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Tecnologie StoricheParaluce obiettivo: tipi e funzioni principali

Paraluce obiettivo: tipi e funzioni principali

Il paraluce è oggi considerato un accessorio indispensabile per la fotografia professionale, ma la sua nascita è strettamente legata all’evoluzione dell’ottica e alla ricerca di immagini prive di difetti. Per comprendere la sua importanza, occorre ripercorrere la storia della fotografia, dalle prime camere oscure fino alle moderne ottiche digitali. La fotografia nasce ufficialmente nel 1826, quando Joseph Nicéphore Niépce realizza la celebre “Vista dalla finestra a Le Gras”, fissando per la prima volta un’immagine permanente su una lastra di stagno ricoperta di bitume di Giudea. Da quel momento, la gestione della luce diventa il cuore di ogni innovazione tecnica. Nel 1839, con il dagherrotipo di Louis Daguerre, si apre l’era della fotografia chimica, e già allora si evidenzia un problema: la luce parassita che colpisce la lente da angolazioni esterne, generando riflessi e perdita di contrasto.

I primi obiettivi erano privi di qualsiasi protezione frontale. Le superfici ottiche, non trattate con rivestimenti antiriflesso, erano estremamente sensibili ai raggi laterali. Per ridurre il fenomeno del flare, i fotografi iniziarono a improvvisare rudimentali schermature: cartoncini neri, tubi metallici, persino mani o cappelli usati come barriera. Questi espedienti empirici anticipano il concetto di paraluce, che si afferma come componente dedicato solo nel XX secolo, quando la produzione industriale di obiettivi diventa standardizzata.

Il primo vero paraluce progettato come accessorio nasce negli anni ’30, in concomitanza con la diffusione delle fotocamere reflex e telemetro. Marchi storici come Leitz (Leica) e Zeiss Ikon iniziano a fornire paraluce metallici, spesso cromati, da avvitare sulla filettatura frontale dell’obiettivo. Questi modelli erano cilindrici, pesanti e poco pratici, ma rappresentavano un salto qualitativo: per la prima volta si introduce un elemento fisico pensato per bloccare la luce indesiderata e migliorare il contrasto. Negli anni ’50, con l’avvento delle reflex 35 mm e la nascita di colossi come Canon (1937) e Nikon (1917), il paraluce diventa parte integrante del corredo fotografico. In questa fase, il design si evolve: compaiono i primi paraluce a baionetta, più rapidi da montare rispetto ai modelli a vite, e si sperimentano forme sagomate per adattarsi alle ottiche grandangolari.

Il boom del paraluce si registra negli anni ’70 e ’80, epoca d’oro della fotografia analogica. L’introduzione di rivestimenti multistrato riduce il flare, ma non lo elimina, e i produttori investono in geometrie sempre più sofisticate. Nascono i paraluce a petalo, studiati per massimizzare la schermatura senza entrare nel campo visivo alle focali più ampie. Con l’avvento del digitale, il paraluce mantiene la sua funzione primaria, ma acquisisce un ruolo aggiuntivo: protezione meccanica dell’obiettivo. In un’epoca in cui le ottiche hanno costi elevati e gruppi lenti complessi, il paraluce diventa una barriera contro urti, graffi e agenti atmosferici.

Oggi, ogni obiettivo professionale è fornito con il suo paraluce dedicato, progettato in base alla lunghezza focale e all’angolo di campo. Alcuni modelli, come quelli per ottiche fish-eye, sono integrati nel barilotto, mentre per teleobiettivi si adottano paraluce profondi, spesso in fibra di carbonio per ridurre il peso. La storia del paraluce è dunque la storia della lotta contro la luce non controllata, una sfida iniziata quasi due secoli fa e ancora attuale, nonostante i progressi dei trattamenti ottici.

Tipologie di paraluce e principi di funzionamento

Il paraluce non è un semplice tubo: la sua efficacia dipende da forma, profondità e materiale, parametri che devono essere calibrati sull’ottica. Il principio fisico è chiaro: impedire ai raggi luminosi provenienti da angoli esterni all’inquadratura di colpire la lente frontale. Quando la luce parassita entra nell’obiettivo, si riflette tra gli elementi ottici e il diaframma, generando riflessi multipli e perdita di contrasto. Questo fenomeno, noto come lens flare, può assumere forme diverse: aloni circolari, macchie luminose, immagini “lavate”. Il paraluce agisce come barriera selettiva: blocca la luce indesiderata senza interferire con il campo visivo.

