La storia di Olympus Corporation inizia nel 1919, quando Takeshi Yamashita fondò a Tokyo la ditta Takachiho Seisakusho, con l’obiettivo di realizzare strumenti scientifici di estrema precisione. Nel primo decennio di attività il focus era posizionato sulla produzione di microscopi ad alto ingrandimento e termometri clinici, impiegando leghe metalliche lavorate con tolleranze inferiori al centesimo di millimetro. Questo approccio di meccanica di precisione gettò le basi per la successiva espansione nel settore fotografico, poiché Olympus sviluppò tecnologie di microingranaggi e otturatori a lamelle che avrebbero trovato applicazione nelle prime fotocamere.
Già negli anni Venti, il management di Takachiho Seisakusho comprese il potenziale della fotografia professionale e amatoriale in rapida ascesa. I laboratori di ricerca vennero dotati di torni automatici e macchine per la rettifica di componenti ottici, sistemi che garantivano superfici perfettamente planari e circolari. La filosofia di controllo qualità adottata prevedeva test di durata sull’otturatore fino a centinaia di migliaia di cicli, soglie di scarto incisive e analisi metallurgiche dei componenti critici.
Nel 1933, l’azienda venne rinominata Olympus, richiamando il mitico monte greco e simboleggiando la volontà di raggiungere l’apice dell’innovazione tecnica. A questo punto la compagine industriale investì nello sviluppo di un otturatore a tendina in tessuto metallico, caratterizzato da tempi di sincronizzazione fino a 1/1000 di secondo e variabilità di diaframma comandata da selettore micrometrico. L’esperienza maturata nella produzione di microscopi consentì di gestire con efficacia il rivestimento antiriflesso delle superfici ottiche, ottenuto mediante evaporazione di ossidi su vetri ad alta rifrazione.
Durante il periodo bellico la produzione si orientò verso strumenti per applicazioni mediche e militari, ma già alla fine degli anni Trenta Olympus annunciava il proprio ingresso nel mercato delle fotocamere. La solidità del telaio in lega leggera, l’affidabilità dell’otturatore e l’alta qualità dei materiali divennero i tratti distintivi dei primi prototipi. Il know-how ingegneristico sviluppato nei laboratori di Tokyo avrebbe rappresentato la componente differenziante rispetto ai concorrenti europei e americani, segnando l’inizio di una tradizione tecnologica ininterrotta.
Fil rouge di questo primo capitolo è la capacità di unire meccanica di precisione con un approccio scientifico alla qualità ottica. L’esperienza nel settore biomedicale fornì competenze uniche nella lavorazione dei componenti, applicate – con adattamenti – alla costruzione di corpi macchina, otturatori e meccanismi di avanzamento film. La fondazione di Olympus non rappresentò soltanto la nascita di un marchio, ma l’avvio di una linea di ricerca mirata a coniugare esigenze industriali e sperimentazioni ottiche, al servizio di un pubblico che richiedeva prestazioni altamente ripetibili e standard qualitativi elevati.
La progressione tecnologica nei primi venti anni di Olympus gettò le basi per il successivo lancio di fotocamere rivoluzionarie. Le competenze di finitura dei metalli, il design modulare dei componenti e l’approccio sistemico alla progettazione gli permisero di consolidarsi negli anni successivi come uno dei leader mondiali nella fotografia, anticipando tendenze di miniaturizzazione e integrazione tra hardware e ottica che avrebbero caratterizzato l’intero Novecento.
I primi passi nella fotografia: dal prototipo al Semi-Olympus I
La transizione di Olympus dal settore scientifico alla fotografia amatoriale non fu un passaggio casuale, ma il risultato di un percorso accuratamente pianificato. Nel 1936 venne prodotto il primo prototipo noto come Semi-Olympus I, una fotocamera a telemetro con otturatore a lamelle e corpo in ottone cromato. Il cuore meccanico era costituito da una ruota dentata a profilo elicoidale, studiata per garantire spostamenti uniformi del cieco dell’otturatore e ridurre vibrazioni durante lo scatto. Questo prototipo impiegava un diaframma a lamelle metalliche a sei lamelle con apertura variabile da f/2.8 a f/22 e una lunghezza focale fissa di 8,5 cm, scelta per un compromesso tra resa ottica e dimensioni compatte.
