivamente in questo medium non era dettata solo dalle convenzioni della fotografia artistica dell’epoca, ma rifletteva una precisa volontà di astrazione e semplificazione formale. Il bianco e nero le permetteva di concentrarsi sugli elementi essenziali dell’immagine – la composizione, la texture, l’espressione – eliminando le distrazioni cromatiche e rafforzando la dimensione simbolica e archetipica dei suoi ritratti.
Dal punto di vista compositivo, i ritratti di Arbus si caratterizzano per una costruzione geometrica rigorosa, spesso basata su una simmetria bilaterale che colloca il soggetto al centro esatto dell’inquadratura. Questa centralità compositiva, unita alla frontalità dello sguardo, crea un effetto di confronto diretto tra il soggetto fotografato e l’osservatore, eliminando qualsiasi possibilità di fruizione distaccata o voyeuristica dell’immagine. Come ha osservato la critica Susan Sontag, guardare le fotografie di Arbus significa necessariamente “essere messi in una relazione con l’anormalità”, una relazione che non consente facili vie di fuga o posizioni di superiorità morale o estetica.
Un ulteriore elemento stilistico distintivo del lavoro maturo di Arbus è la precisione quasi scientifica dei dettagli, resa possibile dalla qualità del formato medio e dalla sua tecnica di stampa impeccabile. Questa attenzione al dettaglio non era fine a se stessa, ma funzionale alla sua ricerca di autenticità e verità. Come lei stessa affermava: “Ci sono cose che nessuno riesce a vedere, prima che siano fotografate.” Il suo obiettivo era proprio quello di rendere visibile l’invisibile, di rivelare attraverso i dettagli fisici e materiali l’essenza psicologica e esistenziale dei suoi soggetti.
Soggetti e temi ricorrenti
L’opera di Diane Arbus si distingue non solo per le sue caratteristiche formali e tecniche, ma anche e soprattutto per la peculiare scelta dei soggetti e per i temi che attraversano la sua produzione. La sua attrazione verso figure marginali, eccentriche o comunque collocate al di fuori dei canoni della normalità borghese ha suscitato reazioni contrastanti, dalle accuse di sfruttamento e voyeurismo alle lodi per il suo coraggio nel dare visibilità e dignità a individui generalmente esclusi dalla rappresentazione fotografica mainstream.
Il tema centrale che percorre tutta l’opera matura di Arbus è quello della diversità, intesa nelle sue molteplici manifestazioni: fisica, sociale, psicologica, sessuale. I suoi soggetti spaziano dalle persone con disabilità fisiche o cognitive (come nella celebre “Russian midget friends in a living room on 100th Street, N.Y.C.” del 1963) alle coppie anziane nudiste (come in “Retired man and his wife at home in a nudist camp one morning, N.J.” del 1963), dai transgender e travestiti del mondo notturno di New York (come in “A young man in curlers at home on West 20th Street, N.Y.C.” del 1966) alle gemelle identiche (come nelle iconiche “Identical Twins, Roselle, N.J.” del 1967).
Questa esplorazione della diversità non era però motivata da un interesse puramente estetico o sensazionalistico. Per Arbus, i cosiddetti “freaks” (termine che lei stessa utilizzava, riappropriandosi in modo critico di un vocabolo solitamente usato in senso denigratorio) rappresentavano una forma di autenticità esistenziale che trovava profondamente affascinante. Come dichiarò in un’intervista: “I freaks erano nati con il loro trauma. Avevano già superato la loro prova. Erano aristocratici”. Questa affermazione rivela come Arbus vedesse nei suoi soggetti non tanto degli “altri” esotici o inquietanti, quanto piuttosto degli individui che, proprio attraverso la loro differenza, avevano sviluppato una consapevolezza di sé e una forza interiore straordinarie.
Un altro tema ricorrente nel lavoro di Arbus è quello della maschera sociale, intesa come insieme di convenzioni, travestimenti e finzioni che caratterizzano l’identità pubblica degli individui. Questo interesse si manifesta non solo nelle fotografie di travestiti e performer, ma anche nei ritratti di persone comuni colte in contesti sociali fortemente codificati, come feste in maschera, balli, concorsi di bellezza o cerimonie rituali. In queste immagini, Arbus esplora la sottile linea che separa l’identità autentica dalla performance sociale, rivelando le tensioni e le contraddizioni che sottendono anche le apparenze più convenzionali.
Particolarmente significative in questo senso sono le fotografie realizzate nei parchi di divertimento e nei luna park, luoghi che Arbus frequentava assiduamente e che rappresentavano per lei una sorta di microcosmo in cui le contraddizioni della società americana si manifestavano in forma condensata e simbolica. In questi spazi liminali, dove il confine tra realtà e finzione, normalità e stravaganza diventa fluido e permeabile, Arbus trovava un terreno fertile per la sua esplorazione dell’identità umana nelle sue manifestazioni più complesse e ambigue.
