La modalità burst (o scatto continuo) consente di acquisire una serie di fotografie in rapida successione tenendo premuto il pulsante di scatto. Dal punto di vista tecnico, questo significa che la fotocamera deve catturare, convertire ed elaborare più immagini nell’unità di tempo definita dai frame rate (fps, frames per second). In pratica ogni singolo frame segue l’intera catena di acquisizione: i pixel del sensore rilevano la luce, il segnale analogico viene trasformato in digitale dal convertitore A/D, e i dati digitali transitano nella pipeline di elaborazione dell’immagine. Per sostenere una raffica fluida è fondamentale che ogni componente del sistema sia sufficientemente veloce. Ad esempio, un sensore CMOS di ultima generazione con alta velocità di lettura può produrre grandi volumi di dati, che poi vengono assegnati a un potente processore d’immagine (ISP) per calcoli di esposizione, riduzione del rumore, bilanciamento del bianco, compressione JPEG/RAW, ecc. Tuttavia, anche il più efficiente ISP non garantisce prestazioni ottimali se il buffer di memoria interno è limitato o la scheda di memoria è lenta. In modalità burst, le immagini vengono inizialmente immagazzinate in una RAM ad alta velocità (buffer temporaneo) prima di essere trasferite alla memoria flash. Quando si scatta a raffica prolungata il buffer può saturarsi: a quel punto la fotocamera rallenta o si interrompe per consentire la scrittura dei dati. In sintesi, la frequenza di scatto è condizionata dal collo di bottiglia nell’intera catena di acquisizione: sensore, ADC, ISP, memoria buffer e supporto di archiviazione devono gestire simultaneamente il flusso di dati.
Alcune fotocamere sfruttano soluzioni avanzate per incrementare la velocità di raffica. Ad esempio, l’uso di circuiti paralleli di elaborazione (concetto introdotto ad esempio nel motore Casio EXILIM HS) riduce drasticamente l’intervallo tra un fotogramma e l’altro, permettendo scatti continuativi fino a 40 fps. Tali sistemi impiegano processori multi-core riconfigurabili con percorsi indipendenti di elaborazione dell’immagine, gestendo più scatti contemporaneamente. Inoltre, alcuni sensori CMOS sono realizzati con architettura stacked e dispongono di memoria integrata nel chip: questo accorgimento consente di salvare temporaneamente i dati di ciascun fotogramma direttamente sulla stessa superficie del sensore, facilitando raffiche estremamente veloci (fino a 20 fps) senza bisogno di trasferire immediatamente tutto sul buffer esterno.
Un altro elemento chiave è l’otturatore. Nelle reflex tradizionali l’otturatore meccanico richiede un tempo fisico per aprirsi e chiudersi ad ogni scatto, limitando i fps tipicamente a qualche decina al massimo. Le fotocamere mirrorless moderne spesso integrano un otturatore elettronico che legge il sensore fotoelettrico in continuazione, eliminando del tutto il ritardo meccanico. Ciò abbatte parzialmente il vincolo di velocità, ma non elimina gli altri limiti di pipeline. Come osservato in un’analisi tecnica, “anche se l’otturatore meccanico è un fattore chiave, eliminarlo non significa automaticamente poter scattare a frame rate molto più alti: ogni componente deve reggere il carico di dati”. In definitiva, il frame rate di una raffica è determinato dal componente più lento: sensore, ADC, DSP, memoria buffer o supporto di archiviazione. In una fotocamera professionale, tutti questi elementi sono dimensionati per operare al limite, garantendo raffiche prolungate senza cedimenti. Solo così si evitano pause indesiderate tra un colpo di otturatore e l’altro, rendendo la modalità burst un’efficace combinazione di hardware d’avanguardia e pipeline dati.
Storia e sviluppo della modalità burst
Le radici della modalità burst affondano nell’era della pellicola. Prima della fotografia digitale, catturare un’azione rapida richiedeva l’utilizzo di motori di trascinamento della pellicola montati su reflex analogiche. Un esempio storico significativo è la Nikon F High Speed del 1971: equipaggiata con un motore High Speed Motor Drive ottenne la prima velocità di raffica da 7 fps su pellicola 35mm. In questo prototipo pionieristico si adottò uno specchio fisso semitrasparente (pellicola traslucida) anziché lo specchio oscillante convenzionale, per eliminare il movimento meccanico tra gli scatti e consentire così un’alta cadenza di scatto.