Le fasi di sviluppo del Semi-Olympus I coinvolgevano cicli ripetuti di simulazione dell’usura, test ambientali in camere climatiche e verifiche di tenuta alla polvere. Il fondello apribile, che consentiva la sostituzione del rullino da 35 mm, era dotato di un sistema di guarnizioni in gomma sintetica termoindurente, in grado di mantenere stabile la pressione interna e prevenire l’ingresso di particelle. Questo livello di attenzione alle guarnizioni trovava paralleli nei progetti di strumenti medici, dove la sterilizzazione e l’assenza di contaminanti erano condizioni imprescindibili.
Nella seconda metà degli anni Quaranta, a seguito del consolidamento della domanda di fotocamere, Olympus introdusse un meccanismo di misurazione dell’esposizione con una cellula al seleniuro di cadmio (CdS). L’esposimetro integrato era posizionato in corrispondenza del pentaspecchio, garantendo una lettura diretta del flusso luminoso. La calibrazione di fabbrica prevedeva l’uso di sorgenti emettenti 5500 K, con un margine di errore inferiore al 5% sulle letture tra EV-2 e EV+15. Questa precisione rappresentava un salto qualitativo rispetto ai misuratori esterni, in quanto consentiva una determinazione dell’esposizione in tempo reale, integrata all’ergonomia del mirino.
La robustezza del corpo macchina e l’affidabilità dell’otturatore promossero l’immagine di Olympus come brand orientato alla durata nel tempo. I fotografi professionisti apprezzarono la resistenza a temperature estreme e la continuità dei tempi di scatto sequenziali, fino a 3 fotogrammi al secondo, un valore notevole per l’epoca. La saldatura del pentaspecchio in lega di alluminio ad alta luminosità favorì una visione chiara del soggetto, con una copertura del 95% del fotogramma e un ingrandimento di 0,90×.
Il passaggio da un prototipo a una fotocamera di produzione di massa non avvenne però senza sfide. La standardizzazione dei processi produttivi richiese l’introduzione di impianti automatizzati per la rettifica delle camme di otturatore e per il taglio delle lamelle metalliche, oltre a strumenti di collaudo ottico in linea con normative ISO 10110 per tolleranze geometriche e di rugosità superficiale. Grazie a questi investimenti Olympus poté garantire un’affidabilità superiore alla media dei concorrenti e una coerenza nelle prestazioni tra esemplari diversi dello stesso modello.
L’evoluzione tecnica del Semi-Olympus I costituì dunque il primo fondamentale mattoncino nella storia fotografica di Olympus, ponendo le premesse per le famiglie di modelli che portarono il marchio a conquistare riconoscimenti internazionali e a entrare stabilmente nell’immaginario dei professionisti.
La serie OM: rivoluzione nel design e nella meccanica di precisione
Nel 1972 Olympus lanciò la serie OM-System, nata dalla mente dell’ingegnere Yoshihisa Maitani e caratterizzata dall’intento di creare una fotocamera reflex 35 mm estremamente compatta, leggera e versatile. Il modello di riferimento, l’OM-1, pesava appena 510 grammi senza obiettivo ed era realizzato con un corpo in lega di magnesio pressofuso dallo spessore medio di soli 1,5 mm. Questo risultato fu possibile grazie all’uso di tecniche di analisi agli elementi finiti applicate alla progettazione degli stampi, assicurando massima resistenza alle torsioni pur riducendo il peso complessivo.
