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Shomei Tomatsu

Shōmei Tōmatsu nacque a Nagoya il 16 gennaio 1930 e morì a Naha, Okinawa, il 14 dicembre 2012. È considerato uno dei fotografi giapponesi più influenti del Novecento, noto per il suo approccio radicale alla fotografia documentaria e per la capacità di tradurre in immagini la complessità culturale e politica del Giappone del dopoguerra. La sua opera, spesso caratterizzata da un forte impatto visivo e da una ricerca formale che univa estetica sperimentale e testimonianza sociale, ha ridefinito la fotografia giapponese contemporanea.


Formazione e primi anni (1930–1959)

Shōmei Tōmatsu crebbe a Nagoya in un periodo storico segnato dalla militarizzazione e dalla devastazione della Seconda guerra mondiale. Adolescente durante i bombardamenti, sperimentò in prima persona la fragilità della condizione umana e la brutalità della guerra. Questo trauma segnerà profondamente la sua sensibilità e costituirà la matrice del suo linguaggio fotografico.

Dopo la fine del conflitto, il Giappone entrò in un processo di modernizzazione forzata sotto l’occupazione americana. In questo contesto, Tōmatsu si iscrisse all’Università di Aichi, laureandosi in economia nel 1954. La scelta di studi non rifletteva ancora la sua futura carriera artistica, ma proprio in quegli anni cominciò a interessarsi alla fotografia, avvicinandosi alla macchina fotografica come strumento di esplorazione personale.

La sua formazione fotografica fu inizialmente autodidatta: apprese le basi tecniche leggendo manuali, studiando riviste e osservando il lavoro di fotografi giapponesi già affermati, come Ken Domon. Tuttavia, mentre Domon perseguiva un realismo puro, Tōmatsu cercava un linguaggio più complesso, capace di esprimere la tensione interiore e l’ambiguità della realtà giapponese nel dopoguerra.

I suoi primi scatti riflettevano una doppia attenzione: da un lato la precisione tecnica, con l’uso di fotocamere 35mm come la Nikon S e successivamente la Leica M3, dall’altro la ricerca di forme visive capaci di andare oltre la semplice registrazione. Il suo approccio combinava rigore documentario e sperimentazione grafica, con un uso innovativo del contrasto tonale, dell’inquadratura obliqua e della messa a fuoco selettiva.

Nel 1954 iniziò a collaborare con la rivista Iwanami Shashin Bunko, entrando così nel mondo professionale. Queste prime esperienze gli permisero di affinare le competenze tecniche e di confrontarsi con la fotografia editoriale. Ma ben presto si rese conto che il linguaggio fotografico dominante, legato alla propaganda della ricostruzione nazionale, non era sufficiente a rappresentare la complessità e le contraddizioni del Giappone contemporaneo.

Negli anni Cinquanta cominciò a sviluppare i temi che lo avrebbero reso celebre: la memoria della guerra, le cicatrici dell’occupazione americana, il rapporto conflittuale tra tradizione e modernizzazione. Già in questa fase si nota la scelta di Tōmatsu di non limitarsi alla cronaca, ma di creare immagini metaforiche, simboliche, capaci di evocare stati d’animo e atmosfere, andando oltre la pura testimonianza.

La sua prima grande affermazione arrivò nel 1959, quando co-fondò con altri fotografi il collettivo VIVO, gruppo che includeva figure come Eikoh Hosoe e Ikko Narahara. VIVO rappresentò un laboratorio di sperimentazione, alternativo al fotogiornalismo tradizionale, che aprì la strada alla nuova fotografia giapponese degli anni Sessanta.


Hiroshima, Nagasaki e la memoria del trauma (1960–1970)

Negli anni Sessanta, Shōmei Tōmatsu si affermò come voce radicale della fotografia giapponese. In questo decennio sviluppò alcune delle serie più note e influenti, in particolare quelle dedicate agli effetti della bomba atomica e all’occupazione americana.

Uno dei lavori più celebri fu la serie “Nagasaki 11:02”, realizzata tra la fine degli anni Cinquanta e il 1966. Le fotografie mostravano non solo i sopravvissuti alla bomba atomica, ma anche gli oggetti quotidiani deformati dall’esplosione: orologi fusi, bottiglie di vetro contorte, edifici parzialmente distrutti. Attraverso questi dettagli, Tōmatsu riusciva a trasmettere l’impatto devastante della bomba in modo più incisivo di qualsiasi immagine d’insieme. Il titolo stesso, “11:02”, rimanda all’ora esatta dello scoppio, cristallizzando il trauma in una dimensione temporale precisa.

Dal punto di vista tecnico, queste fotografie si distinguevano per l’uso drammatico del bianco e nero ad alto contrasto. Le ombre profonde e le luci bruciate accentuavano il senso di violenza e di irreversibilità del trauma. La composizione era spesso serrata, con dettagli isolati che diventavano simboli universali della distruzione. Non si trattava di documentazione neutrale, ma di una visione soggettiva e poetica, capace di rendere la tragedia atomica un’esperienza estetica e meditativa.

