Il termine bokeh, derivato dal giapponese “boke” (sfocatura), entra nel lessico fotografico internazionale negli anni Novanta, ma la sua pratica è molto più antica. Già nei primi decenni del Novecento, i fotografi di ritratto cercavano di isolare il soggetto dallo sfondo attraverso una ridotta profondità di campo, ottenuta con diaframmi molto aperti e ottiche luminose. Tuttavia, il concetto estetico di bokeh come qualità dello sfuocato non era ancora codificato: si parlava di “sfondo morbido” o “fuori fuoco”, senza attribuire un valore artistico autonomo alla resa delle aree non nitide.
La data di nascita del termine “bokeh” come categoria estetica si colloca attorno al 1997, quando la rivista Photo Techniques pubblica articoli dedicati alla qualità dello sfocato, distinguendo tra “good bokeh” e “bad bokeh”. Da quel momento, il bokeh diventa un parametro di valutazione delle ottiche, non solo per la nitidezza ma per la piacevolezza delle transizioni tonali e cromatiche nelle zone fuori fuoco. Questo cambiamento culturale è legato all’evoluzione tecnologica: negli anni Ottanta e Novanta, la diffusione delle reflex autofocus e delle ottiche super-luminose (f/1.4, f/1.2) rende più accessibile la possibilità di ottenere sfondi cremosi e separazione marcata del soggetto.
Dal punto di vista tecnico, il bokeh non è semplicemente “sfocatura”, ma la qualità di quella sfocatura. Due immagini con la stessa profondità di campo possono avere bokeh molto diverso, a seconda della costruzione ottica, del numero e della forma delle lamelle del diaframma, della correzione delle aberrazioni sferiche. Un bokeh “gradevole” si riconosce per la transizione morbida tra piano a fuoco e sfondo, per la forma circolare e uniforme dei punti luce fuori fuoco, per l’assenza di contorni duri o doppie linee. Al contrario, un bokeh “distratto” presenta dischi di confusione con bordi netti, strutture nervose e contrasti eccessivi che sottraggono attenzione al soggetto.
Storicamente, le ottiche da ritratto hanno giocato un ruolo chiave nello sviluppo del bokeh. Obiettivi come il Nikkor 85mm f/1.4 o il Canon 85mm f/1.2 sono diventati icone proprio per la loro capacità di generare sfondi vellutati. Nel medio formato, ottiche come il Zeiss Planar 80mm f/2.8 hanno definito lo standard estetico per decenni. Con il digitale, il bokeh ha assunto una nuova centralità: la possibilità di visualizzare immediatamente il risultato ha spinto i fotografi a ricercare sfocati sempre più pronunciati, alimentando la domanda di ottiche luminose e sensori di grande formato. Oggi, il bokeh è un elemento identitario di generi come la fotografia di ritratto, la macrofotografia e persino il video cinematografico, dove la separazione del soggetto dallo sfondo è parte integrante della narrazione visiva.
Fisica dello sfuocato: come apertura diaframma e profondità di campo determinano il bokeh
Per comprendere il bokeh, occorre partire dalla fisica della profondità di campo. Questa è la zona di nitidezza accettabile davanti e dietro il piano di messa a fuoco, e dipende da tre fattori: apertura diaframma, lunghezza focale e distanza dal soggetto. Un diaframma molto aperto (f/1.4, f/2) riduce la profondità di campo, isolando il soggetto e generando uno sfondo sfocato. Tuttavia, la qualità del bokeh non è determinata solo dalla quantità di sfocatura, ma dalla sua struttura. Qui entra in gioco la progettazione ottica: le aberrazioni sferiche controllano la distribuzione della luce nei dischi di confusione, influenzando la morbidezza delle transizioni.
Il triangolo dell’esposizione interagisce con il bokeh in modo indiretto. Aprire il diaframma per ottenere sfocato implica compensare con tempi di scatto più rapidi o ISO più elevati. Questo compromesso tecnico è parte della pratica fotografica: nella fotografia di ritratto, ad esempio, si lavora spesso a f/1.8 o f/2.8 per ottenere separazione, accettando tempi rapidi per congelare il movimento e ISO moderati per mantenere qualità. La scelta dell’apertura non è solo estetica, ma operativa: un diaframma troppo aperto può ridurre la nitidezza sul piano focale e rendere difficile il controllo dell’AF, soprattutto con sensori ad alta risoluzione.
Dal punto di vista ottico, il numero e la forma delle lamelle del diaframma influenzano la geometria del bokeh. Un diaframma con molte lamelle arrotondate produce dischi di confusione circolari e uniformi; uno con poche lamelle dritte genera forme poligonali, percepite come meno armoniose. Anche la correzione delle aberrazioni gioca un ruolo: ottiche con aberrazione sferica residua possono creare bokeh “saponoso”, con contorni morbidi, mentre ottiche molto corrette tendono a produrre sfocati più neutri ma talvolta meno “cremosi”. Questo spiega perché il bokeh è considerato una firma estetica delle ottiche: non è un parametro misurabile con la stessa precisione della nitidezza, ma una qualità percepita che dipende da scelte progettuali.
Un aspetto cruciale è la distanza tra soggetto e sfondo. Anche con diaframmi aperti, se lo sfondo è vicino al soggetto, il bokeh sarà meno pronunciato; se è lontano, lo sfocato diventerà più evidente e uniforme. Questo principio è fondamentale nella fotografia di ritratto: posizionare il soggetto a distanza dal fondale amplifica l’effetto, creando quella separazione che conferisce tridimensionalità all’immagine. La lunghezza focale amplifica ulteriormente il fenomeno: teleobiettivi come 85mm o 135mm, a parità di apertura, generano sfocati più marcati rispetto a focali corte, perché riducono la profondità di campo relativa.
Con il digitale, il bokeh ha acquisito nuove dimensioni. I sensori di grande formato (full frame, medio formato) offrono profondità di campo ridotta rispetto ai sensori APS-C o Micro Quattro Terzi, a parità di apertura e inquadratura. Questo spiega la popolarità delle fotocamere full frame tra i ritrattisti: non è solo una questione di qualità d’immagine, ma di estetica dello sfocato. Anche il software interviene: algoritmi di simulazione del bokeh, presenti negli smartphone, cercano di imitare la resa ottica, ma la differenza con il bokeh reale è percepibile, soprattutto nelle transizioni e nella gestione dei punti luce. Il bokeh autentico resta una conquista ottica, frutto di diaframma, focale e distanza, non di calcolo digitale.
Fonti
Mi chiamo Maria Francia, ho 30 anni e sono una paesaggista con l’anima divisa tra natura e fotografia. Il mio lavoro mi ha insegnato a osservare il mondo con attenzione: le linee dell’orizzonte, i cambi di luce, la geometria naturale dei luoghi. Da qui è nata la mia passione per la fotografia, soprattutto per quella di paesaggio, che considero un’estensione del mio sguardo progettuale e sensibile. Amo raccontare lo spazio attraverso l’obiettivo, e nel farlo mi affascina conoscere chi, prima di me, ha saputo tradurre in immagine l’essenza di un territorio. Su storiadellafotografia.com esploro il dialogo tra ambiente, fotografia e memoria, cercando sempre di dare voce ai paesaggi, veri protagonisti silenziosi della nostra storia visiva.


