Il 6 dicembre 1898, a Dirschau, nell’allora Prussia Occidentale (oggi Tczew, Polonia), nacque Alfred Eisenstaedt, soprannominato affettuosamente “Eisie”. Cresciuto in una famiglia di origine ebraica che si trasferì a Berlino quando aveva otto anni, Alfred scoprì il fascino della fotografia già da adolescente: a quattordici anni suo zio gli regalò una piccola Eastman Kodak pieghevole e lui rimase immediatamente incantato dall’idea di «scrivere con la luce». Proprio quella macchina, semplice nell’apparenza, gli fece intravedere un mondo di narrazioni visive che avrebbe esplorato per tutta la vita.
Durante la Prima Guerra Mondiale servì nell’artiglieria dell’Imperial German Army, dove venne ferito: quell’esperienza di dolore e fragilità lo segnò profondamente, imprimendo nelle sue immagini un occhio attento a cogliere gesti spontanei, istanti significativi, ciò che accade “tra le righe” della storia. Dopo la guerra, mentre vendeva bottoni e cinture per mantener si, continuò a fotografare nei momenti liberi, affinando un approccio delicato ma incisivo al ritratto e alla scena comune. Il talento lo portò, nel 1928, a lavorare come freelance a Berlino, fino all’ingaggio presso Pacific and Atlantic Photos (poi parte dell’Associated Press).
Il linguaggio visivo di Eisenstaedt si consolidò quando, nel 1935, emigrò negli Stati Uniti per sfuggire alla sempre più pesante persecuzione nazista. Qui, nel 1936, divenne uno dei quattro fotografi fondatori di Life magazine. Con quella piattaforma, Eisie trovò la sua voce: capace di immortalare personaggi famosi ma anche passanti ignoti, bambini giocosi, momenti celebrativi o intimi con la stessa empatia visiva. Il suo scatto più famoso, il marinaio che bacia un’infermiera a Times Square il giorno della vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, resta uno degli emblemi del XX secolo.
Proseguì a raccontare, viaggiare e immortalare storie per oltre cinquant’anni, accumulando più di 2.500 servizi e una novantina di copertine per Life. Anche dopo la chiusura della versione settimanale della rivista, non smise di guardare il mondo attraverso l’obiettivo.
Il 23 agosto 1995, mentre si trovava nella sua amata Martha’s Vineyard, Alfred Eisenstaedt si spense nella sua casa a 96 anni. Morì quasi «tra le sue immagini», circondato da un’intera vita narrativa. La fotografia affrontò quel momento non con fredda cronaca bensì con dolcezza: un testimone solenne e partecipe di una storia lunga, intensa, costellata di sorrisi, sguardi e particolari apparentemente banali ma oggi preziosi.
Il primo incontro con la fotografia e l’approccio tecnico visionario
Nemmeno quattordicenne, Alfred Eisenstaedt ricevette dal suo zio uno strumento destinato a cambiare il corso della sua vita: una Kodak pieghevole con rullino. Quel momento segnò la nascita di una passione che, nemmeno la drammaticità della Prima Guerra Mondiale, riuscì a spegnere. Ferito in trincea, Eisie tornò a Berlino, deciso a trasformare quella curiosità in una forma d’arte e professione. Il primo decennio del Novecento in Germania era un terreno fertile per l’emergere della fotografia moderna: Alfred imparò a comprendere la luce naturale, a giocare con lunghezze focali che soltanto pochi anni prima erano considerate impossibili per un reportage. Quando nel 1928 iniziò a collaborare con Pacific and Atlantic Photos di Berlino (poi Associated Press), portò sul tavolo dell’agenzia un approccio agile e immediato, orientato alla ripresa spontanea, che fece scuola.
Tecnologicamente parlando, la scelta della Leica 35 mm come arma principale fu cruciale: piccola, veloce, poco appariscente, ideale per cogliere attimi autentici. Eisenstaedt prediligeva focali fisse, tra i 35 e i 50 mm, con aperture f/2‑f/4, che offrivano un buon compromesso tra isolamento del soggetto e profondità di campo. La pellicola, frequentemente ISO 50‑200, mantenne una grana sottile e nitida, perfetta per le stampe sul rotocalco dell’epoca.
Durante questo periodo affinò un occhio sofisticato: scattava early o late afternoon, quando la luce filtrava con morbidezza, sfruttava il chiaroscuro naturale per modellare volti e scene quotidiane senza bisogno di flash esterni, ridotti al minimo. La sua capacità di leggere gli spazi, le geometrie, la relazione tra soggetto e ambiente, derivava da una formazione debitrice verso Erich Salomon, pioniere dell’inquadratura discreta e umanista, con cui Ebbe modo di affinare quell’approccio basato su empatia visiva e controllo tecnico.
Dalla Germania agli Stati Uniti: il salto verso Life Magazine
Nel 1935 la Germania di Hitler diventò invivibile per un giovane ebreo: Eisenstaedt emigra negli USA, portando con sé non solo una valigia di fotografie, ma soprattutto un modo di guardare il mondo. Appena un anno dopo, nel 1936, Henry Luce lo recluta come uno dei quattro pilastri di Life Magazine, insieme a Margaret Bourke-White, Robert Capa e Peter Stackpole: la rivista aveva appena iniziato a ridefinire la narrazione visiva, trasformando il reportage in pietra miliare della cultura di massa.
