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Edward Burtynsky

Edward Burtynsky (nato il 22 febbraio 1955 a St. Catharines, Ontario, Canada) è un fotografo canadese la cui ricerca, sviluppata in oltre quattro decenni, ha ridefinito il paesaggio industriale come campo di indagine estetica e tecnica. La sua produzione utilizza il grande formato e, più tardi, il medio formato digitale ad altissima risoluzione, per visualizzare con precisione cartografica la scala delle trasformazioni indotte dall’uomo su cave, miniere, bacini idrici, complessi petroliferi, cantieri navali e infrastrutture territoriali. È vivente e tuttora attivo tra progetti fotografici, mostre e collaborazioni interdisciplinari che coniugano arte e scienza. Le sue opere sono conservate in oltre ottanta musei, tra cui il MoMA, il Metropolitan e il Guggenheim di New York, la Tate Modern e il LACMA, mentre tra i riconoscimenti figurano il TED Prize e l’onorificenza di Officer of the Order of Canada.

Fin dall’adolescenza, l’ambiente operaio di St. Catharines – con la presenza della General Motors e il traffico del Welland Canal – orienta il suo sguardo verso la scala produttiva e la geometria delle grandi opere, anticipando una poetica costruttiva che eviterà il sensazionalismo per far emergere una complessità formale dove il controllo ottico e la fedeltà cromatica sono determinanti. La formazione al Niagara College e la laurea in Photography/Media Studies presso l’allora Ryerson University (oggi Toronto Metropolitan University) nel 1982 consolidano le basi tecniche; nel 1985 fonda a Toronto Image Works, laboratorio e centro di formazione che facilita a più generazioni l’accesso a workflow analogici e digitali professionali.

Formazione e primi approcci alla fotografia industriale

Il percorso formativo di Burtynsky si inscrive nei passaggi tecnologici che negli anni Settanta e Ottanta interessano la fotografia d’arte, tra l’ultima stagione dell’argento a colori e l’emergere dei processi cromogeni industriali a stabilità migliorata, fino ai primi studi di color management in ambito prepress. La sua educazione in arti grafiche al Niagara College di Welland offre dimestichezza con la riproduzione tipografica e la gestione dei toni continui, competenze che più tardi diverranno cruciali per tradurre in stampa le densità di informazione tipiche dei suoi negativi 4×5 e 8×10 pollici. L’approdo a Ryerson – istituzione che storicamente integra teoria dell’immagine, pratiche di laboratorio e cultura del progetto – nel 1982 chiude un ciclo accademico votato alla padronanza dei processi.

Nel frattempo, il contesto di St. Catharines continua a fungere da laboratorio concettuale. La filiera metalmeccanica locale, i cantieri e il transito continuo del canale alimentano un’attrazione verso i paesaggi operativi, non intesi come fondali scenografici ma come sistemi in cui linee di forza, gradienti di colore e pattern ripetitivi possono essere organizzati in strutture visive coerenti. Questa grammatica prenderà forma nei primi cicli come Railcuts e Mines, fino a maturare in Quarries, quando le cave di marmo – e in particolare i fronti di Carrara – offriranno stratificazioni litologiche e modulazioni di luce che si prestano a un’interpretazione quasi sezionatoria, come se l’immagine fosse una lettura geotecnica delle superfici. La tappa italiana dei primi anni Novanta, identificata spesso come snodo che spinge Burtynsky a uscire dall’orizzonte nordamericano, mette in dialogo texture naturali e tracce operative dei cavatori, allineando il suo linguaggio con la tradizione di osservazione sistematica alla Carleton Watkins, ma con un interesse più spiccato per la logistica del prelievo e la meccanica dell’escavazione.

La fondazione di Toronto Image Works nel 1985 ha anche un significato strategico: consente al fotografo di mantenere controllo end-to-end sul ciclo produttivo – dallo sviluppo al proofing fino alla stampa finale – e di sperimentare in anticipo le catene ibride che uniscono scansioni drum, correzione cromatica e strategie di sharpening a maschere sfumate prima della laser exposure su carta cromogena. In questa fase l’attenzione alla neutralità apparente – che non è neutralità emotiva, ma rigore di rappresentazione – si definisce attraverso un uso prudente della saturazione, con l’obiettivo di far emergere i gradienti materiali di rocce, fanghi di flottazione, polveri di cementazione e ossidazioni.

