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Imogen Cunningham

Imogen Cunningham nacque il 12 aprile 1883 a Portland, nell’Oregon, una regione allora ancora profondamente legata alla natura e alla vita rurale. Trascorse gli ultimi anni della sua lunga esistenza a San Francisco, in California, dove si spense il 24 giugno 1976, lasciando un’eredità fotografica che abbraccia quasi tutto il Novecento.

Imogen Cunningham fu una delle figure più versatili e longeve nella storia della fotografia del XX secolo. Attiva per oltre sette decenni, la sua opera ha attraversato innumerevoli correnti artistiche, tecniche e ideologiche, mantenendo però una coerenza profonda nel rapporto tra forma, luce e materia organica. Celebre per le sue immagini di fiori in macro, nudi femminili e ritratti ambientati, Cunningham fu una pioniera nella sperimentazione della fotografia come linguaggio moderno, ma anche una delle prime a rivendicarne l’autonomia come forma espressiva a pieno titolo, al di fuori delle retoriche documentarie o pittorialiste.

Imogen Cunningham crebbe in una famiglia quacchera del nord-ovest americano, dove ricevette un’educazione severa ma intellettualmente stimolante. Dopo aver scoperto le potenzialità espressive della fotografia intorno ai diciassette anni, acquistò la sua prima fotocamera a cassetta grazie al mail order di un’azienda di Seattle e iniziò a sviluppare i negativi nel retro della casa di famiglia. Fin da subito, mostrò un interesse spiccato per i processi chimici, dedicandosi con rigore allo studio della chimica dei sali d’argento e della stampa a contatto su carta salata.

Frequentò l’Università di Washington a Seattle, laureandosi nel 1907 con una tesi dedicata alla azione della luce sulle emulsioni fotografiche: uno studio in cui analizzava, con metodo sperimentale, la reazione dei bromuri d’argento alla luce UV, in funzione della temperatura e della concentrazione della gelatina. Questo approccio scientifico anticipava il rigore che avrebbe caratterizzato tutta la sua produzione futura, anche negli ambiti apparentemente più “artistici” come i nudi o i fiori.

Durante questo periodo, Cunningham lavorò nel laboratorio fotografico del professor Horace Byers, dove approfondì le tecniche di coating manuale delle lastre, la formulazione dei bagni di sviluppo a base di metolo e idrochinone, e l’impiego di agenti compensatori per mantenere dettaglio nelle alte luci. Realizzava le sue prime immagini utilizzando lastre di vetro sensibilizzate artigianalmente, con un banco ottico dotato di obiettivi Rapid Rectilinear e di un soffietto a doppia estensione, che permetteva una correzione prospettica precisa nei soggetti architettonici e botanici.

Grazie a una borsa di studio, nel 1909 si trasferì a Dresda, in Germania, per studiare alla Technische Hochschule, dove entrò in contatto con gli sviluppi più avanzati della fotografia scientifica e tecnica europea. In questo contesto, apprese i fondamenti dell’ottica geometrica, del calcolo della profondità di campo, dell’uso del collimatore e della costruzione di curve caratteristiche delle emulsioni. Fu un periodo decisivo, durante il quale maturò una visione della fotografia non più come semplice strumento documentario, ma come sistema integrato di osservazione, misura e interpretazione.

Il rifiuto del pittorialismo e la svolta modernista

Dopo un breve periodo di apprendistato presso il celebre fotografo Edward S. Curtis, con il quale imparò le tecniche avanzate di stampa al platino e al carbone, Cunningham aprì il suo primo studio a Seattle nel 1910. All’epoca era ancora influenzata dal pittorialismo, corrente dominante nella fotografia d’arte americana dell’inizio del Novecento, che promuoveva immagini soffuse, viraggi romantici, pose languide e composizioni ispirate alla pittura simbolista. Le sue prime fotografie di paesaggi e ritratti furono stampate su carta giapponese con viraggi al platino-palladio, realizzati tramite esposizione a luce solare e sviluppo a sviluppo controllato.

Tuttavia, già nei primi anni Venti, Cunningham cominciò a distaccarsi nettamente da questo stile. L’influenza di artisti europei come Rodchenko e László Moholy-Nagy, insieme all’emergere della fotografia modernista negli Stati Uniti, la portarono verso un’estetica molto più rigorosa. Le immagini divennero più nitide, geometriche, asciutte. Abbandonò i filtri diffusori e le carte a superficie morbida, optando per stampe su carta baritata lucida con contrasto medio-alto, sviluppate in Metol-Hydroquinone (MQ) ad alta concentrazione e fissate con iposolfito sodico ad agitazione costante per garantire uniformità.