La Leica rimase il suo strumento prediletto, insieme a una Rollei a medio formato per ritratti più ponderati. Alternava il reportage in strada – fatto di scatti rapidi, lettura dell’esposizione istantanea, concentrazione sulla luce del momento – ai ritratti posati, lavorati con lentezza, più rigorosi nella composizione. Alle aperture automatiche prediligeva la coerenza del diaframma fisso, per ottenere una resa tonale stabile tra le diverse condizioni di luce.
La copertina del secondo numero di Life, il ritratto del cadetto in divisa, dimostra già quanto Eisie combinasse prospettiva bilanciata, contrasto moderato e spontaneità emotiva. Da allora, per tutta la sua carriera, saprà bissare quel linguaggio visivo: meno posa teatrale, più autenticità; meno artificio, più rapporto tra soggetto, luce e spazio.
L’attimo della storia: V-J Day e storytelling fotografico
Tra i momenti in cui Alfred Eisenstaedt dimostra il suo genio visivo c’è il celeberrimo “V‑J Day in Times Square”, scattato il 14 agosto 1945 con una Leica M3 50 mm. L’immagine immortala un marinaio che bacia una donna in divisa nel trambusto messo in scena a Times Square: un gesto naturale in un momento fuori dal tempo, punto di convergenza tra gioia collettiva e istinto spontaneo. Fu necessario un tempo di scatto tra 1/125 e 1/250, pellicola ISO 100 e messa a fuoco manuale impostata su iperfocale, per assicurare una nitidezza perfetta anche nella folla.
Dietro allo scatto non c’era casualità: Eisenstaedt aveva posizionato due Leica al collo, una già messa a fuoco da circa due metri all’infinito, l’altra pronta. Quando il marinaio corre verso la donna, lui anticipò il gesto: scattò, e catturò la scena. Nessun momento successivo avrebbe avuto lo stesso impatto emotivo, perché l’attimo decisivo arriva una sola volta. Tecnica, visione, occhio allenato al racconto – questi elementi si intrecciarono per dare vita a una delle iconografie più evocative del secolo.
Evoluzione stilistica: colore, celebrità e luce naturale
Negli anni Cinquanta e Sessanta Eisenstaedt amplia il suo raggio d’azione: integra la pellicola a colori, spostandosi felicemente tra bianco e nero e brillante saturazione. Tuttavia, il suo approccio non muta: ogni immagine ha un attento equilibrio tonale, la luce naturale resta la sola fonte, il soggetto sempre al centro dell’azione visiva. Quella naturalezza diventa il suo marchio di fabbrica, tra le copertine più celebri del mondo: Sophia Loren con luce morbida, Marilyn Monroe ritratta con contrasti ravvicinati, Churchill ripreso con delicate ombre modellanti. Resta patrimonio della messa in posa un attimo dopo aver cliccato per preservare la spontaneità.
Il segreto resta quello: limitatezza di risorse, massimo controllo, orchestrazione della luce ambiente. Quando utilizzava il flash, era quasi sempre un flash esterno abbattuto o schermato con diffusori artigianali, per evitare ombre dure. Il diaframma si manteneva stabile tra f/5.6 e f/8, per esigenze di profondità e quantità di luce, con tempo di scatto non inferiore a 1/125 per congelare il gesto.
Tra le pieghe di queste grandi narrazioni, Eisenstaedt coltivava un mondo interiore. Amava la casa di Martha’s Vineyard, dove si ritirava per fotografie personali: still‑life, scorci familiari, bambini, abitudini. Qui sperimentava con luce filtrata da tende, con inquadrature minimal, con impostazione meditata, senza fretta.
Scattava spesso autoritratti di gruppo con i soggetti delle sue sessioni di posa, narrazioni silenziose della comunità visiva che aveva costruito intorno a sé. Eisie non amava l’autorità sul set: prediligeva un approccio leggero, quasi scherzoso, capace di mettere a proprio agio le persone ritratte. “It’s more important to click with people than to click the shutter” – parole che suonano da guida al suo modo di usare la macchina, quasi portasse sempre con sé quel senso di fiducia nata proprio in quelle calme estive.
Opere principali
Alfred Eisenstaedt ha prodotto un corpus vastissimo e articolato. Tra i suoi scatti più iconici spiccano quelli della Seconda Guerra Mondiale: il “sailor kiss” del V‑J Day e la copertina di Life con il cadetto. Nei primi manifesti della sua carriera tedesca si trovano la celebre fotografia del cameriere su pattini al Grand Hotel di St. Moritz e i ritratti di Hitler, Mussolini e Goebbels, in cui l’occhio attento a geometrie e sguardi precorre il fotogiornalismo narrativo.
Negli anni successivi, le sue copertine di Life contribuiscono a costruire l’immaginario di una nazione. I ritratti di Churchill, Einstein e Monroe non rivelano solo fama, ma personalità. Ogni foto è un piccolo ritratto dell’anima, nella luce accurata e nella posa naturale.
I progetti su Martha’s Vineyard e le raccolte come Witness to Our Time (1966) o People (1973) raccolgono queste esperienze, rendendo visibile l’eredità di un linguaggio visivo fondato sulla spontaneità, l’empatia, la narratività immediata e l’attenzione alla luce.