Sul piano curatoriale, la carriera entra presto in dialogo con le istituzioni nazionali. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi Duemila si definisce una serie di mostre che consolidano un canone personale: dal progetto Breaking Ground del Canadian Museum of Contemporary Photography (1988–1992), a Manufactured Landscapes presso la National Gallery of Canada (2003–2005), alla collettiva China itinerante (2005–2008), fino a Oil (2009) al Corcoran di Washington e Water (2013) a New Orleans, approdi che ribadiscono come la sua opera sia costruita per letture a lungo periodo, con progetti pluriennali, campagne sul campo ripetute e una robusta infrastruttura produttiva e distributiva.

In parallelo, il circuito internazionale comincia a collezionare i lavori, con acquisizioni da parte del MoMA, del Metropolitan, del Guggenheim, del Reina Sofía, della Tate e del LACMA. Queste presenze museali non sono solo un indicatore di prestigio collezionistico; riflettono una robustezza tecnica dell’oggetto fotografico, pensato per grandi formati, piatta uniformità delle campiture e microcontrasto gestito in modo da sostenere distanze di visione variabili, dalle sale monumentali ai white cube contemporanei. L’ingresso nell’International Photography Hall of Fame nel 2022 e i diversi dottorati honoris causa sigillano un riconoscimento ormai consolidato.

Se si osserva retrospettivamente questa prima fase, la cifra distintiva è la costruzione di un vocabolario estetico-operativo dove la scelta del punto di vista elevato, il controllo prospettico rese da corpi a banco ottico e la scalarità del soggetto sono sempre funzionali a una legibilità ingegneristica dell’immagine. L’intuizione, destinata a permanere, è che il paesaggio industriale non sia un’eccezione marginale del territorio, ma la sua configurazione prevalente nel mondo contemporaneo, e che solo una metodologia fotografica rigorosa possa renderne leggibili processi, ritmi, economie.

Tecniche fotografiche e approccio estetico

L’architettura tecnica del lavoro di Burtynsky ruota prima attorno al grande formato4×5 e 8×10 pollici – poi si espande verso il medio formato digitale ad altissima risoluzione, con un passaggio progressivo e ponderato che evita ogni semplificazione nostalgica: il workflow non è mai un feticcio, ma lo strumento per garantire nitidezza, planarità e controllo delle linee su soggetti estesi e stratificati. Nel periodo analogico, l’impiego di banchi ottici e movimenti di basculaggio e decentramento permette di governare la Scheimpflug e di ottimizzare piani di fuoco che attraversano dighe, piazzali di stoccaggio, filoni mineralogici o fronti di scavo, mantenendo ortogonalità e riducendo convergenze indesiderate, così da preservare la legibilità topografica. Gli obiettivi scelti coprono dal grandangolo moderato alle focali normali con copertura d’immagine adeguata alle ampie escursioni dei movimenti, privilegiando schemi ottici corretti ai bordi e con bassa curvatura di campo.

Sul piano dei materiali sensibili, le serie storiche presentano un uso maturo della pellicola colore con enfasi su una gamma tonale ampia e transizioni cromatiche controllate, tale da evitare clipping e posterizzazioni su soggetti ad alta frequenza spaziale (ghiaie, rottami, reticoli di evaporazione, coltivazioni a pivot). Interviste tecniche e testimonianze sul suo processo evidenziano come nella fase a cavallo tra anni Novanta e Duemila abbia lavorato a catene ibride: scansioni ad alta risoluzione, bilanciamenti cromatici in digitale, e uscita su carta cromogena o, più avanti, su stampa a pigmenti per serie specifiche. Il passaggio al digitale non avviene per moda, ma per la possibilità di coniugare tempi di ripresa più rapidi in piattaforme aeree con l’esigenza di file grandissimi senza sacrificare microcontrasto e MFT allineata alle dimensioni finali.

Il nodo operativo della ripresa aerea è essenziale. Burtynsky descrive il lavoro da elicottero o aereo come una pratica dove la stabilizzazione è innanzitutto procedurale: scelta delle velocità di sicurezza, scatto in raffica controllata per intercettare le configurazioni emergenti del territorio, coordinamento stretto col pilota per mantenere angoli di incidenza e distanze costanti, in modo da garantire ortorettifica percettiva e coerenza tra frame consecutivi. L’adozione di corpi digitali medio formato (Hasselblad da 100 MP in una fase intermedia e sistemi Phase One successivamente) nasce dall’esigenza di associare sensori grandi, lentezza dell’otturatore nominale compensata da ISO puliti e un range dinamico capace di trattenere dettagli nelle alte luci speculari di saline e bacini idrici.

