Il percorso di Bertram “Bert” Stern si snoda tra influenze familiari, sperimentazioni tecniche e celebri commissioni editoriali che ne hanno segnato l’ascesa nel pantheon dei grandi maestri della fotografia commerciale e di ritratto. Nato in un contesto umile e cresciuto tra le stanze di un piccolo studio di ritratto, Stern ha saputo trasformare ogni esperienza pratica in un tassello fondamentale della propria pokeristica visiva, perfezionando l’uso di emulsioni, obiettivi e luci artificiali per imprimere sulle pellicole non soltanto l’aspetto esteriore dei soggetti, ma l’essenza stessa delle loro personalità.
Nascita e primi anni
Bertram Stern vide la luce a Brooklyn il 3 ottobre 1929, figlio primogenito di genitori immigrati dall’Europa orientale che si guadagnavano da vivere grazie a un piccolo atelier di ritratti per bambini. Il padre, abile nel mettere a proprio agio i bambini dinanzi all’obiettivo, rappresentò per Stern il primo maestro di composizione e pazienza in camera oscura: fu proprio tra rulli di pellicola e vasche di sviluppo che imparò a cogliere la frazione di secondo in cui sorgeva la “verità” di un’espressione. Lasciata la scuola superiore a soli sedici anni, attratto dalla concreta speranza di un impiego stabile, trovò posto come fattorino nel dipartimento postale di Look Magazine, dove la quotidiana visione di contact sheet e di provini lo avvicinò ai processi di stampa e selezione delle immagini. Proprio in redazione, sotto la guida di Herschel Bramson, poté toccare con mano le differenze tra esposizione sottoesposta e sovraesposta, tra grana accentuata e resa cromatica fedele, acquisendo le basi per un approccio tecnico che sarebbe rimasto centrale per tutta la sua carriera.
Il suo primo ruolo di rilievo arrivò con la nomina ad assistente artistico presso la neonata rivista Flair, dove ebbe acceso confronto con Stanley Kubrick, allora fotografo per il periodico, e cominciò a sviluppare un proprio gusto per la narrazione visiva. Proprio in questi anni sperimentò l’uso di teleobiettivi a lunga focale (135 mm e 200 mm) per isolare i soggetti nello spazio e creare un più intenso senso di intimità visiva. Una breve incursione in campo cinematografico, accanto a Kubrick e a registi emergenti, lo introdusse a concetti di storyboard e sequenza, anticipando il suo futuro ruolo di regista fotografico per campagne pubblicitarie di grande impatto.
Formazione militare e primi incarichi
Lo scoppio della guerra di Corea portò Stern a un’arruolamento d’ufficio nel 1951 all’interno del reparto fotografico dell’esercito statunitense, con sede in Giappone . Qui, immerso in un contesto multiculturale, apprese l’uso di pellicole Kodachrome a diversa sensibilità, da ISO 100 a ISO 400, e si addestrò all’utilizzo di macchine da presa di campagna, impermeabili e d’emergenza. Il rigore di quei mesi lo convinse dell’importanza di una meticolosa preparazione degli equipaggiamenti, dalla pulizia delle lenti al bilanciamento dei filtri colorati .
Al rientro negli Stati Uniti, la fama di giovane fotografo preciso e affidabile spinse alcune piccole agenzie pubblicitarie a contattarlo per campagne per prodotti di largo consumo, tra cui la famosa vodka Smirnoff, per la quale elaborò un set scenografico con sovraimpressioni e retouching manuale in camera oscura per enfatizzare il bicchiere in primo piano contro un fondale orientaleggiante. Questo progetto, accolto con entusiasmo dal diretto committente, segnò il passaggio di Stern da tecnico emergente a creativo completo, in grado di concepire l’idea e poi realizzarla personalmente fino al prodotto finito.
La collaborazione con Look Magazine proseguì in parallelo, mentre Stern mise a punto un proprio protocollo di sviluppo di emergenza per presentare provini in tempi rapidissimi, elemento cruciale per le redazioni dei periodici patinati dell’epoca. L’attenzione al dettaglio portò inoltre alla sperimentazione di un sistema di contact printing sotto luci blu, che favoriva un maggior contrasto tra luci e ombre nei ritratti in bianco e nero.
