Nan Goldin, all’anagrafe Nancy Goldin, nacque il 12 settembre 1953 a Washington D.C., negli Stati Uniti. Proveniente da una famiglia ebraica della classe media, trascorse l’infanzia in Massachusetts, in un contesto familiare segnato da tensioni e fragilità. La sorella maggiore Barbara, figura centrale nella sua memoria e nelle sue opere, morì suicida nel 1965: questo evento traumatico avrebbe segnato in profondità la sensibilità di Goldin, conducendola verso una forma di arte visiva fondata sull’intimità radicale e sull’osservazione delle vite marginali.
Negli anni Settanta intraprese studi presso la School of the Museum of Fine Arts di Boston, dove entrò in contatto con la fotografia contemporanea e con le avanguardie artistiche. L’ambiente formativo della scuola, che privilegiava la sperimentazione e l’autonomia espressiva, le permise di sviluppare un linguaggio personale sin dagli inizi. Goldin non si limitò a seguire i canoni documentaristici tradizionali, ma iniziò a costruire un archivio visivo che univa fotografia diaristica, testimonianza sociale e ricerca estetica.
Dal punto di vista tecnico, già nei primi anni si dedicò all’uso della fotografia a colori in un periodo in cui gran parte della fotografia artistica restava ancorata al bianco e nero. Lavorava principalmente con pellicole Kodak Ektachrome e Kodachrome 35mm, utilizzando fotocamere compatte come la Nikon F e, più tardi, la Leica M6. L’uso del colore era per lei non un semplice espediente formale, ma un mezzo per restituire la fisicità e la verità delle emozioni dei soggetti.
Nan Goldin vive tuttora e continua a produrre opere fotografiche e installative. Il suo percorso non si limita all’attività artistica: negli ultimi anni è divenuta anche una figura centrale nella critica sociale, impegnata contro la crisi degli oppioidi e contro le strategie filantropiche della famiglia Sackler, sostenendo la necessità di una fotografia come strumento di memoria e denuncia.
Formazione artistica e primi progetti fotografici
Durante gli anni bostoniani, Goldin sviluppò una sensibilità profondamente diversa dai canoni della fotografia documentaria dell’epoca. Lontana dalle estetiche fredde e distaccate, decise di esplorare la vita privata e marginale dei suoi amici, spesso membri delle comunità queer, trans e underground.
I suoi primi scatti riflettevano una ricerca istintiva: erano fotografie realizzate in ambienti domestici, bar, club, feste, luoghi notturni. L’uso del flash diretto, sparato frontalmente a breve distanza, conferiva alle immagini una crudezza che rompeva la patina estetizzante della fotografia commerciale. Questo approccio fu reso possibile dall’uso di fotocamere a 35mm con flash a slitta, in particolare la Nikon F con Speedlight Vivitar 283, che garantiva potenza e rapidità di utilizzo.
La serie iniziale più nota è “The Other Side”, iniziata nei primi anni Settanta e portata avanti per decenni. Qui Goldin documenta le vite delle sue amiche transessuali e drag queen, restituendo dignità e visibilità a una comunità spesso esclusa dalla narrazione dominante. Dal punto di vista tecnico, le fotografie erano proiettate come slide show accompagnati da musica, creando una vera e propria opera audiovisiva. Questo formato, che univa immagine e suono, sottolineava la volontà di Goldin di andare oltre la fotografia statica e di restituire l’energia pulsante della vita vissuta.
Un’altra caratteristica della sua pratica fu l’uso della fotografia come diario personale. Goldin non scattava per costruire una narrazione giornalistica, bensì per registrare i momenti significativi della propria esistenza e di quella delle persone che amava. Ogni scatto era parte di un continuum autobiografico, dove la distinzione tra soggetto e fotografo si dissolveva.
Questi primi lavori furono accolti con diffidenza nel mondo accademico e museale, ma trovarono terreno fertile nell’ambiente underground di New York, dove Goldin si trasferì nel 1978. Qui il suo linguaggio trovò piena espressione, intrecciandosi con le culture artistiche e musicali della downtown newyorkese.
The Ballad of Sexual Dependency e l’affermazione internazionale
Il momento di consacrazione arrivò con la serie “The Ballad of Sexual Dependency”, iniziata a fine anni Settanta e strutturata come un diaporama di centinaia di diapositive a colori, accompagnate da una colonna sonora che includeva brani di Patti Smith, James Brown e Maria Callas. Presentata per la prima volta nel 1985, questa opera è oggi considerata un capolavoro della fotografia contemporanea.
Dal punto di vista tecnico, “The Ballad” fu costruita attraverso anni di accumulo di diapositive 35mm. Goldin proiettava le immagini in sequenza rapida, creando un effetto narrativo che ricordava il cinema. La scelta della pellicola a colori e del flash diretto restituiva la materialità dei corpi, dei volti, delle stanze disordinate, dei segni della dipendenza e della violenza. La fotografia non si limitava a mostrare, ma trascinava lo spettatore all’interno della comunità ritratta.
La serie rappresentava scene di amore, amicizia, sesso, violenza domestica, tossicodipendenza, senza filtri né giudizi. La dimensione diaristica diventava qui racconto collettivo: la vita privata di Goldin e dei suoi amici si trasformava in documento storico di un’intera generazione.