Negli anni successivi furono ancora Canon e Nikon a spingere i limiti delle reflex analogiche. Un modello emblematico è la Canon New F-1 High Speed del 1984: fu una versione speciale della New F-1 dotata di motore integrato in grado di raggiungere ben 14 fps, record mondiale assoluto nella fotografia su pellicola. Questi sistemi d’élite (spesso realizzati in edizioni limitate per eventi sportivi, come le Olimpiadi) dimostrarono che motori elettrici potenti e specchi a bassa inerzia potevano elevare notevolmente la velocità operativa. In generale, con l’evoluzione della tecnologia analogica, molte fotocamere professionali integrarono motori che permettevano scatti continui nell’ordine di 5–10 fps. Verso la fine del XX secolo, la gran parte delle SLR 35mm amatoriali o pro aveva motor drive integrati che superavano agevolmente 3–4 fps, preparandosi al passaggio all’era digitale.
Con l’avvento del digitale la modalità burst conobbe una vera rivoluzione. I primi reflex digitali (DSLR) di fine anni ’90 avevano capacità di raffica modeste (tipicamente 3–5 fps), ma i modelli professionali evolsero rapidamente. Ad esempio all’inizio degli anni 2000 la Nikon D1 scattava 4,5 fps, la Canon EOS-1D II e la Nikon D2H spinsero attorno a 8 fps, e già nel 2007 fotocamere come la Canon EOS-1D Mark III raggiungevano 10 fps continui. Questi progressi sono assecondati da buffer sempre più ampi e schede a elevata velocità di scrittura, permettendo lunghe sequenze prima di riempire la memoria interna. Negli anni 2010 i limiti delle DSLR top di gamma si spostarono oltre i 10 fps: ad esempio la Canon EOS-1D X (2012) arrivava a 12 fps, mentre la Nikon D6 (2020) proponeva 14 fps.
Parallelamente, le mirrorless hanno innalzato ulteriormente l’asticella. Già dal primo Sony A9 (2017) si è potuto scattare a 20 fps in modalità silenziosa, grazie a un sensore CMOS stacked con memoria integrata. Il Sony A9 II (2019) e molti modelli successivi confermano questa tendenza: nel loro cuore un sensore full-frame stacked che consente di gestire raffiche ultra-veloci con tracciamento AF/AE continuo. Negli ultimi anni l’offerta mirrorless di punta ha raggiunto picchi come i 20 fps del Nikon Z9 o addirittura i 30 fps elettronici del Canon R3 (in certe condizioni di scatto).
Anche il mondo degli smartphone ha iniziato a proporre modalità burst avanzate. Pur avendo sensori molto più piccoli, i telefoni di fascia alta contengono potenti ISP e memorie flash rapidissime. Alcuni produttori dichiarano burst fino a 20 fps (ad esempio Huawei ha pubblicizzato 20 fps sui modelli top) grazie alla capacità di elaborare rapidamente molte immagini in sequenza. Recenti smartphone estendono questo concetto fino a raffiche superveloci: la recensione di OPPO Find X8 Ultra riporta una modalità burst fino a 120 fps in JPEG, garantendo di non “perdere mai il momento decisivo”. Tuttavia, questi dati sono spesso ottenuti a risoluzione ridotta o con compressione spinta.
In sintesi, l’evoluzione storica mostra una tendenza continua all’aumento degli fps: dalle poche unità dei motori analogici d’epoca fino alle decine di frame per secondo delle mirrorless moderne e agli incredibili valori “stressati” dei prototipi smartphone. Oggi la domanda sul “miglior burst mode” dipende dall’uso: per applicazioni professionali si guarderanno le reflex top, ma la tendenza tecnologica spinge verso le mirrorless come soluzioni più agili, mentre gli smartphone cercano di colmare il gap con DSP sempre più potenti.
