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La Storia della FotografiaLa Fotografia subacquea

La Fotografia subacquea

È stata definita la prima fotografia subacquea mai scattata, nonché il primo ritratto sottomarino, e dietro questa definizione si cela una storia ricca di innovazione tecnica e di sperimentazione audace. L’immagine in questione, realizzata nel lontano 1899 dal fotografo francese Louis Marie-Auguste Boutan, ha segnato una svolta decisiva non solo nella documentazione del mondo sommerso, ma anche nello sviluppo di dispositivi che ancora oggi influenzano la fotografia subacquea.

Le informazioni disponibili sull’immagine sono scarse e frammentarie, ma ciò che emerge è un quadro in cui scienza, ingegneria e arte si intrecciano. La persona ritratta, il biologo e oceanografo romeno Emil Racovitza, fu scelta non per ragioni estetiche ma per la sua funzione di ricercatore, sottolineando il doppio scopo di questa disciplina nascente: documentazione scientifica e progresso tecnologico.

Louis Marie-Auguste Boutan nacque il 6 marzo 1859 a Versailles. Studiò biologia marina presso la Stazione di Ricerca Marittima Arago di Banyuls-sur-Mer, nel sud della Francia. In quel laboratorio naturale iniziò a sperimentare l’applicazione della fotografia come strumento di indagine scientifica. Qui mise a punto la prima vera macchina fotografica subacquea, realizzata intorno al 1893, che utilizzava lastre fotografiche a secco.

Il problema principale era la scarsità di luce. L’acqua assorbe progressivamente le lunghezze d’onda: il rosso sparisce dopo pochi metri, lasciando predominare blu e verde. Senza fonti artificiali, le esposizioni potevano superare i 30 minuti, rendendo impossibile immortalare soggetti in movimento. Boutan comprese che per superare questa barriera serviva non solo una fotocamera sigillata, ma anche una fonte luminosa capace di vincere l’oscurità sottomarina.

La svolta arrivò nel 1899, quando insieme al fratello Auguste e al tecnico Giuseppe David inventò un rudimentale flash subacqueo. Si trattava di una lampada ad alcool che faceva esplodere una miscela di polvere di magnesio e ossigeno, contenuta in una botte da 200 litri. Questa “bomba luminosa” ridusse i tempi di esposizione da mezz’ora a pochi secondi. L’ingegno stava nella capacità di ottenere una combustione controllata, calibrando la luminosità ed evitando sovraesposizioni. Il dispositivo era rischioso, ma aprì la strada alla fotografia subacquea moderna.

Boutan pubblicò le sue ricerche nel volume “La photographie sous-marine et les progrès de la photographie” (1900), che ancora oggi è considerato un testo fondativo per chi studia la storia tecnica della fotografia. La sua opera mostra come la fotografia subacquea sia nata non come curiosità artistica, ma come strumento scientifico destinato a documentare con precisione ecosistemi invisibili all’occhio umano.

La prima foto subacquea della storia – immagine di dominio pubblico tramite Wikipedia
La prima foto subacquea della storia – immagine di dominio pubblico tramite Wikipedia

La sfida tecnica della luce e della riproduzione dei colori

Uno degli aspetti più complessi della fotografia subacquea riguarda la fisica della luce. L’acqua non è un mezzo neutro: assorbe e diffonde le radiazioni elettromagnetiche in modo selettivo. A pochi metri dalla superficie, il rosso scompare; a dieci metri il giallo diventa indistinguibile; a venti metri sopravvivono solo il blu e il verde. Questo significa che un oggetto rosso fotografato in profondità apparirà nero o grigio, a meno che una fonte di illuminazione artificiale non restituisca lo spettro mancante.

Per i pionieri come Boutan, che utilizzavano lastre con sensibilità estremamente limitata, questo problema era amplificato. Le emulsioni fotografiche all’alogenuro d’argento erano poco sensibili alle lunghezze d’onda corte e, quindi, incapaci di registrare fedelmente le tonalità blu. L’introduzione del flash non serviva soltanto a ridurre i tempi di esposizione, ma anche a ricostruire i colori persi. La luce intensa e ricca di componenti calde permetteva di ripristinare parzialmente il rosso e l’arancione, elementi fondamentali nella documentazione biologica.

