Mary Ellen Mark nacque a Filadelfia, Pennsylvania, il 20 marzo 1940 e morì a New York il 25 maggio 2015. Fotografa statunitense di fama internazionale, è considerata una delle più importanti rappresentanti della fotografia documentaria e umanista del secondo Novecento. Il suo lavoro si è concentrato sulla rappresentazione di comunità marginali, realtà sociali difficili e vite al limite, con un approccio che univa la forza della testimonianza giornalistica alla profondità psicologica del ritratto.
Formazione e primi anni (1940–1965)
Mary Ellen Mark crebbe in una famiglia della media borghesia americana, in un contesto che, pur non essendo legato al mondo dell’arte, le garantì una formazione culturale solida. Durante l’adolescenza sviluppò un forte interesse per il disegno e la letteratura, ma fu solo all’università che si avvicinò alla fotografia. Dopo aver conseguito una laurea in pittura e storia dell’arte presso la University of Pennsylvania, decise di proseguire gli studi con un master in fotografia fotogiornalistica alla stessa università, completato nel 1964.
Il periodo degli studi universitari fu determinante: Mark venne a contatto con le teorie estetiche sul ruolo sociale della fotografia, maturando la convinzione che la macchina fotografica potesse essere uno strumento di esplorazione etica oltre che visiva. A differenza di altri giovani fotografi dell’epoca, più orientati alla sperimentazione formale, Mary Ellen Mark scelse di approfondire la tradizione del documentary photography americano, erede della lezione di autori come Walker Evans e Dorothea Lange, ma aggiornato al clima culturale degli anni Sessanta, caratterizzato da tensioni sociali e rivendicazioni politiche.
Durante il master ebbe accesso a strumentazioni avanzate: dalle fotocamere medio formato Rolleiflex e Hasselblad alle reflex 35mm, come la Nikon F, che divennero il suo principale strumento di lavoro sul campo. In questi anni sviluppò una predilezione per il bianco e nero ad alto contrasto, che le permetteva di restituire con chiarezza sia la durezza delle situazioni documentate sia la complessità emotiva dei soggetti.
Nel 1965 vinse una borsa di studio Fulbright che le permise di recarsi in Turchia e in diversi Paesi del Medio Oriente. Questo viaggio segnò il suo debutto internazionale, dandole l’occasione di affinare un approccio immersivo: non fotografava come osservatrice distante, ma cercava di stabilire relazioni profonde con le persone incontrate, costruendo fiducia e intimità, che diventavano parte integrante dell’immagine. Le sue prime fotografie turche, pur meno celebri, sono già caratterizzate da una tensione narrativa che diventerà il tratto distintivo della sua opera.
Fotogiornalismo e prime affermazioni (1965–1975)
Al suo ritorno negli Stati Uniti, Mary Ellen Mark iniziò una carriera professionale che la portò a collaborare con importanti riviste internazionali, tra cui Life, Look, The New York Times Magazine e Rolling Stone. Era il periodo in cui il fotogiornalismo illustrato viveva una stagione di grande prestigio, e Mark riuscì a imporsi grazie alla capacità di coniugare sensibilità narrativa e rigore documentario.
Un tratto fondamentale del suo lavoro era l’approccio al soggetto: Mary Ellen Mark passava lunghi periodi con le persone che decideva di fotografare, costruendo rapporti umani che si riflettevano nella naturalezza e nella profondità dei ritratti. Questa metodologia la distingueva dai fotografi che si limitavano a scatti rapidi, tipici del reportage veloce. Mark non aveva fretta: per lei il tempo era parte integrante della fotografia.
Dal punto di vista tecnico, in questi anni affinò l’uso della Nikon F e successivamente della Leica M4, strumenti che le garantivano velocità, silenziosità e qualità ottica eccellente. Prediligeva obiettivi fissi a focale corta o normale (28mm, 35mm, 50mm), che le consentivano di stare fisicamente vicina ai soggetti, rispettando la sua filosofia di immersione totale. Il formato 35mm si rivelò ideale per raccontare le strade, i quartieri marginali e gli ambienti difficili che prediligeva.
La notorietà crebbe quando iniziò a documentare movimenti sociali e proteste politiche, tra cui quelle contro la guerra del Vietnam. Tuttavia, la sua attenzione non si concentrava sugli eventi di massa, ma sugli individui, spesso giovani emarginati, tossicodipendenti, prostitute, persone che vivevano ai margini. Le sue fotografie non avevano mai un tono sensazionalista, bensì uno sguardo empatico e partecipe.
Nel 1972 realizzò una delle prime serie che la resero celebre: “Ward 81”, un lavoro sugli ospedali psichiatrici femminili in Oregon, nato durante le riprese del film Qualcuno volò sul nido del cuculo, a cui aveva collaborato come fotografa di scena. La serie mostrava con crudezza e delicatezza la vita quotidiana delle pazienti internate, inaugurando uno dei filoni centrali della sua opera: l’attenzione al disagio mentale e alle istituzioni totali.
Questi primi anni di carriera consolidarono la reputazione di Mary Ellen Mark come fotografa dotata di una visione etica oltre che estetica. Le sue immagini non si limitavano a descrivere ma obbligavano lo spettatore a porsi domande sulla società, sulle condizioni di vita e sul concetto stesso di normalità.
Maturità e grandi reportage (1975–1990)
Gli anni compresi tra la metà degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta rappresentarono la fase di piena maturità per Mary Ellen Mark. In questo periodo realizzò alcuni dei reportage più celebri, caratterizzati da un’intensità visiva e da una profondità umana che la consacrarono tra i grandi del fotogiornalismo mondiale.