Il rivoluzionario sistema di specchio semitrasparente adottato dalla serie OM-System impiegava un prisma a tetto in vetro ottico BK-7, con rivestimento dielettrico multistrato per ridurre le riflessioni residue sotto lo 0,5%. La traiettoria della luce veniva deviata con precisione verso il pentaprisma, garantendo una copertura del 100% e un ingrandimento di 0,92×. La corsa dello specchio era controllata mediante un ammortizzatore pneumatico in fluoroelastomero, in grado di assorbire i picchi di vibrazione senza compromettere la stabilità geometrica.
Il cuore elettronico dell’OM-1 era costituito da un otturatore verticale a tendina metallica, con tempi selezionabili da 1 secondo a 1/1000 di secondo più la posa B, e sincronizzazione flash fino a 1/60 di secondo. La regolazione dei tempi era gestita da un comando micrometrico con 12 tacche, per variazioni incrementali di 1/3 di stop, mentre il meccanismo di preselezione del diaframma azionava un leveraggio a camma che garantiva una risposta istantanea all’apertura massima al momento dello scatto.
Sul piano ottico, la serie OM-System introdusse il sistema di baionetta bayonet OM, realizzato in acciaio inossidabile temperato, con 7 contatti elettrici che consentivano la comunicazione bidirezionale tra corpo macchina e obiettivo. Questa interfaccia supportava il trasferimento di dati relativi alla distanza di messa a fuoco, all’apertura selezionata e alla correzione dell’esposizione AE a priorità diaframma, segnando un passo avanti rispetto ai sistemi meccanici a contatti singoli diffusi fino ad allora.
Dal punto di vista ergonomico, l’impugnatura ribassata e la disposizione dei comandi modulare permisero un posizionamento naturale del pollice e dell’indice. Il selettore dei tempi era collocato sul piano superiore, affiancato al selettore ISO/ASA, mentre la scelta del metodo di misurazione (media pesata o spot a 12% del fotogramma) avveniva tramite una ghiera interna al mirino. Il bilanciamento del corpo macchina e l’ottimizzazione della distribuzione dei pesi facilitarono l’uso con obiettivi di grande diametro, contribuendo a rendere la serie OM un riferimento per la fotografia naturalistica e di reportage.
Le dimensioni contenute e l’affidabilità estrema promossero la serie OM nel circuito professionale. Olympus continuò a evolvere la gamma con modelli quali l’OM-2, dotato di misurazione esposimetrica TTL a preselettore di diaframma, e l’OM-4, che integrava un esposimetro multizona a 12 letture e una batteria al litio per alimentare circuiti elettronici a basso consumo. Questa progressione tecnica, unita alla linea compatta dell’OM-System, consolidò il marchio come pioniere nel design reflex, dimostrando la validità di un approccio che privilegiava la qualità costruttiva all’ingombro complessivo.
Gli obiettivi Zuiko e le tecnologie di rivestimento delle lenti
Fin dalle prime fotocamere, Olympus associò al corpo macchina la propria gamma di obiettivi Zuiko, sviluppati internamente con un approccio sistemico fra meccanica, ottica e trattamento delle superfici. Il nome “Zuiko” rimanda alla tradizione giapponese, combinando il termine “zuì” (eccellenza) con “kō” (lente). La progettazione ottica impiegava formule Gauss modificate, con componenti a doppietto collato e gruppi flottanti per compensare le aberrazioni cromatiche.
A partire dagli anni Settanta, l’introduzione di vetri ad alta rifrazione e bassa dispersione (vetri ED, Extra-Low Dispersion) permise di ridurre drasticamente l’abbagliamento cromatico ai bordi del fotogramma. Il disegno ottico del celebre Zuiko 50 mm f/1.8 comprendeva due lenti ED e una lente asferica, per garantire un contrasto elevato anche a tutta apertura, con un MTF (Modulation Transfer Function) superiore allo 0,7 a 30 cicli/mm fino a f/4.
Le superfici di ogni elemento venivano sottoposte a trattamenti multistrato antiriflesso, mediante deposizione di strati alternati di ossidi di magnesio e di zirconio. Questo processo, realizzato in camere di evaporazione a vuoto, assicurava una trasmissione luminosa superiore al 99,5% per superficie e una riduzione dei flare e delle immagini fantasma sotto il 0,2%. Le piastrine di vetro passavano per fasi di rugosimetro ottico, verificando una rugosità media inferiore a 2 nm Ra, condizione essenziale per l’adesione uniforme dei coating.