La sessualità non convenzionale è un altro tema centrale nell’opera di Arbus. Le sue fotografie di drag queen, coppie nudiste, prostitute e partecipanti a feste sadomaso sfidavano i tabù della società americana degli anni ’60, offrendo una rappresentazione non giudicante di pratiche e identità sessuali che all’epoca erano oggetto di stigma sociale e spesso criminalizzate. Anche in questo ambito, l’approccio di Arbus si distingueva per la sua capacità di andare oltre l’esotico o il sensazionalistico, per cogliere l’umanità e la complessità emotiva dei suoi soggetti.
Un aspetto meno discusso ma altrettanto significativo del lavoro di Arbus è la sua esplorazione del tema dell’infanzia e dell’adolescenza. Le sue fotografie di bambini e adolescenti, spesso colti in momenti di ambigua transizione tra innocenza e consapevolezza, rivelano un interesse per l’identità in formazione e per le tensioni che caratterizzano queste fasi della vita. Immagini come “Child with a toy hand grenade in Central Park, N.Y.C.” (1962) o “Teenage couple on Hudson Street, N.Y.C.” (1963) mostrano come Arbus fosse capace di cogliere la complessità emotiva dell’esperienza infantile e adolescenziale, evitando sia le semplificazioni sentimentali che le proiezioni adulte.
La religione e la spiritualità rappresentano un altro ambito di interesse ricorrente nel lavoro di Arbus. Le sue fotografie di cerimonie religiose, predicatori di strada, medium e praticanti di vari culti esplorano la dimensione rituale e comunitaria dell’esperienza religiosa, mostrando come questa possa costituire sia uno spazio di appartenenza e identità collettiva, sia un’espressione di individualità e ricerca personale. Anche in questo caso, l’approccio di Arbus evita sia la celebrazione acritica sia la derisione, per cogliere la complessità e l’ambivalenza dell’esperienza spirituale nelle sue molteplici manifestazioni.
Un ultimo tema fondamentale nell’opera di Arbus è quello della coppia e della relazione. Molti dei suoi ritratti più celebri raffigurano coppie: coniugi anziani, giovani amanti, fratelli e sorelle, amici inseparabili. In queste immagini, Arbus esplora le dinamiche relazionali che uniscono gli individui, mostrando come anche le relazioni più intime siano attraversate da tensioni, ambivalenze e giochi di potere. La frontalità che caratterizza questi ritratti, con i soggetti che guardano direttamente l’obiettivo, crea un effetto di sospensione e straniamento che invita l’osservatore a interrogarsi sulla natura dei legami rappresentati.
Il linguaggio visivo e la tecnica del ritratto
L’originalità e la forza del lavoro di Diane Arbus risiedono in gran parte nel suo peculiare linguaggio visivo e nella sua tecnica di ritratto, che ha rivoluzionato i canoni della fotografia documentaria americana. La sua capacità di trasformare l’atto fotografico da semplice registrazione a evento relazionale ha aperto nuove possibilità espressive per la fotografia sociale, influenzando generazioni di fotografi successivi.
Al centro del linguaggio visivo di Arbus troviamo il concetto di confronto, inteso non come scontro o contrapposizione, ma come incontro autentico tra soggetto fotografato e fotografo, e per estensione, tra soggetto e osservatore dell’immagine. Questo confronto si manifesta formalmente nella struttura frontale che caratterizza la maggior parte dei suoi ritratti. A differenza della tradizione del reportage sociale, che privilegiava lo scatto rubato o la posizione dell’osservatore esterno, Arbus cercava deliberatamente il coinvolgimento dei suoi soggetti, chiedendo loro di posare e di guardare direttamente l’obiettivo. Questa scelta formale non era solo una questione estetica, ma rifletteva un preciso posizionamento etico: il rifiuto di oggettivare i soggetti o di ridurli a meri esempi di categorie sociali o tipologie umane.
La frontalità del ritratto arbusiano crea quello che la critica d’arte Jeu Szarkowski ha definito un “effetto di presenza” che annulla la distanza tra l’osservatore e il soggetto rappresentato. Guardando un ritratto di Arbus, lo spettatore si trova coinvolto in un rapporto diretto con la persona fotografata, un rapporto che non consente la comoda posizione del voyeur distaccato, ma richiede un impegno emotivo e una riflessione sulla propria posizione rispetto all’alterità rappresentata. Questo effetto è amplificato dall’inquadratura ravvicinata che caratterizza molti dei suoi ritratti, in cui i soggetti occupano gran parte dello spazio visivo, creando una sensazione di intimità forzata che può risultare al tempo stesso affascinante e disturbante.