Esistono due macro-tipologie: cilindrico e a petalo. Il paraluce cilindrico è ideale per teleobiettivi e ottiche a focale fissa standard, dove l’angolo di campo è stretto e il rischio di vignettatura minimo. La sua lunghezza può superare i 10 cm nei supertele, garantendo una schermatura efficace. Il paraluce a petalo, detto anche “a tulipano”, nasce per gli zoom e i grandangolari: la sua forma sagomata segue il profilo rettangolare del sensore, evitando che le estremità entrino nell’inquadratura alle focali più corte. Questa geometria complessa è frutto di calcoli ottici precisi, che considerano la proiezione dell’immagine sul piano focale.

Oltre alla forma, il materiale è cruciale. I primi paraluce erano in metallo, robusti ma pesanti e soggetti a riflessi interni. Oggi prevale la plastica opaca, talvolta con rivestimenti antiriflesso o scanalature interne per assorbire la luce. Alcuni modelli professionali adottano fibra di carbonio o compositi, per coniugare leggerezza e rigidità. Esistono anche paraluce in gomma, flessibili e retrattili, utili per chi cerca compattezza. La scelta del materiale incide sulla resistenza agli urti e sulla capacità di attenuare riflessi interni.

Il paraluce svolge anche una funzione meccanica: protegge la lente frontale da graffi, polvere e pioggia. In caso di urto, assorbe parte dell’energia, riducendo il rischio di danni costosi. Per questo, molti fotografi lo mantengono montato anche in interni. Alcuni modelli sono reversibili, progettati per essere montati al contrario durante il trasporto, riducendo l’ingombro. Nei sistemi professionali, il paraluce è spesso dotato di innesto a baionetta, che garantisce fissaggio rapido e sicuro, mentre nelle ottiche economiche si trovano ancora modelli a vite.

Un aspetto poco noto è l’interazione tra paraluce e filtri. L’uso simultaneo di filtri spessi può generare vignettatura, soprattutto con grandangolari, e richiede paraluce più corti o sagomati. Alcuni produttori offrono paraluce con finestre di accesso per regolare filtri polarizzatori senza smontare l’accessorio. Questo dettaglio evidenzia la complessità progettuale di un componente apparentemente semplice, ma in realtà frutto di studi ottici e ergonomici.

Design, materiali e produttori storici

Il design del paraluce è il risultato di un compromesso tra efficacia ottica, ergonomia e estetica. Nei primi decenni del Novecento, i paraluce erano cilindri metallici, spesso cromati, che conferivano alle fotocamere un aspetto tecnico ma poco pratico. Con l’avvento delle reflex compatte, i produttori iniziano a curare il design: superfici opache, scanalature interne, innesti rapidi. Negli anni ’80, il paraluce diventa anche elemento estetico: i modelli Canon e Nikon adottano linee fluide e finiture coordinate al barilotto, mentre marchi come Fujifilm e Leica puntano su design minimalista, coerente con la filosofia del brand.

Sul fronte dei materiali, la plastica ad alta densità domina dagli anni ’70, grazie alla sua leggerezza e capacità di assorbire urti. Nei tele professionali si sperimenta la fibra di carbonio, che riduce il peso senza compromettere la rigidità. Alcuni paraluce di fascia alta presentano trattamenti antiriflesso interni, con superfici vellutate o microstrutturate per minimizzare la luce diffusa. Nei modelli economici, si trovano ancora paraluce in gomma, apprezzati per la loro flessibilità ma meno efficaci contro il flare.

Tra i produttori storici, spiccano Canon (fondata nel 1937) e Nikon (1917), che hanno standardizzato il paraluce come parte del kit ottico. Leitz, oggi Leica, è stata pioniera negli anni ’30, mentre Zeiss ha introdotto soluzioni innovative per ottiche cinematografiche. Nel mercato contemporaneo, oltre ai brand fotografici, operano aziende specializzate come Emilyfoto, che produce paraluce compatibili per diversi sistemi, puntando su materiali durevoli e design universale. La diffusione di paraluce aftermarket testimonia la domanda costante di questo accessorio, considerato essenziale anche nell’era digitale.

Il paraluce non è solo un componente tecnico: è un simbolo di professionalità. Nella percezione comune, una fotocamera con paraluce appare “completa”, pronta per affrontare condizioni di luce difficili. Questa valenza estetica si affianca alla funzione primaria, che resta invariata da quasi un secolo: proteggere la qualità dell’immagine. In un’epoca dominata da sensori sofisticati e algoritmi di correzione, il paraluce continua a svolgere un ruolo insostituibile, perché agisce sulla luce prima che entri nell’obiettivo, prevenendo problemi che nessun software può eliminare completamente.

Materiali e design: evoluzione tecnica e scelte costruttive

Il paraluce, pur apparendo un componente semplice, è il risultato di una progettazione complessa che coinvolge fisica ottica, ergonomia e ingegneria dei materiali. La sua funzione primaria – schermare la luce parassita – impone requisiti precisi: rigidità strutturale, leggerezza, assenza di riflessi interni e resistenza agli agenti esterni. Analizzare i materiali e il design significa comprendere come l’industria fotografica abbia risposto a queste esigenze nel corso di oltre un secolo.