La meccanica interna degli obiettivi Zuiko fu curata con la medesima attenzione riservata ai corpi macchina. Il barilotto era costruito in alluminio tornito con tolleranze di distanza delle lenti inferiori a ±5 µm, garantendo costanza del collasso durante la messa a fuoco. Le filettature di supporto del gruppo di diaframma erano lavorate con un passo di 0,25 mm, per assicurare una regolazione fluida e priva di gioco. Questo livello di precisione ottico-meccanica fu mantenuto anche sulle serie successive, come gli Zuiko Digital dedicati ai sensori 4/3, dove il back focus era calibrato a 38,67 mm con uno scarto massimo di 3 µm.
Con l’evoluzione dei materiali, Olympus sperimentò vetri a indice di rifrazione ultra-alto (n>1,9) e lenti a superficie libera realizzate con macchine CNC a 5 assi. Queste innovazioni permisero di ottenere design ottici più compatti e di ridurre la curvatura delle superfici, minimizzando le aberrazioni laterali senza ricorrere a elementi aggiuntivi. Le serie aggiornate Zuiko Pro includono elementi in fluoruro di cerio per incrementare la resistenza ai graffi e alle variazioni termiche, enfatizzando la durevolezza in ambienti gravosi.
Nel complesso, lo sviluppo degli obiettivi Zuiko riflette la filosofia di integrazione tra ricerca ottica e ingegneria dei materiali. Le tecnologie di rivestimento, i vetri di nuova generazione e la cura meccanica hanno contribuito a consolidare Olympus non solo come produttore di corpi macchina, ma come partner rispettato nel mondo delle ottiche professionali, con capacità di anticipare tendenze nella correzione delle aberrazioni e nella gestione delle superfici.
L’era digitale: dal sistema E all’introduzione del Micro Quattro Terzi
Il passaggio al digitale fu affrontato da Olympus con la stessa meticolosità che aveva caratterizzato l’era analogica. Nel 2003 venne presentato il sistema E-1, il primo DSLR Olympus, dotato di un sensore CCD da 5 megapixel prodotto da Kodak. Il design del corpo si ispirava alla serie OM, riproponendo l’ergonomia e il layout dei controlli, ma integrando un display LCD da 1,8 pollici e una interfaccia di menu basata su processore TruePic PC1100. La baionetta rimanque la OM, modificata per includere contatti elettrici in grado di gestire file RAW (.orf) a 12 bit.
Nel 2008, in collaborazione con Panasonic, Olympus lanciò il formato Micro Quattro Terzi, rivoluzionando il concetto di mirrorless. Il sensore Live MOS da 17,3×13 mm offriva un pixel pitch di 4,3 µm, con una densità di 12 megapixel nel corpo compatto. L’eliminazione del pentaprisma permise di ridurre lo spessore del corpo di oltre 30 mm rispetto a una DSLR tradizionale, mantenendo la stessa distanza flange-to-sensor di 20 mm. Il mount a baionetta implementava un fissaggio a quattro agganci rapidi e 10 contatti elettrici, per gestire autofocus, stabilizzazione e apertura.
Il sistema di stabilizzazione in-body (IBIS) a 5 assi fu un’altra innovazione di punta: basato su giroscopi MEMS e attuatori piezoelettrici, il meccanismo spostava il sensore su piani X, Y e ruotazioni attorno agli assi tilt e roll, compensando vibrazioni fino a 5 stop. Questo approccio differiva da sistemi in-lens, poiché consentiva l’uso di qualsiasi obiettivo MFT, anche adattato da sistemi legacy, con piena compatibilità IBIS.