Innovazioni tecniche e stile distintivo
Stern si distinse soprattutto per l’uso sapiente della profondità di campo e del contrasto tonale, ottenuto grazie a un bilanciamento accurato tra diaframmi aperti (f/2.8–f/4) per isolare il soggetto e chiusi (f/8–f/11) per mettere a fuoco più elementi in scena, a seconda dell’effetto desiderato. La scelta di pellicole a grana fine, comprese tra ISO 100 e 200, si sposa con l’adozione di flash al magnesio ad alta velocità e di riflettori a parabola per ottenere incarnati levigati e texture ricche di dettagli.
Fu tra i pionieri nell’utilizzo di sistemi di luce continua miscelata al flash, modulando il rapporto tra sorgenti con un semplice filtro neutro di densità variabile, così da mantenere un ambiente riconoscibile e, allo stesso tempo, evidenziare con tagli netti le ombre sulle guance e sulle spalle. Le sue sovraimpressioni e i collage in camera oscura nei primi anni Sessanta erano il risultato di esposizioni multiple e ritocchi manuali, che rendevano ogni stampa un pezzo unico e sperimentale.
La regia dello scatto era parte integrante del suo approccio: Stern preparava storyboard dettagliati, selezionava le location e verificava personalmente gli angoli con un visore di messa a fuoco anteriore alla macchina, assicurandosi che il soggetto occupasse la posizione desiderata nel fotogramma e che la luce colpisse esattamente i punti di maggiore importanza narrativa, come gli occhi o le mani.
Opere principali
La celebre “The Last Sitting” fu realizzata nel giugno-luglio 1962 per Vogue, in un ciclo di tre sessioni all’Hotel Bel-Air di Los Angeles, poco prima della scomparsa di Marilyn Monroe. Le oltre 2.500 immagini scattate furono inizialmente filtrate dalla rivista e solo oltre vent’anni dopo, nel 1982, vennero pubblicate in forma di volume (The Last Sitting), corredate dai contact sheet che documentavano le scelte di Monroe e di Stern in camera oscura.
Nel 1979 vide la luce The Pill Book, frutto della collaborazione con il giornalista Lawrence Chilnick, in cui oltre mille pillole farmaceutiche furono ritratte in macro di alta precisione, con setup di micro-flash diffusi e obiettivi macro 1:1. La meticolosa resa cromatica e la nitidezza millimetrica di ogni compressa posero nuovi standard nell’illustrazione medica e farmaceutica, con vendite superiori ai 18 milioni di copie .
Il cortometraggio Jazz on a Summer’s Day (1958), realizzato con Aram Avakian, documenta il Newport Jazz Festival: Stern, applicando tecniche derivate dalla fotografia commerciale, utilizzò una pellicola 16 mm ad alta energia, sperimentando esposizioni a luce ambiente e flash a sync high-speed per cogliere gli istanti più intensi delle performance, conferendo al filmato un ritmo visivo inedito per un documentario musicale.
Collaborazioni editoriali e progetti internazionali
Nel corso degli anni Sessanta, Stern divenne figura di riferimento per Vogue, Harper’s Bazaar ed Esquire, dove introdusse un linguaggio di architettura visiva narrativo, in cui la sequenza degli scatti generava un racconto continuo. Per le campagne di moda sviluppò atmosfere oniriche, spesso inserendo elementi surreali in set costruiti in studio, ritoccati poi con sovraimpressioni di texture o disegni a mano libera in camera oscura.
La parentesi spagnola degli anni Settanta segnò il ritorno a un’estetica più calorosa: Stern, concentrato sulla fotografia di ritratto intimo, scelse obiettivi grandangolari (24 mm–35 mm) per enfatizzare la prospettiva immersiva e catturare l’ambiente circostante, applicando filtri arancio e rosso per accentuare le tonalità mediterranee. Tornato negli Stati Uniti, riprese a ritrarre celebrità contemporanee come Kate Moss e Scarlett Johansson, mantenendo l’attenzione sulla psicologia del soggetto e sui sottili giochi di luce che avevano definito il suo stile fin dagli esordi.
Alla fine della sua vita si dedicò alla curatela di mostre e al rilascio di edizioni limitate delle sue stampe più iconiche, affermando che la fisicità della carta fotografica resta insostituibile rispetto alle immagini digitali.
Bert Stern si spense a New York il 26 giugno 2013, lasciando un corpus di opere che riflette un perfetto equilibrio tra rigore tecnico e comprensione empatica del soggetto, confermandosi come uno dei più influenti sperimentatori della fotografia moderna