Un altro elemento fondamentale del linguaggio visivo di Arbus è l’uso del formato quadrato della Rolleiflex. Questa scelta formale, apparentemente neutra, ha in realtà profonde implicazioni estetiche e concettuali. Il formato quadrato elimina la gerarchia visiva implicita nel formato rettangolare (orizzontale o verticale), creando uno spazio visivo più equilibrato e statico, in cui il soggetto assume una centralità assoluta. Inoltre, la simmetria del quadrato risuona con la frontalità dei ritratti di Arbus, rafforzando l’effetto di confronto diretto che caratterizza il suo lavoro.
La tecnica di ritratto di Arbus si fonda su un approccio che potremmo definire “collaborativo”. A differenza di molti fotografi documentari della sua epoca, che cercavano di catturare momenti spontanei o non osservati, Arbus lavorava in modo aperto e trasparente, stabilendo un rapporto di fiducia con i suoi soggetti e coinvolgendoli attivamente nel processo di creazione dell’immagine. Come ha raccontato in varie interviste, poteva trascorrere ore o addirittura giorni con le persone che fotografava, parlando con loro, ascoltando le loro storie, entrando nelle loro case, prima di scattare anche una sola fotografia.
Questo approccio relazionale era fondamentale per il tipo di autenticità che Arbus cercava nelle sue immagini. Non si trattava di catturare un momento di verità rubato o inconsapevole, ma piuttosto di creare le condizioni per una rivelazione volontaria e consapevole. I suoi soggetti non sono colti di sorpresa, ma si offrono deliberatamente allo sguardo della fotografa e, attraverso di lei, a quello dell’osservatore. Questa qualità di auto-presentazione conferisce ai ritratti di Arbus una particolare intensità psicologica e una dimensione quasi performativa, in cui l’identità del soggetto si manifesta non come essenza fissa e immutabile, ma come costruzione complessa e in divenire.
Dal punto di vista tecnico, i ritratti di Arbus si caratterizzano per una nitidezza estrema e una profondità di campo estesa che registrano con precisione quasi clinica ogni dettaglio fisico del soggetto e dell’ambiente circostante. Questa scelta tecnica era funzionale alla sua ricerca di una verità che si manifesta nei dettagli: le rughe di un volto, la texture di un tessuto, gli oggetti che popolano uno spazio domestico diventano elementi significanti di un discorso visivo sulla condizione umana e sull’identità sociale e individuale.
L’uso del flash diretto, che caratterizza molti dei suoi ritratti in interni, contribuisce a creare quell’effetto di svelamento impietoso che è stato spesso identificato come uno degli aspetti più controversi del suo lavoro. La luce del flash, frontale e non modulata, elimina le ombre e appiattisce i volumi, producendo un’immagine che può apparire cruda e poco lusinghiera. Tuttavia, questa crudezza visiva non va interpretata come un atto di aggressione nei confronti dei soggetti, ma piuttosto come parte di una ricerca di autenticità che rifiuta le convenzioni estetiche della fotografia commerciale e della ritrattistica tradizionale.
Un aspetto spesso trascurato della tecnica di Arbus è il suo uso sottile ma efficace della composizione. Nonostante l’apparente semplicità formale dei suoi ritratti, un’analisi attenta rivela una costruzione compositiva sofisticata, basata su equilibri visivi precisi e su un uso consapevole degli elementi spaziali. La posizione del soggetto all’interno dell’inquadratura, il rapporto tra figura e sfondo, la disposizione degli elementi secondari sono tutti aspetti accuratamente considerati, che contribuiscono a creare quel senso di inevitabilità formale che caratterizza le sue immagini più riuscite.
Un altro elemento distintivo della tecnica di ritratto di Arbus è la sua capacità di cogliere quello che potremmo definire il “momento di rivelazione”, l’istante in cui il soggetto, pur essendo consapevole di essere fotografato, rivela qualcosa di sé che va oltre la posa o l’auto-rappresentazione consapevole. Questo momento non è frutto del caso o dell’opportunismo, ma di un lavoro paziente di relazione e di un’attenzione continua alle sottili variazioni dell’espressione e del linguaggio corporeo. Come ha osservato il fotografo e critico Max Kozloff, Arbus “non cerca di sorprendere i suoi soggetti in momenti non protetti, ma piuttosto di percepire il momento in cui, pur essendo pienamente consapevoli della sua presenza, rivelano una qualche verità interiore”.
Infine, un aspetto fondamentale della tecnica di ritratto di Arbus è la sua capacità di evitare gli stereotipi anche quando fotografa soggetti che potrebbero facilmente prestarsi a una lettura stereotipata. Le sue immagini di persone marginali o “diverse” non confermano mai le aspettative convenzionali o i pregiudizi del pubblico, ma li mettono in discussione, rivelando la complessità e l’unicità di ogni individuo al di là delle etichette sociali. Questo rifiuto dello stereotipo si manifesta anche nel modo in cui Arbus affronta i temi classici della fotografia sociale, come la povertà, la vecchiaia o l’emarginazione, evitando sia la retorica pietistica che l’estetizzazione compiaciuta, per cercare una rappresentazione che rispetti la dignità e la complessità esistenziale dei suoi soggetti.