Parallelamente, Tōmatsu si dedicò a documentare la presenza americana in Giappone, in particolare attraverso la serie “Chewing Gum and Chocolate” (1960–1970). Le immagini mostravano la vita quotidiana nei pressi delle basi militari americane, con soldati, bambini, simboli della cultura pop statunitense e segni della penetrazione culturale occidentale. Il titolo stesso alludeva ai doni degli occupanti ai bambini giapponesi, metafora di un rapporto ambiguo tra dominazione e seduzione.

In queste fotografie l’approccio tecnico era diverso rispetto a Nagasaki 11:02: pur mantenendo il bianco e nero, Tōmatsu sperimentava con l’inquadratura dinamica, il movimento e la vicinanza ai soggetti. L’obiettivo non era solo denunciare, ma anche cogliere l’ambiguità del rapporto tra due culture.

Il decennio si chiuse con la pubblicazione di alcuni libri fondamentali, tra cui “Nippon” (1967), che raccoglieva una panoramica del Giappone moderno, sospeso tra tradizione e occidentalizzazione. I suoi fotolibri erano pensati come opere d’arte totali, con un attento lavoro di sequenza e impaginazione, e divennero strumenti fondamentali per diffondere la sua visione.


Opere principali e sperimentazioni formali (1970–1990)

Gli anni Settanta e Ottanta furono caratterizzati da una continua sperimentazione. Dopo aver affrontato il tema della memoria bellica, Tōmatsu rivolse lo sguardo a nuove realtà sociali e culturali, consolidando il proprio ruolo di autore di riferimento.

Un ciclo importante fu quello dedicato a Okinawa, regione che, fino al 1972, rimase sotto controllo americano. Qui Tōmatsu documentò le contraddizioni di un territorio sospeso tra radici giapponesi e presenza militare straniera. Le sue fotografie mostravano paesaggi segnati da basi militari, giovani locali influenzati dalla cultura americana, ma anche tradizioni ancestrali resistenti alla modernizzazione.

Dal punto di vista tecnico, l’Okinawa di Tōmatsu segna una svolta: iniziò a utilizzare il colore, sperimentando pellicole come la Kodachrome, che gli consentivano di rendere con forza i contrasti cromatici tra uniformi militari, insegne pubblicitarie e paesaggi tropicali. Il colore, lungi dall’ammorbidire la drammaticità, accentuava il senso di straniamento e di collisione culturale.

In questo periodo pubblicò libri fondamentali come “Pencil of the Sun” (1975), una raccolta che univa immagini di Okinawa a riflessioni più ampie sulla condizione giapponese. La sequenza del libro, con il suo ritmo visivo e l’alternanza tra dettagli e panorami, mostra come per Tōmatsu il fotolibro fosse non solo un contenitore, ma un vero e proprio linguaggio narrativo.

Negli anni Ottanta continuò la sua esplorazione del Giappone contemporaneo, dedicandosi anche a tematiche più astratte. Le sue fotografie iniziarono a privilegiare texture, superfici, dettagli minimi, come se cercasse di leggere la realtà attraverso frammenti. Questa fase sperimentale gli consentì di rinnovare il proprio linguaggio, mantenendo un equilibrio tra documentazione sociale e ricerca formale.


Ultimi anni e riconoscimenti (1990–2012)

Negli ultimi due decenni della sua carriera, Shōmei Tōmatsu consolidò la propria fama internazionale, partecipando a esposizioni in Europa, negli Stati Uniti e in Asia. Le sue opere vennero esposte in istituzioni prestigiose come il Museum of Modern Art di New York e il Centre Pompidou di Parigi, e furono pubblicate in numerosi cataloghi retrospettivi.

In questi anni approfondì ulteriormente il lavoro su Okinawa, trasferendosi lì stabilmente. Le fotografie di quest’ultima fase mostrano una maggiore attenzione al paesaggio e alla natura, quasi un ritorno meditativo dopo le tensioni sociali e politiche delle serie precedenti. Le immagini a colori di alberi, spiagge, mare, mantengono però sempre un sottofondo critico: la bellezza naturale convive con la presenza ingombrante delle basi militari.

Sul piano tecnico, Tōmatsu continuò a utilizzare sia il bianco e nero che il colore, alternando formati diversi a seconda dei progetti. Negli ultimi anni fece ampio uso di pellicole a colori Fuji, molto diffuse in Giappone, e stampò le sue opere in formati sempre più grandi, assecondando la tendenza internazionale delle mostre fotografiche.

Nel 2011 il Tokyo Metropolitan Museum of Photography gli dedicò una grande retrospettiva, riconoscendolo come uno dei maestri assoluti della fotografia giapponese. Morì l’anno successivo a Okinawa, lasciando un’eredità che continua a influenzare fotografi e studiosi.

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