Letizia Battaglia è nata il 5 marzo 1935 a Palermo e si è spenta il 13 aprile 2022 a Cefalù.
Un’infanzia segnata da un profondo spirito di osservazione permise a Battaglia di entrare in contatto fin da giovane con le contraddizioni della società siciliana. Il padre, turbato dal suo desiderio di emancipazione, la inviò in collegio a 14 anni, una scelta che contribuì a rafforzare la sua determinazione e la sua capacità di guardare il mondo con occhio critico. Frequentando il collegio lontano dalla famiglia, sviluppò una sensibilità verso le dinamiche di potere e giustizia, temi che avrebbero caratterizzato molte delle sue fotografie successive.
Ritornata a Palermo in età adulta, Battaglia intraprese un matrimonio che si rivelò frustrante per le sue aspirazioni culturali. Moglie e madre di tre figlie, decise di emanciparsi divorziandosi e trasferendosi a Milano, città in cui si compì il suo incontro decisivo con la fotografia. Durante quegli anni milanesi, frequentò corsi di tecniche analogiche e approfondì la conoscenza della camera oscura, affinando il processo di sviluppo e di stampa in bianco e nero.
Il ritorno a Palermo nella seconda metà degli anni Settanta coincise con l’offerta di lavoro al quotidiano L’Ora, storico giornale impegnato nel reportage sulla mafia. Letizia iniziò a scattare a 34 anni, unica donna tra i fotoreporter del giornale, un’esperienza che la catapultò nel cuore dell’inchiesta giornalistica e l’avvicinò alle aree più drammatiche della città. Durante il lavoro per L’Ora la Battaglia maturò la scelta di utilizzare esclusivamente il bianco e nero, convinta che l’assenza di colore amplificasse la forza narrativa degli eventi drammatici che documentava.
In quegli anni di piombo siciliani, Letizia si trovò spesso in prima linea sul luogo degli omicidi e delle stragi, diventando una testimone diretta di vicende che avrebbero cambiato la storia dell’Italia. Il suo archivio, oggi conservato presso istituzioni pubbliche e private, raccoglie migliaia di negativi che testimoniano non solo il crimine organizzato, ma anche la vita quotidiana di una città sospesa tra miseria e speranza.
Nel 1985 le fu conferito il W. Eugene Smith Grant in Humanistic Photography, riconoscimento che sancì la sua fama internazionale e attestò la profondità umanistica della sua ricerca visiva. Quel premio rese visibile al mondo intero un progetto che aveva saputo unire il rigore documentaristico al rispetto per le vittime, un aspetto che Battaglia riteneva imprescindibile per ogni fotoreporter civile.
La scelta di punti di ripresa inquadrati con obiettivi grandangolari permise a Battaglia di includere nel fotogramma non soltanto i protagonisti della scena, ma anche il contesto urbano circostante, elemento essenziale per comprendere la geografia emotiva dei suoi reportage. L’utilizzo della Leica M2, fotocamera analogica a telemetro, rappresentò il fulcro della sua attrezzatura per oltre trent’anni di lavoro sul campo.
Questa macchina compatta, priva di specchio e dotata di un mirino a telemetro, favoriva una composizione rapida e discreta, indispensabile per non alterare l’autenticità degli avvenimenti ritratti. Nell’ottica di Battaglia, la Leica M2 divenne lo strumento per cogliere l’istante decisivo, secondo la lezione di Cartier-Bresson, ma con una carica emotiva ancora più cruda, legata al senso di urgenza etica che guidava la sua inchiesta visiva.
Il lavoro in bianco e nero non fu una mera imposizione stilistica, bensì una scelta tecnica motivata dall’esigenza di esaltare la grana della pellicola e la gamma tonale tra zero e cento. Battaglia prediligeva pellicole ad alto contrasto, spesso Orwo o Kodak Tri-X, che garantivano una resa materica e granulosa, in grado di rendere tangibile la tensione degli eventi fotografati.
