Graciela Iturbide nasce a Città del Messico nel 1942, in una famiglia numerosa appartenente alla classe medio-alta. L’infanzia trascorre in un ambiente tradizionale, fortemente segnato dal cattolicesimo e dai valori della borghesia messicana. Sin da giovanissima sviluppa una sensibilità particolare per l’immagine, inizialmente attraverso il cinema e la letteratura. In una famiglia con dodici fratelli, il senso della coralità, della ritualità e del simbolismo religioso diventa parte integrante del suo immaginario visivo, che emergerà anni dopo nella fotografia.
Negli anni Sessanta, Iturbide si iscrive al Centro Universitario di Estudios Cinematográficos (CUEC), il dipartimento di cinema della Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM), con l’intenzione di diventare regista cinematografica. Durante il percorso di studi, tuttavia, scopre la fotografia come linguaggio autonomo e inizia a utilizzarla come strumento di osservazione e narrazione. È proprio in questi anni che incontra il grande fotografo Manuel Álvarez Bravo, figura centrale della fotografia latinoamericana, che diventerà suo maestro e mentore. L’incontro segna una svolta definitiva: Iturbide abbandona progressivamente il cinema per dedicarsi completamente alla fotografia.
L’apprendistato con Álvarez Bravo non è soltanto tecnico ma anche filosofico. L’artista impara a riconoscere nella fotografia non solo un mezzo documentario, ma una forma di scrittura visiva capace di unire realtà e mito, testimonianza e poesia. L’influenza del maestro sarà duratura: la sua capacità di leggere la cultura messicana in chiave simbolica, l’attenzione per la luce e l’ombra, e il legame con la tradizione pittorica del realismo magico confluiranno nel linguaggio visivo di Iturbide.
Gli anni della formazione coincidono con un periodo di fermento culturale in Messico, segnato dalle tensioni sociali e dai movimenti politici che culmineranno nel massacro di Tlatelolco del 1968. Questa atmosfera imprime nella giovane fotografa la consapevolezza del ruolo sociale dell’immagine e della necessità di raccontare non solo l’individuo ma anche il contesto comunitario. È in questo crocevia tra documentazione e poesia che si colloca l’opera di Graciela Iturbide.
Tecniche fotografiche e linguaggio visivo
Iturbide lavora quasi esclusivamente in bianco e nero, prediligendo la pellicola e il formato medio, spesso con fotocamere Hasselblad. La scelta del bianco e nero non è dettata da limiti tecnici, ma da una precisa poetica: il colore, secondo l’artista, rischia di distrarre dallo spirito dell’immagine, mentre il monocromo permette di astrarre la realtà e di collocarla in una dimensione atemporale.
L’uso della luce naturale è un altro elemento caratteristico. Iturbide lavora con la luce del sole, spesso dura e verticale, tipica dei paesaggi messicani e latinoamericani. Questa luce scolpisce i volti e i corpi, esaltando i contrasti e conferendo un’aura scultorea alle figure ritratte. Le ombre diventano parte integrante della composizione, trasformandosi in simboli visivi che amplificano il senso del sacro e del mistero.
La sua fotografia è caratterizzata da un approccio rituale alla composizione. Ogni immagine appare come un frammento di rito collettivo o personale, sia che ritragga feste popolari, cerimonie religiose o momenti intimi di vita quotidiana. L’inquadratura non è mai casuale: Iturbide ricerca simmetrie, geometrie nascoste e corrispondenze tra i soggetti e l’ambiente, costruendo un ordine visivo che trasforma la realtà in mito.
Dal punto di vista tecnico, l’artista ha dimostrato una straordinaria capacità di muoversi tra registri differenti. In alcune serie la sua fotografia è più documentaria, con un’attenzione antropologica rivolta alle comunità indigene e alle loro tradizioni. In altre, la componente simbolica e poetica prevale, con immagini che assumono la forza di allegorie universali. Questa oscillazione tra documento e metafora è il tratto più distintivo della sua opera.
Viaggi e incontri: il Messico e oltre
Uno degli aspetti fondamentali della carriera di Iturbide è la dimensione del viaggio. A partire dagli anni Settanta, la fotografa percorre il Messico in lungo e in largo, documentando le comunità indigene e le tradizioni locali. Le popolazioni zapoteche di Juchitán, nello stato di Oaxaca, rappresentano uno dei capitoli più importanti della sua produzione. Qui realizza una delle sue serie più celebri, dedicata alle donne zapoteche, considerate pilastro economico e sociale della comunità. Le fotografie rivelano una visione della donna forte, autonoma, spesso in contrasto con gli stereotipi patriarcali dominanti.
La celebre immagine “Nuestra Señora de las Iguanas” (1979), in cui una donna cammina con un copricapo di iguane vive, diventa simbolo di un femminismo indigeno e di una forza ancestrale che affonda le radici nella mitologia mesoamericana. Questa fotografia circola a livello internazionale come icona del sincretismo culturale messicano e come emblema della capacità di Iturbide di trasformare un gesto quotidiano in un’immagine universale.