Raffica in DSLR, mirrorless e smartphone
Le caratteristiche architetturali distinguono nettamente le prestazioni in raffica di reflex, mirrorless e smartphone. Le DSLR adottano specchio e otturatore meccanici: ciò significa che ad ogni scatto il mirror si solleva e l’otturatore si apre, creando un breve blackout nel mirino ottico. Questo movimento introduce vibrazioni (il cosiddetto mirror slap) che possono deteriorare nitidezza e contrasto, oltre a un limite intrinseco alla velocità di scatto (solitamente fino a ~10–14 fps nei modelli professionali). Le reflex storicamente sono state apprezzate per l’affidabilità dell’autofocus reflex e per il mirino ottico nitido, ma la flip del mirror limita la visione in tempo reale durante la raffica. Inoltre, molti sistemi reflex impiegano doppi processori d’immagine e batterie capienti per sostenere forti burst, aggiungendo spesso anche un battery grip per migliorare il buffering. In termini di implementazione tecnica, le DSLR privilegiano una pipeline dedicata robusta, ma pagano in velocità quella transizione meccanica necessaria fra i frame.
Le mirrorless, al contrario, non hanno parti mobili in primo piano: usano quasi esclusivamente l’otturatore elettronico (e a volte anche quello meccanico solo come backup). In pratica il sensore rimane sempre pronto a leggere la luce, e l’immagine ripresa arriva istantaneamente al mirino elettronico (EVF) senza blackout tra i fotogrammi. Questo consente raffiche estremamente rapide: i modelli di punta sfruttano sensori con lettura globale ultrarapida e DSP avanzati. Ad esempio, il Sony A9 II incorpora un sensore empilato con memoria, raggiungendo raffiche continue a 20 fps. Le mirrorless modernissime possono spingersi anche oltre: grazie all’elaborazione completamente digitale è possibile arrivare a 30 fps in RAW senza interruzioni (come nel Canon R3). L’EVF inoltre aggiorna la scena a centinaia di fotogrammi al secondo, permettendo un tracking fluido del soggetto in movimento. D’altro canto, la grande richiesta di calcolo fa consumare rapidamente la batteria e genera calore; per questo anche le mirrorless adottano soluzioni di dissipazione avanzate e talvolta limitano la durata della raffica automatica.
Gli smartphone rappresentano un caso diverso ma interessante. Non avendo otturatore fisico, tutti gli scatti sono effettuati via e-shutter. La potenza di calcolo è fornita dal SoC e dal DSP integrato, ma il sensore è molto piccolo e non dispone di memoria locale come i sensori professionali. In compenso, gli smartphone adottano memorie flash UFS velocissime e algoritmi di compressione intelligente che permettono burst intensivi anche in spazi ridotti. I top di gamma possono raggiungere fino a 20 fps o oltre (qualcuno dichiara 120 fps in JPEG), ma spesso con risoluzione scalata e senza buffer dedicato su supporto rimovibile. In generale, gli smartphone utilizzano la raffica soprattutto per generare output HDR o per selezionare il miglior fotogramma, piuttosto che per produrre sequenze RAW di grandi dimensioni. Rispetto alle fotocamere dedicate hanno un vantaggio: quasi assenza di limiti meccanici (quindi nessun mirror slap), ma uno svantaggio: sensori piccoli, autonomia limitata e pipeline di memorizzazione non specializzata.
Un’altra differenza è il mirino: nelle DSLR c’è il mirino ottico (OVF), nelle mirrorless un EVF digitale, negli smartphone si usa esclusivamente il display. Questo influisce sul workflow in raffica: il mirino ottico non mostra i risultati finché l’otturatore è chiuso (e durante la raffica vede il fotogramma appena colpito dal mirror), mentre l’EVF è sempre attivo e può persino visualizzare in diretta piccoli ritardi di esposizione/AF. Queste differenze strutturali determinano scelte diverse degli utenti: uno sportivo o fotoreporter professionista può preferire una DSLR di lunga gittata con batteria tampone, mentre un appassionato “on the go” potrebbe scegliere una mirrorless o uno smartphone ultra-veloce. In ogni caso, come sottolinea una guida contemporanea, “per scattare sequenze d’azione è necessario un’architettura di elaborazione potente e un otturatore elettronico”, e oggi i dispositivi più performanti in burst sono proprio quelli senza vincoli meccanici. Anche alcuni smartphone di fascia alta si stanno avvicinando a queste performance: con ISP dedicati e AI on-device, alcuni telefoni dichiarano burst fino a 20 fps, dimostrando che la distinzione tra fotocamera e smartphone in ottica burst sta progressivamente sbiadendo.