La sua estetica si distingueva anche per la gestione della saturazione cromatica. La pellicola Ektachrome, spinta a ISO più alti per scattare in condizioni di scarsa luce, produceva grana evidente e dominanti cromatiche calde. L’uso del flash diretto accentuava i contrasti, producendo ombre dure e colori saturi, che conferivano all’immagine un senso di immediatezza quasi aggressiva.
“The Ballad of Sexual Dependency” non era pensata per la stampa tradizionale, ma per la proiezione collettiva. Questo aspetto tecnico sottolineava la volontà di Goldin di restituire la fotografia alla dimensione comunitaria, opponendosi alla logica contemplativa del museo. Il pubblico era coinvolto in un’esperienza sensoriale, dove immagini e musica costruivano una drammaturgia visiva.
L’opera ebbe un impatto enorme nel mondo dell’arte e consacrò Goldin come una delle fotografe più influenti degli anni Ottanta. Il suo approccio autobiografico, il rifiuto del distacco documentario e l’uso radicale del colore aprirono nuove possibilità per la fotografia contemporanea.
Opere principali e sviluppi successivi
Oltre a “The Ballad of Sexual Dependency”, Goldin ha realizzato numerosi altri progetti di grande rilevanza.
La serie “The Other Side”, già avviata negli anni Settanta, è stata pubblicata in volume nel 1993 e aggiornata più volte. Essa costituisce una delle più importanti testimonianze fotografiche delle comunità trans e queer, restituite con dignità e complessità. Dal punto di vista tecnico, Goldin qui sperimenta maggiormente la luce naturale, pur mantenendo il colore come elemento centrale.
Un altro lavoro fondamentale è “I’ll Be Your Mirror”, pubblicato nel 1996. Questa raccolta di immagini, che copre oltre vent’anni della sua produzione, è accompagnata da testi che riflettono sulla dimensione diaristica della fotografia. Le immagini sono caratterizzate da un uso sempre più sofisticato della composizione, pur conservando l’immediatezza emotiva degli esordi.
Negli anni Duemila, Goldin ha realizzato opere come “The Devil’s Playground” (2003) e “Scopophilia” (2010–2011), quest’ultima esposta al Louvre, in cui le sue fotografie contemporanee dialogavano con i capolavori pittorici del museo. Tecnicamente, in queste opere l’artista ha iniziato a usare anche il digitale, pur mantenendo un’estetica fedele all’imperfezione e alla grana dell’analogico.
Un capitolo importante della sua carriera recente è la fondazione del collettivo P.A.I.N. (Prescription Addiction Intervention Now) nel 2017, con cui ha denunciato il ruolo della famiglia Sackler nella crisi degli oppioidi. In questo contesto, Goldin ha utilizzato la fotografia come strumento politico e performativo, documentando le azioni di protesta nei musei e creando immagini che uniscono arte e attivismo.
Dal punto di vista tecnico, pur avendo adottato la fotografia digitale in alcune fasi, Goldin continua a preferire i colori saturi e imperfetti che richiamano la pellicola analogica. Anche nelle opere più recenti, il flash diretto rimane un marchio di fabbrica, così come la scelta di lavorare in ambienti intimi e non controllati.
linguaggio fotografico
Il contributo di Nan Goldin alla fotografia non può essere ridotto al mero valore documentario. La sua opera ha ridefinito il rapporto tra fotografia e autobiografia, introducendo un linguaggio che unisce confessione personale e testimonianza collettiva.
Dal punto di vista tecnico, Goldin è stata una delle prime fotografe a legittimare il colore come mezzo espressivo nella fotografia d’autore. In un’epoca in cui il bianco e nero era considerato il linguaggio “serio” della fotografia artistica, la sua scelta di lavorare con pellicole cromatiche e flash diretto rappresentò una rottura radicale.
La sua influenza si è estesa ben oltre l’ambito artistico, toccando la moda, il cinema, la musica. Registi come Gus Van Sant e Larry Clark hanno riconosciuto il debito nei confronti del suo stile diaristico. Le sue immagini hanno inoltre contribuito a costruire una memoria visiva della crisi dell’AIDS negli anni Ottanta e Novanta, documentando le vite e le morti di molti suoi amici.
Goldin ha dimostrato che la fotografia può essere strumento di comunità, di lutto e di celebrazione. La sua pratica non mira a creare immagini perfette, ma a registrare la verità emotiva di un momento. Questa concezione, unita a una padronanza tecnica istintiva, ha reso il suo lavoro uno dei riferimenti fondamentali della fotografia contemporanea.

Mi chiamo Marco Americi, ho circa 45 anni e da sempre coltivo una profonda passione per la fotografia, intesa non solo come mezzo espressivo ma anche come testimonianza storica e culturale. Nel corso degli anni ho studiato e collezionato fotocamere, riviste, stampe e documenti, sviluppando un forte interesse per tutto ciò che riguarda l’evoluzione tecnica e stilistica della fotografia. Amo scavare nel passato per riportare alla luce autori, correnti e apparecchiature spesso dimenticate, convinto che ogni dettaglio, anche il più piccolo, contribuisca a comporre il grande mosaico della storia dell’immagine. Su storiadellafotografia.com condivido ricerche, approfondimenti e riflessioni, con l’obiettivo di trasmettere il valore documentale e umano della fotografia a un pubblico curioso e appassionato, come me.