I viaggi non si limitano al Messico. Negli anni successivi, Iturbide lavora in India, Cuba, Stati Uniti e Spagna, portando sempre con sé lo sguardo antropologico e poetico. In India documenta le ritualità sacre e i contrasti sociali, trovando analogie con il sincretismo religioso messicano. Negli Stati Uniti fotografa comunità chicane e spazi urbani marginali, esplorando la condizione dei migranti e il rapporto tra identità e territorio.
Il viaggio, per Iturbide, non è mai turismo visivo, ma immersione totale. La fotografa instaura un rapporto profondo con le comunità che ritrae, vivendo spesso per settimane o mesi nei luoghi che documenta, condividendo la quotidianità delle persone. Questa metodologia le consente di superare la barriera tra osservatore e osservato, creando immagini che nascono da una relazione di fiducia e di scambio.
Serie e opere principali
L’opera di Graciela Iturbide si articola in serie fotografiche che corrispondono a veri e propri cicli di ricerca.
Tra le più celebri vi è “Juchitán de las Mujeres” (1979-1989), serie che esplora la vita delle donne zapoteche e la centralità del loro ruolo sociale. Le immagini mostrano mercati affollati, feste popolari, rituali religiosi e momenti di intimità quotidiana. Ogni fotografia restituisce la dignità e la forza di una comunità che ha fatto della figura femminile il cardine del proprio equilibrio.
Un’altra serie importante è “Los que viven en la arena” (1989), dedicata ai Seri, popolazione indigena del deserto di Sonora. Le immagini raccontano una comunità sospesa tra modernità e tradizione, stretta nella tensione tra la conservazione dei riti ancestrali e le pressioni del mondo contemporaneo. Le fotografie evidenziano la fragilità e la resistenza culturale di un popolo che lotta per mantenere la propria identità.
In “Cholos” (2005), realizzata a Los Angeles, Iturbide ritrae giovani appartenenti a gang chicane, mostrando il lato estetico e simbolico delle loro identità: tatuaggi, pose, abbigliamento diventano linguaggi visuali che raccontano appartenenza e marginalità.
La produzione recente comprende la serie “Naturata”, in cui l’artista esplora la relazione tra natura e cultura attraverso immagini di piante, animali e oggetti rituali. Qui la componente simbolica prevale, e la fotografia assume una dimensione quasi metafisica.
Accanto alle serie, singole fotografie hanno assunto lo status di icone. Oltre a “Nuestra Señora de las Iguanas”, va ricordata l’immagine “Mujer Ángel” (1979), che raffigura una donna indigena con una radio in mano, ripresa in controluce in un paesaggio desertico. L’immagine sintetizza il dialogo tra tradizione e modernità, tra mito e realtà, che è il nucleo della poetica di Iturbide.
Poetica, simbolismo e riconoscimenti
La poetica di Graciela Iturbide è una continua ricerca di sincretismo culturale. Le sue fotografie mettono in dialogo il cattolicesimo con i riti precolombiani, la modernità con la tradizione, l’individuo con la comunità. In questo senso, la sua opera si colloca nella scia del realismo magico latinoamericano, trasportato però nel linguaggio fotografico.
Il simbolismo è una componente costante: iguane, uccelli, teschi, radios, vestiti rituali non sono meri dettagli etnografici, ma diventano allegorie universali di vita, morte, trasformazione. La fotografia diventa un ponte tra il visibile e l’invisibile, tra la concretezza del documento e l’astrazione del mito.
Dal punto di vista tecnico, la scelta del bianco e nero rafforza questa dimensione simbolica. Eliminando il colore, Iturbide spoglia l’immagine del superfluo e concentra l’attenzione sul gesto, sul corpo e sullo spazio. Le sue inquadrature sono costruite con equilibrio classico, ma il contenuto narrativo introduce sempre un elemento di perturbazione.
Iturbide ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui il Premio Hasselblad (2008), considerato il più prestigioso riconoscimento nel campo della fotografia. Le sue opere fanno parte delle collezioni del Museum of Modern Art di New York, della Tate Modern di Londra, del Centre Pompidou di Parigi e di numerose istituzioni latinoamericane. È considerata la maggiore fotografa messicana vivente e una delle più influenti a livello globale.
La critica sottolinea come la sua opera abbia saputo conciliare rigore antropologico e sensibilità poetica, offrendo una visione del Messico non ridotta a stereotipo ma elevata a metafora universale della condizione umana.
Mi chiamo Marco Americi, ho circa 45 anni e da sempre coltivo una profonda passione per la fotografia, intesa non solo come mezzo espressivo ma anche come testimonianza storica e culturale. Nel corso degli anni ho studiato e collezionato fotocamere, riviste, stampe e documenti, sviluppando un forte interesse per tutto ciò che riguarda l’evoluzione tecnica e stilistica della fotografia. Amo scavare nel passato per riportare alla luce autori, correnti e apparecchiature spesso dimenticate, convinto che ogni dettaglio, anche il più piccolo, contribuisca a comporre il grande mosaico della storia dell’immagine. Su storiadellafotografia.com condivido ricerche, approfondimenti e riflessioni, con l’obiettivo di trasmettere il valore documentale e umano della fotografia a un pubblico curioso e appassionato, come me.