La gestione della luce naturale è calibrata su finestre temporali con contrasto medio o alto ma direzionale, in cui le ombre divengono strumenti di modellazione senza saturare le informazioni in ombra. Il colore è trattato come variabile strutturale, non come elemento di enfatizzazione espressiva: il rosso fauve dei nickel tailings, i verdi acidi dei lixiviati, i blu-ciano delle vasche di decantazione e gli ocra delle colate sedimentarie sono mantenuti entro profili ICC calibrati sul substrato di stampa, con gamut mapping predittivo per assicurare coerenza tra monitor e output su carta. Quando l’uscita è su c-print cromogeno di grande formato, la granulometria residua del supporto fotosensibile e la riflettanza superficiale concorrono alla resa; con la stampa a pigmenti su carte baritate o lisce, l’attenzione si sposta sulla curva di neri e sul d-max, per preservare i passaggi dei toni scuri nelle trame industriali.

Un altro capitolo tecnico riguarda la scala di presentazione. I formati espositivi tipici – che vanno da 50×60 pollici fino a dimensioni più estese – richiedono file con frequenze di campionamento elevate e nitidezza tale da sostenere distanze di visione ridotte senza percepibile aliasing su pattern ripetitivi (binning di minerali, tettonica di fratture, pettinature di campi). Laddove necessario, l’artista ricorre a piattaforme elevate terrestri o alla morfologia naturale per ottenere una visione zenitale o semi-zenitale, anticipando l’uso sistematico di droni e UAV che diventano centrali in serie come Water e Anthropocene, dove la cartografia estetica del territorio chiede punti di vista non antropometrici, capaci di misurare piuttosto che solo guardare.

Sotto il profilo estetico, il dispositivo di Burtynsky opera sul paradosso del bello perturbante: le sue immagini costruiscono sublimi post-industriali in cui ordine, ripetizione e simmetrie coabitano con residui, scarti e eutrofizzazioni. La prossemica delle inquadrature, spesso panoramiche e calibrate su griglie implicite, lavora per serialità e tipologia, con effetti di astrazione che non negano la referenza. Interviste e tavole rotonde confermano che il fine non è didascalico, bensì cognitivo: generare uno spazio di sospensione in cui lo sguardo possa valutare scala, densità e complessità dell’intervento umano. Questa postura verrà più tardi integrata con pratiche multimediali (video, fotogrammetria, render 3D) che estendono la fotografia in ambienti immersivi, senza rinunciare alla centralità del frame come unità di misura.

Le scelte etiche del dispositivo – lontananza emotiva, rappresentazione non assertiva, assenza di didascalismo – non risultano da un’astrazione teorica ma dalle condizioni operative del fotografare su scala territoriale. Un paesaggio industriale nerissimo fotografato con temperanza tonale non attenua l’impatto; anzi, rende leggibile la sua organizzazione. In questo senso, la fotografia di Burtynsky è ingegneria visiva: una pratica di misura, controllo, ottimizzazione e restituzione dove l’estetica è la forma che l’informazione assume per diventare conoscibile.

Opere principali e analisi delle serie più celebri

Il nucleo della produzione di Burtynsky si articola in serie tematiche pluriennali, ciascuna costruita come indagine sistematica sui processi di trasformazione antropica. La cerniera storica è Manufactured Landscapes: dapprima libro e grande mostra alla National Gallery of Canada (2003–2005), poi documentario diretto da Jennifer Baichwal (2006) che espande la dimensione narrativa e immersiva del progetto. Le immagini delle fabbriche cinesi, delle discariche di e-waste, delle cave e dei cantieri navali sono organizzate su griglie prospettiche dove la ripetizione diventa metrica del lavoro e del consumo. Il film – girato in Super 16 e costruito su piani sequenza che esplorano la scala extra-umana di linee produttive lunghe chilometri – evita la tesi ed espone lo spettatore a una durata percettiva in cui la dimensione del fenomeno si misura per immersione.

