Laura Zalenga è nata nel 1990 a Ulm nel Baden‑Württemberg, Laura Zalenga cresce nel sud della Germania in un ambiente in cui l’architettura e la composizione dello spazio hanno un peso formativo determinante. Le fonti biografiche concordano sul fatto che l’artista abbia intrapreso studi di architettura presso la Technische Universität München (TUM) tra il 2010 e il 2014, un percorso che segnerà in modo indelebile il suo linguaggio visivo minimalista e la sua attenzione al rapporto tra soggetto e ambiente. Benché la sua pratica fotografica prenda forma già da adolescente, è nel periodo universitario che l’uso della fotocamera si trasforma in una vera e propria grammatica espressiva. Diversi profili professionali riferiscono che la scoperta della fotografia avvenga nella seconda metà degli anni 2000, con una rapida transizione verso l’autodidassi digitale e la sperimentazione sistematica sull’autoritratto, terreno privilegiato per sondare vulnerabilità, identità e auto‑rappresentazione.
Dopo la laurea, Zalenga sceglie la fotografia come attività principale, adottando fin dall’inizio un’ottica concettuale in cui l’autoritratto non è mai mero esercizio narcisistico, ma si configura come dispositivo epistemologico per mettere in relazione corpo, paesaggio e costruzione del senso. Il suo trasferimento a Rotterdam segna un periodo di intensa produzione e di crescente riconoscimento internazionale, sostenuto dalla diffusione delle sue immagini su blog e piattaforme di settore. In questa fase, la fotografa consolida un metodo progettuale fondato su serie tematiche, spesso incentrate su questioni sociali o tabù (dalla rappresentazione dell’età, alla salute mentale, alle istanze di giustizia ambientale), e su una gestione rigorosa del processo dall’ideazione alla post‑produzione digitale.
Nel triennio successivo cresce la rete di committenze, che comprende Adobe, Disney, Sony, United Nations, Fiat, Max Mara e testate come Die Zeit e Süddeutsche Zeitung. Queste collaborazioni non vanno lette come derive commerciali, ma come casi di studio in cui il suo ritratto contemporaneo mantiene intatta l’intenzione autoriale: chiarire concetti complessi mediante una costruzione scenica essenziale e una messa in quadro che fa dialogare la figura con elementi architettonici o morfologie naturali.
Il 2018–2019 rappresenta uno spartiacque: la selezione di Zalenga per l’Adobe Creative Residency le permette di sviluppare con maggiore continuità serie a lungo termine e un impianto metodologico ripetibile, integrando ricerca iconografica, storyboarding testuale (di particolare rilievo, date le dichiarazioni dell’artista sulla propria afantasia, ossia l’incapacità di generare immagini mentali) e un uso calibrato di luce naturale e artificiale. L’esperienza residenziale non solo conferma la sua maturità progettuale, ma legittima la dimensione processuale che caratterizza il suo lavoro, con esiti che influenzeranno i cicli creativi successivi.
Le esposizioni tra il 2011 e il 2025, distribuite fra spazi indipendenti e gallerie – con tappe a Hannover, Freiburg, Ulm, Monaco di Baviera, Stoccarda, Biberach, Berlino, Trieste e Zurigo – testimoniano la continuità della sua presenza sulla scena europea. Tra i momenti espositivi recenti spiccano “Beauty of Age” (vari allestimenti tra 2019 e 2024) e presenze in rassegne come PhotoSCHWEIZ. Questi appuntamenti mostrano come il suo impegno tematico si traduca in narrazioni visive coerenti, in cui la misurazione della luce, la scelta della focale e la relazione tra texture di pelle e texture di superfici naturali o architettoniche producono un’estetica misurata, lirica ma non retorica.
Dopo diversi anni a Rotterdam, Zalenga rientra a vivere nei pressi di Monaco, continuando a viaggiare per progetti e workshop. La sua attività pubblica include conferenze e corsi sull’autoritratto, con accento sulla sua funzione terapeutica, e sulla conceptualizzazione come strumento operativo: dall’estrazione del nucleo semantico di un’idea, alla scelta di location con geometrie leggibili in grado di amplificare il significato. La stessa autrice insiste sulla necessità di “far aderire il corpo all’ambiente”, non viceversa, a riprova di una poetica che sovverte la centralità dell’io in favore di una forma di empatia spaziale.