Per ottenere stampe di forte impatto, curava personalmente ogni fase del lo sviluppo, sperimentando vari tempi di immersone nel bagno di sviluppo e differenti diluizioni del fissaggio, in modo da calibrare l’intensità dei neri e la morbidezza dei grigi. La stampa su carta baritata accentuava ulteriormente il contrasto e conferiva alla superficie quel leggero rilievo che testimonia l’azione chimica sul supporto, dettaglio che l’autrice considerava parte integrante dell’opera fotografica.
Oltre alle stragi mafiose, il suo sguardo esplorò anche i riti religiosi, le feste popolari e i ritratti di intellettuali, sempre con una coerenza visiva che coniugava l’attenzione per il dettaglio con la visione d’insieme. Punti luce e ombre profonde venivano calibrati sul soggetto in modo da creare un effetto quasi cinematografico, dove ogni scatto possedeva un proprio equilibrio compositivo e una propria tensione narrativa.
Durante le mostre, spiegava di non uscire mai senza un safety light meter, strumento con cui misurava i valori EV (exposure value) in situazioni di scarsa illuminazione, riuscendo così a gestire al meglio le ombre profonde e le luci di taglio. Suoi furono anche alcuni accorgimenti originali come l’uso di una torcia elettrica per generare riflessi selettivi su volti o manifesti strappati, tecnica che evidenziava il contrasto emotivo tra la luce e la materia degradata delle pareti urbane.
Opere principali
Tra i suoi progetti più emblematici emerge “Passion, Justice, Freedom – Photographs of Sicily”, raccolta pubblicata da Aperture nel 2003, che propone un viaggio visivo tra i volti di carabinieri e vittime, tra carcasse di automobili distrutte dalle esplosioni e corone di fiori deposte sui luoghi del delitto. L’impostazione del volume seguiva una sequenza temporale, alternando scatti di cronaca nera a immagini di vita quotidiana, quasi a ricordare che la bellezza e la violenza coesistono in uno stesso territorio.
Nel 2006, con “Dovere di Cronaca”, Battaglia, insieme a Franco Zecchin, presentò un’opera in cui viene evidenziata la dimensione collettiva dell’inchiesta fotografica: l’impaginazione serrata, senza alcun commento testuale, affidava al solo flusso visivo il compito di costruire una memoria condivisa. La fotografia diventava così un linguaggio autonomo, capace di raccontare senza sovrastrutture retoriche.
L’antologia intitolata “Just For Passion” del 2016 approfondisce invece il lavoro sui ritratti, mettendo a confronto volti di mafiosi, politici e donne del popolo. In queste sequenze emerge l’attenzione di Battaglia per la luce radente, che oscillava tra un chiaroscuro caravaggesco e una resa più documentaristica, evidenziando le rughe e le imperfezioni, segno di una verità senza filtri.
Progetto conclusivo ma non meno significativo fu la mostra “Anthologia”, presentata nel 2016 ai Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, in cui furono selezionati oltre 140 scatti tra i più intensi della sua carriera. Il percorso espositivo era articolato in sezioni che seguivano un filo cronologico ed emozionale, mettendo in luce l’evoluzione tecnica di Battaglia e la sua capacità di rinnovare, nel corso dei decenni, il proprio sguardo senza perdere la coerenza etica che la caratterizzava.
Documentari come “Shooting the Mafia” (2019), diretto da Kim Longinotto, hanno contribuito a diffondere il suo lavoro a livello internazionale, mostrando le fasi di realizzazione degli scatti e il rapporto schietto con la stampa analogica. Il film sottolinea il valore del processo fotografico come strumento di denuncia e memoria collettiva, posizionando Battaglia non solo come autrice di immagini, ma come vera e propria attivista visiva.
Tra i riconoscimenti internazionali ricordiamo il Cornell Capa Infinity Award (2009) e il Dr. Erich Salomon Award (2007), conferiti da istituzioni come l’International Center of Photography di New York e la Deutsche Gesellschaft für Photographie, che hanno premiato tanto il valore documentario quanto quello estetico delle sue opere.