Utilizzi pratici nei vari generi fotografici
La modalità burst è impiegata ogni volta che c’è bisogno di catturare un’azione imprevedibile. Nella fotografia sportiva, ad esempio, non si può scattare singolarmente sperando di azzeccare il momento: si lascia l’otturatore premuto per registrare decine di fotogrammi intorno all’evento (un salto, un tiro, un impatto), e poi si sceglie l’immagine con l’espressione e la composizione ottimali. In questi casi, è prassi abbinare alla raffica anche la messa a fuoco continua (AF-C) e tempi di scatto rapidi, per congelare il movimento nel fotogramma.
Anche la fotografia naturalistica e wildlife fa un largo uso della raffica. Gli animali selvatici (uccelli in volo, mammiferi in corsa, insetti in volo) si comportano in modo imprevedibile e spesso compaiono nell’inquadratura per una frazione di secondo. Tenere premuto il pulsante di scatto crea una sequenza veloce di immagini, aumentando le probabilità di cogliere almeno un fotogramma nitido nel momento decisivo. In questa ottica, come suggerito nei consigli di scatto, «non aspettare che l’animale sia perfettamente fermo o in posa: inizia subito a scattare in raffica e vedrai che tra le decine di scatti comparirà quello ideale». Lo stesso vale per animali domestici o bambini: soggetti “vivaci” che raramente restano immobili, per i quali la raffica diventa una strategia vincente per avere sempre almeno un’immagine perfetta nell’insieme di scatti.
Nel fotogiornalismo e nel reportage in generale la raffica è altrettanto preziosa. Scene di cronaca, manifestazioni, incidenti o situazioni di strada cambiano in un lampo; non si può chiedere al soggetto di rifare la scena. È tipico dei fotografi professionisti «non perdere mai il momento decisivo», e usare la raffica significa proprio aumentare la probabilità che un preciso istante – magari l’espressione di una persona o un particolare drammatico – venga catturato senza sfocature. Anche la fotografia street o l’azione in esterni (come il panning nel ciclismo o le acrobazie urbane) beneficiano di scatti multipli: scattare in sequenza permette di selezionare in post-produzione il fotogramma che meglio trasmette dinamicità e atmosfera.
Infine, anche generi più creativi o ricreativi usano la raffica: ad esempio nella macrofotografia di insetti e fiori, o negli esperimenti di high-speed (schizzi d’acqua, esplosioni di colori). In questi casi le fotocamere professionali offrono talvolta modalità speciali di pre-scatto (buffer circolare) che registrano immagini poco prima della pressione finale dell’otturatore, garantendo di non perdere eventi brevissimi. In ogni contesto pratico si parte solitamente da pochi scatti in singola e, quando l’azione aumenta di intensità, si passa alla raffica continuativa.
La modalità burst si rivela uno strumento cruciale per ogni fotografo che punti a congelare l’istante chiave di un’azione. Da una parte consente di “parlare” con migliaia di immagini anziché uno scatto solo, offrendo una sorta di assicurazione contro il mosso o la posa mancata. Dall’altra, impone vincoli maggiori su esposizione, autofocus e capacità di elaborazione. Resta il fatto che per lo scatto d’azione ogni fotogramma vale: usare la raffica significa aumentare le possibilità di cogliere quell’istante perfetto. Per questo, in molti generi – dallo sport alla fauna, dal fotogiornalismo all’azione creativa – la raffica viene considerata imprescindibile.

Mi chiamo Marco Adelanti, ho 35 anni e vivo la mia vita tra due grandi passioni: la fotografia e la motocicletta. Viaggiare su due ruote mi ha insegnato a guardare il mondo con occhi più attenti, pronti a cogliere l’attimo, la luce giusta, il dettaglio che racconta una storia. Ho iniziato a fotografare per documentare i miei itinerari, ma col tempo è diventata una vera vocazione, che mi ha portato ad approfondire la storia della fotografia e a studiarne i protagonisti, gli stili e le trasformazioni tecniche. Su storiadellafotografia.com porto una prospettiva dinamica, visiva e concreta: mi piace raccontare l’evoluzione della fotografia come se fosse un viaggio, fatto di tappe, incontri e visioni. Scrivo per chi ama l’immagine come mezzo di scoperta e libertà, proprio come un lungo viaggio su strada.