La disseminazione del suo lavoro in piattaforme editoriali e gallerie online – da LensCulture a circuiti di stampa in edizione limitata – ha ulteriormente codificato l’immagine di un’autrice capace di far coesistere rigore formale e intensità emotiva. In parallelo, interviste e profili di settore chiariscono aspetti tecnici e concettuali del suo iter, come l’attenzione alle linee di forza nella composizione e la predilezione per esiti cromatici freddi e desaturati, utili a comprimere la dimensione narrativa dentro una cornice essenziale.
In sintonia con una generazione di fotografi post‑digitale, la carriera di Zalenga si muove dunque all’intersezione tra autorialità e commissione, fra ricerca e applicazione, dimostrando come l’autoritratto terapeutico possa essere, a pieno titolo, un laboratorio storico‑tecnico in cui si sperimenta il rapporto tra dispositivo fotografico, corpo e immaginario collettivo.
Linguaggio visivo, tecnica e pratica
La cifra di Laura Zalenga si definisce a partire da un principio cardine: la fotografia come traduzione concettuale di un’idea in spazio, luce e corpo. Il suo linguaggio visivo minimalista non è un’estetica di sottrazione fine a sé stessa, ma il risultato di una pianificazione in cui ogni elemento visibile concorre alla leggibilità semantica dell’immagine. La formazione in architettura fornisce la matrice di questo metodo: ritmo, modulo, allineamento, griglie e assi non sono concetti ornamentali, bensì strutture portanti per organizzare il campo visivo; la profondità di campo viene calibrata per isolare piani informativi, mentre la sezione aurea e la regola dei terzi fungono da strumenti operativi più che da dogmi compositivi.
Sul piano tecnico, l’artista predilige una luce naturale diffusa, spesso in condizioni overcast o in prossimità dell’ora blu, al fine di ottenere una curva tonale morbida e una compressione dei contrasti che faciliti interventi puntuali in post‑produzione digitale senza produrre artefatti percettibili. Nei ritratti realizzati in esterno, il posizionamento della figura in relazione al background non obbedisce alla mera separazione dei piani, ma costruisce vettori direzionali: linee di orizzonte, spigoli architettonici, margini vegetali diventano guide che ancorano l’occhio e rivelano la struttura semantica della scena. Tali scelte rimandano a un’attenzione costante alla geometria del luogo, retaggio dell’esperienza universitaria e della pratica del rilievo visivo.
L’impiego dell’autoritratto come dispositivo privilegiato comporta una gestione particolare del workflow. Spesso Zalenga opera in autoscatto con telecomando o timer, ricorrendo a treppiede, testa fluida per micro‑regolazioni e talvolta a sistemi di messa a fuoco manuale pre‑impostata sulla distanza iperfocale o su un punto di fuoco marker posizionato nel set. In ambienti interni o in condizioni di luce complessa, compaiono sorgenti continue o piccoli flash modulati con diffusori e bank per non spezzare il carattere morbido della luce ambiente. La temperatura colore viene spesso controllata in ripresa con bilanciamento del bianco personalizzato, per preservare l’intonazione fredda e coerente con l’atmosfera emotiva cercata.
In post‑produzione, l’artista privilegia interventi localizzati: dodging & burning per scolpire i volumi, maschere di luminanza per preservare micro‑contrasto su pelle e tessuti, color grading tendenzialmente orientato a ciani e blu desaturati, con una gestione attenta dei canali per mantenere tonalità della pelle realistiche ma raffreddate. La correzione prospettica su elementi architettonici evita cadute di linea percepibili, mentre l’eventuale clonazione è ridotta a micro‑interventi per eliminare disturbi visivi senza sterilizzare il contesto. La grana è spesso contenuta o introdotta con sobrietà per evitare una lucidità eccessiva tipica del digitale e restituire una tessitura organica al file.
L’aspetto concettuale non è secondario al dispositivo: Zalenga definisce molti dei suoi scatti come “not‑my‑self portraits”, ossia autoritratti in cui la figura dell’autrice si de‑individualizza per incarnare un protagonista universale. È un ribaltamento rispetto a tradizioni di storia della fotografia in cui l’autoritratto ha spesso enfatizzato la firma dell’autore: qui l’immagine si apre a una lettura collettiva, sostenuta da posture archetipiche, gestualità ridotte all’essenziale e ambienti privi di riferimenti temporali troppo specifici. Tale strategia produce una ambiguità controllata che invita alla proiezione dello spettatore, mantenendo al contempo una coerenza di stile.