Un’altra difficoltà era la rifrazione ottica. L’acqua ha un indice di rifrazione diverso dall’aria (1,33 contro 1,0), il che significa che l’angolo di incidenza dei raggi luminosi si altera. Per il fotografo questo comportava distorsioni prospettiche, ingrandimenti apparenti e perdita di nitidezza ai bordi dell’immagine. Gli obiettivi tradizionali, progettati per l’aria, non erano adatti all’acqua. Boutan sperimentò con vetri ottici spessi e contenitori stagni che mantenevano una sottile intercapedine d’aria davanti alla lente, anticipando le soluzioni dei moderni obiettivi dome.

Anche la pressione idrostatica rappresentava una barriera tecnica. A soli dieci metri, la pressione raddoppia rispetto a quella atmosferica; a venti metri triplica. I contenitori stagni di Boutan dovevano resistere a forze notevoli, senza infiltrazioni e senza compromettere la mobilità dei comandi. L’uso di guarnizioni in gomma e piombo, materiali allora rudimentali, dimostra quanto fosse avanzata la sua ingegneria sperimentale.

Infine, occorre ricordare il problema del moto dell’acqua. La stabilità di una lastra da esporre per minuti era quasi impossibile in presenza di correnti. Boutan costruì cavalletti metallici che ancorava al fondale e utilizzava sistemi di galleggiamento per compensare la spinta di Archimede. Il fotografo subacqueo doveva così trasformarsi in ingegnere idraulico, ottico e meccanico allo stesso tempo.

La combinazione di questi problemi rende chiaro come la fotografia subacquea non fosse una semplice estensione della fotografia terrestre, ma una disciplina autonoma con sfide fisiche e tecniche specifiche. Ogni scatto richiedeva calcoli, preparazione e spesso rischi personali.

Dalle lastre al digitale: evoluzione degli strumenti subacquei

Con l’inizio del XX secolo, la fotografia subacquea cominciò a diffondersi oltre il laboratorio di Boutan. L’introduzione delle pellicole flessibili in celluloide, più pratiche delle lastre di vetro, semplificò notevolmente il processo. I fotografi poterono scendere con apparecchi più leggeri e contenitori stagni più compatti.

Negli anni ’30, la comparsa degli scafandri rigidi e delle prime attrezzature subacquee autonome rese possibile operare a profondità maggiori. Contestualmente, furono sviluppate custodie stagni dedicate a fotocamere Leica e Rolleiflex. Questi contenitori, spesso costruiti artigianalmente, utilizzavano spesse pareti di metallo, oblò in vetro temperato e guarnizioni in gomma. I comandi meccanici venivano trasmessi all’interno tramite leve e snodi.

Il dopoguerra segnò una nuova era grazie alle invenzioni di Jacques-Yves Cousteau e dell’ingegnere Émile Gagnan, che nel 1943 misero a punto l’Aqua-Lung, il primo erogatore autonomo. Questa innovazione permise ai fotografi di muoversi sott’acqua senza collegamenti alla superficie. La fotografia subacquea divenne così più dinamica e adatta anche alla documentazione naturalistica.

Parallelamente si svilupparono i sistemi di illuminazione. Negli anni ’50 comparvero i flash elettronici subacquei, molto più sicuri ed efficienti delle lampade a combustione. Grazie ai condensatori e ai tubi allo xeno, era possibile generare lampi calibrati, riducendo i rischi e migliorando la fedeltà cromatica.

Con l’avvento del colore nella fotografia, la sfida dei bilanciamenti cromatici riemerse con forza. I fotografi adottarono filtri correttivi e lampi di flash sincronizzati per ripristinare la gamma di colori persi. Le riviste di divulgazione marina, come “National Geographic”, contribuirono a diffondere immagini che restituivano al grande pubblico l’estetica del mondo sommerso.