A partire da Oil (1999–2010) l’indagine si concentra su un fluido infrastrutturale che sostiene la modernità: l’olio come materia, energia, logistica e immaginario. Pozzi e campi petroliferi, raffinerie, reti di oleodotti, depositi e la maggioranza mobile delle automobili formano un ciclo iconico che rende visibile la filiera dall’estrazione al consumo, fino allo smaltimento. La scelta del punto di vista elevato e la lentezza operativa fanno emergere geometrie e pattern – dalle trame dei serbatoi alle canaline di drenaggio – in una visione in cui la ridondanza diventa la vera informazione. Il progetto è esposto in forma di tour internazionale per oltre un lustro, a partire dalla mostra al Corcoran Gallery of Art (Washington D.C.).

Con Water (2010–2013) l’attenzione si sposta sulla risorsa idrica come infrastruttura ecologica e tecnologica. Le fotografie attraversano dighe, canali di irrigazione, delta fluviali, saline e bacini di evaporazione, con un ricorso più esteso a riprese aeree e, via via, a UAV che consentono allineamenti zenitali difficili da mantenere da piattaforme con equipaggio. La cartografia estetica di Water mostra armature idrauliche che imbrigliano corsi d’acqua e pattern di irrigazione a pivot che disegnano tassellature su scala regionale. Il progetto sarà presentato a New Orleans (Museum of Art & Contemporary Art Center) e in seguito circolerà a livello internazionale.

Il ciclo Anthropocene (dal 2015) – sviluppato come progetto multidisciplinare insieme a scienziati e registi – estende la fotografia a installazioni e ambienti immersivi basati su fotogrammetria e render 3D per restituire la massa delle trasformazioni geologiche innescate dall’uomo. Le immagini visitano miniere a cielo aperto, cave di potassa, terre rare, foreste in gestione intensiva e discariche di scala continentale, con vedute dall’alto che trasformano il territorio in texture. La pluralità dei media fa di Anthropocene un ecosistema di opere, coronato anche dal film ANTHROPOCENE: The Human Epoch (2018) realizzato con Baichwal e Nicholas de Pencier. Il progetto ribadisce l’impostazione conoscitiva: nessuna tesi chiusa, ma una mappa visiva che invita a correlare fenomeni.

Nel corso degli anni, serie come Quarries hanno offerto capitoli cruciali per comprendere il metodo di Burtynsky. Le Cave di Carrara degli anni Novanta, per esempio, sono paradigmatiche: le pareti tagliate a gradoni, i piani di cava, le squamature del marmo e le vie di esodo della polvere diventano un diagramma della tecnica estrattiva. Opere come Carrara Marble Quarries #24 e #25 (1993), presenti in collezioni museali, esemplificano l’uso del grande formato per conferire coerenza geometrica all’enorme scala del fronte di cava e riportare a misura umanamente leggibile una potenza materica altrimenti incommensurabile. La successiva re-visita al distretto nel 2016 – con stampe a pigmenti di grande formato – testimonia il passaggio alla fase digitale mantenendo inalterato il principio di leggibilità.

Un filo rosso attraversa tutte le serie: l’equilibrio tra evidenza e ambiguità. La fotografia non si limita a denunciare; misura. Questa scelta è corroborata dal successo del trittico documentario realizzato con Baichwal – Manufactured Landscapes (2006), Watermark (2013), Anthropocene: The Human Epoch (2018) – che amplia la fruizione pubblica del corpus senza snaturarne il metodo. Il primo lavoro, premiato e selezionato nei principali festival, è fondamentale per comprendere la natura processuale della sua fotografia: lunghe campagne, permessi, protocolli di sicurezza, logistica e un’attenzione filologica alla coerenza cromatica tra fotogramma e stampa. I successivi capitoli estendono il principio, sino a produrre un lessico condiviso tra arte e scienza che permette di parlare di Anthropocene senza slogan.

La fase più recente ha visto progetti come Extraction/Abstraction (Saatchi Gallery, 2024, poi in tour a Mestre) e The Great Acceleration all’International Center of Photography di New York (2025), che aggregano oltre settanta immagini per ripercorrere cronologicamente le strategie compositive e le soluzioni tecniche sviluppate dall’autore, includendo anche ritratti prodotti nei luoghi di lavoro come controcanto alla scala delle infrastrutture. Questo aggiornamento curatoriale conferma la continuità metodologica: indipendentemente dal supporto, la fotografia di Burtynsky resta un’operazione di misurazione visiva alla scala dei macro-sistemi.

Fonti

Curiosità Fotografiche

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