Un lavoro emblematico fu “Streetwise” (1983), commissionato da Life. Il reportage documentava la vita dei bambini di strada a Seattle, molti dei quali coinvolti in attività di prostituzione, furti e consumo di droga. Mark trascorse mesi insieme a loro, guadagnandosi la fiducia dei ragazzi e delle ragazze che ritraeva. Le immagini risultanti, in bianco e nero e caratterizzate da un forte contrasto tonale, restano tra le più potenti testimonianze fotografiche sull’infanzia marginale negli Stati Uniti del tardo Novecento.
Un aspetto interessante del progetto Streetwise fu la collaborazione con il marito di Mark, il regista Martin Bell, che ne realizzò un documentario omonimo. La sinergia tra immagini statiche e filmiche rese l’opera ancora più incisiva e mostrò la versatilità del linguaggio di Mary Ellen Mark, capace di dialogare con altri media.
Dal punto di vista tecnico, in questi anni Mark iniziò a lavorare sempre più spesso anche con il medio formato Hasselblad 6×6, soprattutto per i ritratti. Il formato quadrato le consentiva una maggiore solennità compositiva, accentuando il confronto diretto con i soggetti. Per i reportage dinamici preferiva ancora la Leica 35mm, ma per i lavori più riflessivi e posati il medio formato divenne centrale.
Un altro progetto fondamentale fu “Falkland Road” (1981), reportage realizzato nei bordelli di Bombay. Mary Ellen Mark trascorse settimane nelle case chiuse, vivendo insieme alle donne fotografate. Le immagini, in questo caso a colore, colpiscono per l’intensità cromatica e per la crudezza della rappresentazione. Falkland Road dimostrò che Mark sapeva utilizzare il colore con la stessa forza narrativa del bianco e nero, adattando la scelta tecnica al contesto e alle necessità espressive.
In parallelo ai reportage, continuò la collaborazione con il cinema come fotografa di scena. Lavorò sui set di film celebri come Apocalypse Now di Francis Ford Coppola e Tootsie di Sydney Pollack, affinando una sensibilità per la drammaturgia che si rifletteva anche nelle sue immagini documentarie.
Il tratto distintivo della maturità artistica di Mary Ellen Mark fu la capacità di muoversi tra ambiti diversi – fotogiornalismo, ritratto, fotografia di scena – mantenendo sempre una coerenza etica e stilistica. Le sue fotografie erano immediatamente riconoscibili: intense, partecipi, caratterizzate da una composizione rigorosa e da un’attenzione profonda agli occhi e ai gesti dei soggetti.
Ultimi progetti e insegnamento (1990–2015)
Negli ultimi decenni della sua carriera, Mary Ellen Mark continuò a produrre lavori di grande rilevanza, pur spostando progressivamente l’attenzione dall’attualità bruciante al ritratto a lungo termine. Si dedicò a progetti che richiedevano tempi estesi, spesso sviluppati nell’arco di anni, confermando la sua idea che la fotografia fosse un processo di relazione e non di semplice registrazione.
Uno dei cicli più noti di questo periodo fu “Twins” (2003), una raccolta di ritratti di gemelli realizzati in occasione del Twins Days Festival in Ohio. Le immagini, prevalentemente in medio formato e a colori, esploravano le dinamiche identitarie e psicologiche del doppio, mostrando ancora una volta l’interesse di Mark per le marginalità, in questo caso non sociali ma esistenziali.
Continuò inoltre il lavoro su temi difficili come la prostituzione minorile, la tossicodipendenza e la povertà, alternando progetti personali a commissioni per riviste e istituzioni. Dal punto di vista tecnico, in questi anni utilizzò anche il grande formato 4×5 per i ritratti ambientati, che le permetteva di ottenere una qualità di dettaglio superiore e una presenza quasi scultorea dei soggetti.
Parallelamente all’attività fotografica, Mary Ellen Mark si dedicò con grande intensità all’insegnamento. Tenette workshop e seminari in tutto il mondo, diventando una delle figure più influenti nella formazione delle nuove generazioni di fotografi documentaristi. Il suo approccio didattico non si limitava alla tecnica, ma insisteva sulla necessità di sviluppare empatia, rispetto e responsabilità etica nei confronti dei soggetti fotografati.
Negli ultimi anni la salute cominciò a declinare, ma Mark continuò a lavorare fino a pochi mesi dalla morte. Il suo archivio, immenso, testimonia una carriera lunga cinque decenni e un impegno costante a raccontare la condizione umana nelle sue forme più complesse.
Si spense a New York nel 2015, all’età di 75 anni, lasciando un’eredità che ha segnato profondamente la fotografia contemporanea.
Mi chiamo Marco Americi, ho circa 45 anni e da sempre coltivo una profonda passione per la fotografia, intesa non solo come mezzo espressivo ma anche come testimonianza storica e culturale. Nel corso degli anni ho studiato e collezionato fotocamere, riviste, stampe e documenti, sviluppando un forte interesse per tutto ciò che riguarda l’evoluzione tecnica e stilistica della fotografia. Amo scavare nel passato per riportare alla luce autori, correnti e apparecchiature spesso dimenticate, convinto che ogni dettaglio, anche il più piccolo, contribuisca a comporre il grande mosaico della storia dell’immagine. Su storiadellafotografia.com condivido ricerche, approfondimenti e riflessioni, con l’obiettivo di trasmettere il valore documentale e umano della fotografia a un pubblico curioso e appassionato, come me.