Sul fronte autofocus, Olympus introdusse il contrast-detect di seconda generazione, con 35 zone a rilevamento di fase integrate nel sensore Live MOS. L’algoritmo di tracking sfruttava letture a 240 Hz, permettendo una messa a fuoco continua rapida anche con obiettivi manual focus adattati. La visione elettronica nel mirino (EVF) offriva copertura del 100% e un refresh rate di 60 fps, con latenza inferiore a 10 ms, riproducendo fedelmente l’istogramma in tempo reale.
Il processore TruePic V supportava la riduzione del rumore multi-pattern, l’High Dynamic Range in-camera e la gestione avanzata dei colori. Grazie alla potenza di calcolo, Olympus implementò modalità creative come Live Bulb, Live Time e Focus Bracketing direttamente nel firmware, evitando accessori esterni. Il corpo macchina comunicava via USB 2.0 e, a partire dal 2011, tramite Wi-Fi integrato (802.11b/g), rendendo possibili scatto remoto e trasferimento file su smartphone con app dedicata.
Con la serie PEN e successivamente con la OM-D, Olympus affinò la gamma MFT fino a sensori da 20 MP, processori TruePic VII e VIII, EVF da 2,36 milioni di pixel e mirini OLED ad alta fedeltà. Questa evoluzione mantenne salda la filosofia di compattezza e funzionalità avanzata, elevando Olympus a uno dei protagonisti del mercato mirrorless e consolidando l’esperienza centenaria nel settore fotografico.
Integrazione software-hardware e innovazioni firmware
La filosofia di Olympus ha sempre privilegiato un’integrazione profonda tra hardware e software, per ottimizzare le prestazioni sul campo. Il firmware delle macchine digitali è sviluppato internamente con linguaggi a basso livello, per garantire tempi di risposta nell’interfaccia utente inferiori a 50 ms. Le routine di elaborazione RAW sfruttano librerie ottimizzate in C++, con pipeline parallele su core dedicati, in grado di processare un file da 20 megapixel in meno di 500 ms.
Gli aggiornamenti firmware, rilasciati gratuitamente, spesso introducono nuove funzionalità quali Focus Stacking, che combina automaticamente fino a 15 scatti con differente piano di messa a fuoco, e High Res Shot, tecnica che muove il sensore a mezzipixel per creare un file da 50-80 megapixel. Questi algoritmi sfruttano motori passo-passo ad alta precisione e giroscopi interni per stabilizzare lo spostamento del sensore, ottenendo risultati nitidi anche in condizioni di scarsa luce.
L’app Olympus Workspace funge da complemento desktop, offrendo gestione RAW con profili di lente basati su database di oltre 100 modelli Zuiko. Il software applica automaticamente correzioni di distorsione, vignettatura e aberrazione cromatica, calcolate a partire da matrici di calibrazione derivate da test ottici in cassette URAM. Il supporto per tethering avviene tramite protocollo PTP/IP, mentre l’interfaccia a menu delle fotocamere si articola in schede personalizzabili, consentendo all’utente di definire macro personalizzate e scorciatoie per le funzioni più usate.
Il dialogo tra sensore, processore e storage massimizza l’efficienza: l’accesso a schede UHS-II viene gestito tramite controller SD a bassa latenza, mentre il buffer interno è suddiviso in segmenti dinamici, in modo da garantire continuità di scatto fino a 20 fotogrammi raw in sequenza. L’ottimizzazione termica è resa possibile da dissipatori in rame posto sotto la scheda madre, che mantengono stabile la temperatura del processore anche durante lunghe sessioni di video 4K a 30 fps.
La costante evoluzione del firmware e l’attenzione al feedback degli utenti hanno permesso a Olympus di introdurre soluzioni come la sillabazione del tracciamento AF, la messa a fuoco Spot il più piccola possibile (circa 1,2% del fotogramma) e la personalizzazione avanzata dei comandi touch screen sui modelli più recenti. Questo approccio sistemico conferma la volontà di Olympus di unire ingegneria ottica, design meccanico e potenza di calcolo, mantenendo la fotocamera come fulcro di un ecosistema in grado di supportare creatività e produttività.