Negli anni ’70 e ’80 la comparsa delle custodie in policarbonato alleggerì ulteriormente le attrezzature. Le case produttrici iniziarono a realizzare sistemi modulabili, con obiettivi intercambiabili e controlli più precisi. L’evoluzione non riguardava solo la resistenza alla pressione, ma anche l’ergonomia, permettendo al fotografo di comporre l’immagine con maggiore libertà.

L’era digitale, a partire dagli anni ’90, trasformò radicalmente la disciplina. Le prime fotocamere digitali compatte vennero dotate di custodie stagni dedicate, mentre i professionisti utilizzavano reflex in custodie in alluminio. Il passaggio al digitale eliminò il limite della pellicola, permettendo di scattare centinaia di immagini e verificare subito l’esposizione. I sensori ad alta sensibilità migliorarono la resa in condizioni di scarsa luminosità, mentre i bilanciamenti del bianco manuali offrirono la possibilità di compensare la perdita dei colori senza ricorrere sempre a flash esterni.

Oggi, la fotografia subacquea utilizza sistemi ibridi: sensori full frame, obiettivi dome progettati per minimizzare la rifrazione, flash subacquei digitali a LED e fibre ottiche per la sincronizzazione. Tuttavia, i principi posti da Boutan restano immutati: gestire la luce, controllare la pressione e neutralizzare le distorsioni ottiche.

La fotografia subacquea come strumento scientifico e documentario

Fin dalle origini, la fotografia subacquea è stata concepita come strumento di ricerca. Boutan stesso operava non per fini artistici, ma per documentare le forme di vita marine e le strutture dei fondali. La possibilità di avere una registrazione visiva accurata era fondamentale in un’epoca in cui il disegno era l’unico mezzo alternativo.

La fotografia subacquea si affermò presto come risorsa in biologia marina, permettendo di osservare comportamenti animali senza rimuovere gli organismi dal loro habitat. Le prime immagini di coralli, molluschi e pesci offrirono dati preziosi sulla distribuzione delle specie e sulle relazioni ecologiche. Con l’introduzione del colore, fu possibile anche distinguere specie simili attraverso le tonalità della livrea.

Negli anni ’50 e ’60, la disciplina si intrecciò con l’esplorazione oceanografica. Le spedizioni di Cousteau resero la fotografia subacquea uno strumento divulgativo senza precedenti. Le immagini girate per film e libri raggiunsero milioni di spettatori, trasformando la percezione collettiva del mare. Da strumento di ricerca, la fotografia subacquea divenne anche mezzo di sensibilizzazione ambientale, denunciando l’inquinamento e la distruzione degli ecosistemi.

In ambito geologico e archeologico, la fotografia subacquea consentì la documentazione di relitti, reperti sommersi e paesaggi geologici. La capacità di registrare le condizioni esatte dei siti riduceva i rischi di manomissione e forniva prove oggettive. Molti studi archeologici subacquei dagli anni ’70 in poi furono resi possibili proprio dalla fotografia e, successivamente, dalla videografia subacquea.

Anche la ricerca militare fece largo uso della fotografia subacquea, sia per la mappatura dei fondali sia per l’identificazione di mine e ostacoli. Negli anni della Guerra Fredda, la combinazione di sonar e fotografia permise una documentazione accurata di zone strategiche.

In epoca contemporanea, la fotografia subacquea è integrata con altre tecniche di rilievo tridimensionale e di fotogrammetria digitale. I software consentono di trasformare centinaia di scatti in modelli 3D, utili sia per studi ecologici che per ricostruzioni archeologiche. In questo senso, la fotografia continua a svolgere il suo ruolo fondativo: fornire una traccia visiva oggettiva, arricchita oggi da tecnologie di calcolo avanzato.

La sua funzione documentaria non si limita alla scienza. La fotografia subacquea è diventata strumento narrativo per il fotogiornalismo ambientale, capace di raccontare temi come il cambiamento climatico, lo sbiancamento dei coralli e l’inquinamento da plastica. L’eredità di Boutan vive così non solo nelle innovazioni tecniche, ma nell’uso etico e documentario dell’immagine sottomarina.

Update: Sept 2025

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