Nei primi modelli degli anni ’30, il materiale dominante era il metallo, in particolare ottone e alluminio. L’ottone, utilizzato da marchi come Leitz, garantiva robustezza e stabilità dimensionale, ma aumentava il peso complessivo della fotocamera. L’alluminio, più leggero, si diffonde negli anni ’50, quando la portabilità diventa prioritaria con l’avvento delle reflex compatte. Questi paraluce metallici erano spesso cromati o verniciati di nero lucido, una scelta estetica che però generava riflessi interni indesiderati. Per mitigare il problema, i produttori iniziano a introdurre trattamenti opachi e scanalature interne, creando superfici che assorbono la luce anziché rifletterla.

Negli anni ’70, la rivoluzione arriva con la plastica ad alta densità, in particolare polimeri come ABS e policarbonato. Questi materiali offrono vantaggi decisivi: leggerezza, facilità di stampaggio e costi ridotti. La plastica consente di realizzare forme complesse, come i paraluce a petalo, impossibili da ottenere con lavorazioni metalliche tradizionali. Inoltre, la superficie interna può essere trattata con microstrutture antiriflesso, ottenute direttamente in fase di stampaggio. Il policarbonato, introdotto nei modelli professionali, aggiunge resistenza agli urti e stabilità termica, qualità essenziali per l’uso in condizioni estreme.

Parallelamente, si sperimentano materiali compositi. Nei teleobiettivi professionali, dove il paraluce può superare i 20 cm di lunghezza, il peso diventa critico. Per ridurlo, marchi come Canon e Nikon adottano fibra di carbonio, un materiale che combina rigidità e leggerezza. La fibra di carbonio, stratificata con resine epossidiche, garantisce una struttura indeformabile, capace di resistere a torsioni e impatti. Questa scelta, tuttavia, comporta costi elevati e resta confinata alle ottiche di fascia alta.

Un’altra soluzione è la gomma vulcanizzata, utilizzata per paraluce retrattili negli anni ’80 e ’90. Questi modelli, pensati per la fotografia itinerante, offrono compattezza e flessibilità, ma presentano limiti: minore efficacia contro il flare e scarsa protezione meccanica. Oggi, la gomma sopravvive solo in prodotti economici o vintage.

Sul fronte del design, l’evoluzione è altrettanto significativa. Il paraluce cilindrico, semplice e funzionale, domina fino agli anni ’60. Con la diffusione dei grandangolari, emerge la necessità di forme sagomate: nasce il paraluce a petalo, caratterizzato da rientranze che seguono il profilo rettangolare del sensore. Questa geometria è frutto di calcoli ottici complessi: ogni curva è progettata per massimizzare la schermatura senza entrare nel campo visivo alle focali più corte. Nei modelli zoom, il design deve considerare la variazione dell’angolo di campo, imponendo compromessi tra profondità e apertura.

Un dettaglio tecnico cruciale è la finitura interna. Nei paraluce professionali, la superficie è rivestita con vernici opache ad alto coefficiente di assorbimento o con floccatura, un trattamento che deposita microfibre per creare una texture vellutata capace di catturare la luce diffusa. Questa soluzione, mutuata dall’industria automobilistica, riduce drasticamente i riflessi interni, migliorando il contrasto dell’immagine.

Il design esterno, invece, risponde a esigenze ergonomiche e estetiche. Negli anni ’80, i produttori iniziano a curare le linee, integrando il paraluce nel linguaggio stilistico del brand. Canon adotta forme fluide e finiture satinate, Nikon privilegia profili robusti e texture antiscivolo. Leica, fedele alla sua filosofia minimalista, propone paraluce compatti e discreti, spesso in metallo anodizzato, per preservare l’eleganza delle sue ottiche.

Oggi, il paraluce è progettato con software CAD e simulazioni ottiche, che permettono di ottimizzare ogni dettaglio. Alcuni modelli includono finestre di accesso per regolare filtri polarizzatori, altri adottano innesti a baionetta con blocco di sicurezza, per evitare sganci accidentali. Nei sistemi mirrorless, dove la compattezza è prioritaria, si sperimentano paraluce integrati nel barilotto, una soluzione che riduce l’ingombro ma limita la versatilità.

In sintesi, materiali e design del paraluce riflettono l’evoluzione tecnologica della fotografia: da cilindri metallici pesanti a strutture composite leggere e sagomate, ogni scelta è guidata dall’obiettivo di proteggere la qualità dell’immagine e garantire praticità d’uso. Un componente apparentemente semplice, ma in realtà frutto di decenni di ricerca e innovazione.

Fonti

Curiosità Fotografiche

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