Un ulteriore livello di interesse riguarda il rapporto tra pratica fotografica e afantasia. In più occasioni, interviste e conversazioni pubbliche hanno messo in luce come l’artista, non potendo visualizzare mentalmente le immagini, costruisca i progetti tramite parole‑chiave, schemi testuali e descrizioni che guidano la successiva traduzione in immagine. Tale condizione non costituisce un limite, bensì una metodologia alternativa: il pre‑visualizzare diventa pre‑verbalizzare, e la fotografia opera come interfaccia per materializzare concetti, con un’accurata direzione di sé in scena. Questo dato biografico‑cognitivo spiega la chiarezza strutturale dei suoi lavori: la forma è il precipitato di un’elaborazione linguistica che si cristallizza in composizioni lucide e silenziosamente appassionate.
Il rapporto con i brand e le istituzioni conferma la flessibilità del suo impianto estetico: committenti quali Adobe e Disney chiamano in causa esigenze narrative specifiche, ma l’autrice mantiene controllo tonale, ritmo compositivo e eticità dello sguardo, specie quando affronta temi di inclusione, spettro di genere o invecchiamento. Anche nei progetti sponsorizzati, il registro emotivo resta sobrio; le scelte cromatiche favoriscono palette contenute, la simmetria viene impiegata come figura retorica per sottolineare concetti di equilibrio o tensione, e la gestione del negativo (porzioni di campo volutamente prive di informazione figurativa) amplifica la densità semantica.
Infine, la dimensione pedagogica della pratica – talks, workshop e residenze – si salda con un’idea di autoritratto terapeutico che non sostituisce il supporto professionale, ma offre una palestra di consapevolezza per l’individuo: mettersi davanti all’obiettivo, per Zalenga, significa indagare paure e desideri attraverso un processo iterativo di tentativi, errori e raffinamenti, in cui la tecnica non è mai slegata dall’etica della rappresentazione.
Le Opere principali
Una parte significativa della produzione di Laura Zalenga si articola in serie coerenti, veri e propri cantieri di ricerca in cui i singoli scatti assumono valore nel montaggio complessivo. Un progetto cardine è “Beauty of Age”, un’indagine pluriennale dedicata alla bellezza dell’età e alla rappresentazione dell’invecchiamento. Le immagini, spesso realizzate con luce naturale e palette sobrie, mettono in discussione la sovraesposizione della giovinezza nei media, costruendo ritratti in cui rughe e texture cutanee sono trattate come cartografie identitarie. Le esposizioni tra il 2019 e il 2024 – dallo spazio civico di Biberach a Berlino fino al Museo di Kürnbach – hanno consolidato il progetto come uno dei capitoli più riconoscibili del suo percorso, dimostrando la capacità dell’autrice di modulare distanza critica e intimità.
Un’altra opera‑chiave è “gender‑spectrum‑statue”, spesso indicata dall’artista come immagine favorita per la sua funzione discorsiva oltre la dimensione estetica. Qui la figura umana viene trattata come statua contemporanea: posa e simmetria rimandano a iconografie classiche, mentre la post‑produzione interviene per semplificare la tavolozza cromatica e rafforzare l’equilibrio tra pieni e vuoti. Il lavoro sull’ambiguità – né maschile né femminile in modo univoco – dialoga con le discussioni contemporanee sullo spettro di genere, dimostrando come il ritratto contemporaneo possa farsi soglia politica senza abdicare alla sobrietà formale.
La serie “Symmetry” sviluppa un’ossessione strutturale per l’asse e il ritmo; le inquadrature, spesso frontali, costruiscono campi bilaterali in cui il corpo si allinea ad architetture, recinzioni, cornici naturali. Simmetria non significa rigidità: attraverso micro‑scarti di postura e gesto, Zalenga introduce tensioni che impediscono la cristallizzazione in schema. Il risultato è un discorso sull’ordine come costrutto e non come dato, in cui la luce radente evidenzia spigoli e grane per restituire tridimensionalità senza ricorrere a contrasti estremi.
Tra i progetti concettuali ricorre spesso il tema dell’imperfezione – basti pensare a lavori aggregati sotto titoli come “imperfection” o “repurpose” – che affrontano la fragilità come motore estetico. Qui la post‑produzione è deliberatamente visibile in piccole suture digitali o cancellazioni strategiche, a ribadire che il file fotografico è un documento negoziato più che un idolo di verità. Il riuso di location e oggetti, la creazione di pattern con elementi poveri e l’uso del negativo come spazio semantico producono immagini in cui l’errore diventa metodo: cromie smorzate, trame evidenziate e micro‑sfocature sono scelte consapevoli per forzare la lettura.