Il suo lavoro sui nudi femminili, eseguito negli anni Venti e Trenta, fu particolarmente innovativo. Utilizzava un banco ottico 8×10″ con obiettivi a focale lunga (fino a 450 mm), che le permettevano una resa plastica naturale, senza distorsione. I nudi non erano mai erotici nel senso commerciale del termine, ma studi sulla forma corporea, la luce radente, la tessitura epidermica. Le luci utilizzate erano in parte naturali e in parte artificiali (lampade a incandescenza da 500 watt), sempre modulate da parabole in alluminio spazzolato e diffusori in seta grezza, per ottenere un effetto tridimensionale ma non teatrale.

Nel 1932 fu una delle fondatrici del gruppo f/64, insieme ad Edward Weston, Ansel Adams e Willard Van Dyke. Questo collettivo si proponeva di difendere una fotografia puramente ottica, ad alta definizione, contrapposta sia al pittorialismo che all’uso illustrativo della macchina fotografica. Il nome stesso del gruppo derivava dal valore di diaframma estremamente chiuso (f/64), che garantiva la massima profondità di campo e nitidezza diffusa su tutto il fotogramma. Per Cunningham, questo significava anche un ritorno alla precisione scientifica: ogni dettaglio, anche il più insignificante, poteva contenere valore visivo e conoscitivo.

Botanica, forme naturali e precisione formale

L’aspetto forse più noto dell’opera di Imogen Cunningham resta il suo lavoro dedicato alla morfologia vegetale, in particolare la serie di immagini dedicate a magnolie, calle, foglie, funghi e frutti, realizzate prevalentemente negli anni Trenta e Quaranta. In queste fotografie, il soggetto vegetale diventa il fulcro di un’indagine ottico-formale quasi chirurgica: le nervature, le curvature, le simmetrie, le torsioni delle piante vengono isolate e studiate come architetture naturali.

Utilizzava in questa fase una fotocamera a banco ottico Deardorff 8×10″, dotata di lenti Schneider Symmar e Rodenstock Sironar, che le permettevano di mantenere un piano di fuoco perfettamente ortogonale anche con soggetti tridimensionali. Le pellicole erano spesso Kodak Panatomic-X, selezionate per la grana finissima e la gamma tonale estesa. Le esposizioni variavano da 1 secondo a 30 secondi, a seconda della luminosità, e venivano misurate con esposimetri analogici Weston Master II, tarati a luce incidente. I diaframmi più comuni erano f/32 o f/45, proprio per sfruttare la massima profondità di campo senza penalizzare la nitidezza centrale.

La stampa finale veniva effettuata su carte a emulsione rigida, come Kodabromide F2, e sottoposta a sviluppo con controllo a due bagni: il primo per ottenere i neri profondi, il secondo per esaltare i toni intermedi. Alcune stampe botaniche furono anche virate al selenio, per aumentare la stabilità e intensificare i toni freddi delle ombre.

Per ottenere l’effetto di luce diffusa che caratterizza molte delle sue immagini botaniche, Cunningham costruì un piccolo studio mobile in giardino, fatto di telai in legno e tessuto transluscente, che filtravano la luce diretta del sole. Ogni soggetto veniva posizionato in modo da evitare riflessi speculari, usando piccoli pannelli di cartone grigio per compensare le ombre e mascherature locali durante l’esposizione.

Nonostante l’apparente semplicità, queste immagini furono il frutto di una sofisticata strategia di controllo ottico, gestione della luce, e comprensione della materia organica. Cunningham vedeva nella pianta non solo un soggetto, ma un organismo dotato di una logica formale interna che la fotografia doveva rivelare.

Ritratto, documentazione sociale e ultimi lavori

Negli anni Cinquanta e Sessanta, Imogen Cunningham si dedicò con intensità crescente al ritratto ambientato, sviluppando una tecnica personale che combinava la composizione attenta alla luce naturale con un approccio psicologico e relazionale. Fotografò artisti, poeti, scrittori, attivisti e persone comuni, spesso nei loro ambienti domestici o lavorativi. Queste immagini non avevano nulla dell’enfasi teatrale o della monumentalità dei ritratti tradizionali: erano intime, asciutte, precise.

In questa fase, passò progressivamente all’uso di fotocamere Rolleiflex 6×6, che le permettevano maggiore mobilità e spontaneità. Le pellicole utilizzate erano prevalentemente Ilford FP4 e HP5, sviluppate in ID-11 con tecnica a rotazione, per garantire uniformità tonale e grana controllata. Stampava su carte lucide multigrade, utilizzando mascherature manuali su cartoncino sottile per equilibrare luci e ombre in stampa.

Cunningham non rinunciò mai al lavoro in camera oscura, nemmeno in età avanzata. Anche a 90 anni continuava a stampare da sola i suoi negativi, spesso in formati 24×30 o 40×50 cm. I suoi ultimi progetti includevano ritratti di anziani, autoritratti e studi su mani e oggetti, tutti caratterizzati da una precisione formale e da una chiarezza visiva che testimoniano un’assoluta padronanza tecnica.

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