Di segno complementare sono i lavori che rielaborano fiabe classiche – emblematico il ciclo legato ai Fratelli Grimm – dove Zalenga adotta un approccio riduzionista: pochi indizi iconici (un elemento di costume, un oggetto, una gestualità) bastano a evocare l’intero universo narrativo. Il controllo del punto di vista e della profondità di campo concentra lo sguardo su segni minimi; la tavolozza volutamente limitata guida la proiezione dello spettatore, trasformandolo in co‑autore del senso. Questa modalità ribadisce l’idea di fotografia concettuale come dispositivo che attiva l’immaginazione più che appagarla.
Nel contesto della commessa istituzionale o commerciale, opere e campagne per Artemide (si veda la narrazione sulla lampada Tolomeo) mostrano la capacità di piegare un oggetto di design a una drammaturgia luminosa di matrice naturalistica. Portare una fonte artificiale in ambiente boschivo non è una trovata spettacolare, ma un esperimento percettivo: verificare come la qualità della luce modifichi la lettura di un luogo e come il corpo si relazioni con una sorgente che, pur artificiale, viene integrata nella trama del paesaggio. Il risultato è un saggio di lighting design tradotto in immagine, con calibrature di temperatura colore e intensità che preservano la coerenza del quadro complessivo.
Vanno menzionati, infine, i lavori espositivi presso gallerie come Ingo Seufert (Monaco), dove mostre tra il 2014 e il 2024 hanno documentato l’evoluzione del suo alfabeto formale: dalla fase più dichiaratamente onirica, con cromie fredde e contrasti controllati che hanno fatto accostare la sua tavolozza a certe estetiche cinematografiche, alla stagione di sobrietà e riduzione in cui la narrazione si affida a micro‑gesti e micro‑differenze di postura. Questo arco consente di leggere per continuità ciò che a uno sguardo superficiale potrebbe apparire come cambiamento: in realtà, è la stessa tensione progettuale a spostarsi, adattando strumenti e figure retoriche al tema affrontato.
Se si osservano in sequenza “Beauty of Age”, “Symmetry”, “gender‑spectrum‑statue” e le ricerche sulla fiaba, emerge il nucleo della sua poetica: l’immagine come campo di forze in cui geometria, luce e corpo si vincolano in un equilibrio dinamico. La fotografia concettuale, in questo caso, non sacrifica mai la specificità tecnica – dalla scelta dell’angolo di campo alla densità del nero stampato, dalla risoluzione effettiva ai profili colore in uscita – poiché ogni variabile concorre alla funzione semantica dell’opera. È per questa ragione che molte immagini di Zalenga reggono la prova della riproduzione museale e della tiratura fine‑art a dimensioni generose, senza perdere incisività di dettaglio né coerenza cromatica.
Fonti
- Sito ufficiale – About
- Galleria Ingo Seufert – Biografia e mostre
- LensCulture – Profilo professionale
- MPB – Intervista tecnica
- My Modern Met – Intervista su serie fiabe
- Photointernational – Profilo e progetti
- Artemide – Case study Tolomeo
- YellowKorner – Profilo d’autore
- Portfolio ufficiale
- Great Big Photography World – Intervista e afantasia
Sono Manuela, autrice e amministratrice del sito web www.storiadellafotografia.com. La mia passione per la fotografia è nata molti anni fa, e da allora ho dedicato la mia vita professionale a esplorare e condividere la sua storia affascinante.
Con una solida formazione accademica in storia dell’arte, ho sviluppato una profonda comprensione delle intersezioni tra fotografia, cultura e società. Credo fermamente che la fotografia non sia solo una forma d’arte, ma anche un potente strumento di comunicazione e un prezioso archivio della nostra memoria collettiva.
La mia esperienza si estende oltre la scrittura; curo mostre fotografiche e pubblico articoli su riviste specializzate. Ho un occhio attento ai dettagli e cerco sempre di contestualizzare le opere fotografiche all’interno delle correnti storiche e sociali.
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Oltre al mio lavoro online, sono autrice di libri dedicati alla fotografia. La mia dedizione a questo campo continua a ispirare coloro che si avvicinano a questa forma d’arte. Il mio obiettivo è presentare la fotografia in modo chiaro e professionale, dimostrando la mia passione e competenza. Cerco di mantenere un equilibrio tra un tono formale e un registro comunicativo accessibile, per coinvolgere un pubblico ampio.


