Le storia di Lejeune & Perken ha inizio nel cuore di Londra, nell’anno 1852, quando due soci decisero di unire le proprie competenze artigianali in un’officina situata al 24 di Hatton Garden. Louis Edmond Perken, nato a Parigi nel 1829, poco più che ventenne, portò con sé un bagaglio di conoscenze nella lavorazione del legno e del metallo, maturate durante un apprendistato nelle botteghe della Rive Gauche; del suo socio Lejeune, di probabile origine francese, non sono pervenuti certi dati anagrafici, ma si ritiene che fosse un esperto ebanista con una particolare predilezione per la micro-lavorazione del noce e del ciliegio. La sinergia fra la maestria nella ebanisteria di precisione e le tecniche di ribattitura del metallo diede presto i suoi frutti, orientando l’attività fin dai primi anni verso la produzione di strumenti ottici e fotografici.
In quegli anni, la bottega si caratterizzava per l’assemblaggio di corpi in legno compensato di betulla rivestiti di tela cerata, saldati con profili in ottone tornito e rifiniti a mano con vernici all’acqua di cera d’api. Il risultato era un prodotto in grado di garantire stabilità dimensionale e resistenza all’umidità, qualità indispensabili per applicazioni fotografiche. L’aggiunta di piccoli contrappesi in piombo e bronzo temprato, ricavati da fusioni in piccole fornaci, conferiva al corpo macchina l’equilibrio necessario per l’uso su treppiedi pesanti, parte di una gamma di accessori realizzati su misura nella stessa officina.
Le prime produzioni di Lejeune & Perken si concentrarono sulla realizzazione di lanterne magiche, strumenti di intrattenimento e divulgazione scientifica basati sulla proiezione di lastre di vetro dipinte. Ogni lanterna veniva dotata di un condensatore in vetro sodico-calcico con lente a menisco e di un sistema di regolazione del fuoco tramite ingranaggi micrometrici, ispirati ai design dei proiettori teatrali. La commercializzazione di questi apparecchi permise ai soci di consolidare un capitale iniziale sufficiente ad acquisire torni automa e rettifiche di precisione, strumenti che avrebbero rivoluzionato la qualità dei prodotti successivi.
Contemporaneamente, la bottega iniziò a fabbricare i corpi macchina per ambrotipi e ferrotipi, basati su telaio a piastra singola. La realizzazione delle guide di scorrimento del soffietto, in robusto cartone ricoperto di velluto impermeabilizzato, richiedeva tolleranze inferiori a ±0,1 mm per evitare infiltrazioni di luce. I soffietti, cuciti a mano con filo cerato e rinforzati mediante stecche interne in legno laminato, garantivano un’espansione fluida fino a 200 mm di estensione, consentendo riprese ravvicinate con lenti a doppietto sferico a fuoco fisso.
Queste attività iniziali gettarono le fondamenta di un’azienda votata alla qualità artigianale unita a standard tecnici elevati. La capacità di integrare in un unico laboratorio la produzione di componenti eterogenei – dal meccanismo metallico dell’otturatore alle finiture lignee dei corpi macchina – permise a Lejeune & Perken di distinguersi fin da subito nel mercato londinese, raccogliendo commissioni da studi fotografici di alta gamma e laboratori medici interessati a strumenti ottici di precisione.
Produzioni iniziali e primi sviluppi tecnici
Durante gli anni Sessanta dell’Ottocento, Lejeune & Perken ampliò progressivamente la propria offerta introducendo otturatori meccanici e Plate Changing Back, dorsi intercambiabili per lastre in grado di velocizzare la sostituzione del supporto sensibile. Il meccanismo degli otturatori prevedeva una ghiera esterna in ottone lucidato, collegata a una camma interna che consentiva tempi di esposizione selezionabili fra 1/2, 1/5 e 1/10 di secondo. La costruzione di tali componenti richiedeva rettifiche su torni paralleli con scarti massimi di 0,02 mm, per garantire sincronizzazione e ripetibilità delle lamelle che aprivano e chiudevano il percorso della luce.
Il Plate Changing Back, un’invenzione pionieristica per l’epoca, consentiva al fotografo di preparare più lastre in cassetti estraibili. Ogni cassetto, realizzato in legno di noce stagionato e rivestito internamente di velluto nero, si inseriva in un telaio a scorrimento garantito da guide in ottone brunito. Un doppio sistema di fermo a molla assicurava l’impermeabilità alla luce, mentre il caricamento avveniva mediante una leva a cremagliera manovrata da un singolo dito, semplificando notevolmente le operazioni di ripresa sul campo.
A partire dal 1880, presso lo stesso laboratorio iniziò la collaborazione con F. Louis Gandolfi, futuro fondatore della Louis Gandolfi & Sons, che imparò i metodi di assemblaggio dei soffietti telescopici e delle ottiche anziché limitarsi alla costruzione di corpi macchina. La produzione di ottiche rimase comunque marginale, essendo le lenti reperite da terzisti di alto livello su specifiche di Lejeune & Perken: vetri ad alta rifrazione, correzione delle aberrazioni sferiche tramite doppietti collati e trattamenti antiriflesso con emulsioni a base di ossidi di metallo.
Dal punto di vista meccanico, i corpi macchina presentarono evoluzioni continue. Il sistema di rullaggio pellicola, introdotto nel 1882, utilizzava rulli annegati in bronzo alluminato, balancierati per evitare giochi asimmetrici. Questi componenti erano fabbricati su torni universali, fresati con moduli di 0,5 e rettificati in impianti dedicati, secondo specifiche interne codificate in disegni inchiostrati in scala 1:1. L’attenzione alla tolleranza geometrica era tale che ogni esemplare veniva sottoposto a controlli dimensionali con calibri di misura campione e comparatori ottici, per garantire le medesime prestazioni tra unità diverse.
Verso la metà degli anni Ottanta la produzione incluse anche lanterne magiche a obiettivo intercambiabile, un’innovazione che consentiva di cambiare sia il condensatore che la lente proiettiva, adattando lo strumento a diversi tipi di lastre. Il montaggio richiedeva sedi filettate di precisione, con passo metrico 0,75 mm, realizzate mediante alesatrici dedicate. Questo stesso approccio fu traslato poco dopo nella progettazione del marchio Optimus, che vide la luce nel dicembre 1885 con la registrazione ufficiale presso l’Ufficio Brevetti di Londra: una svolta che segnava l’ingresso di Lejeune & Perken nel mercato delle fotocamere con un proprio brand.
Registrazione del marchio “Optimus” e primi apparecchi proprietari
L’ottenimento del marchio “Optimus” nel dicembre 1885 rappresentò per Lejeune & Perken un trampolino verso la produzione di fotocamere completamente progettate e assemblate internamente. Nel 1886 vide così la luce la Patent Portable Camera, un modello a vendo a soffietto, corpo in legno di mogano e lamelle di ottone brunito, pensato per il mercato amatoriale evoluto. Il soffietto, cucito con filo cerato e rinforzato mediante anelli in bronzo, si estendeva fino a 180 mm, permettendo l’uso di lastre in formato a quarter plate (3¼ × 4¼ inch) e half plate (4¼ × 6½ inch). Le guide del soffietto, filettate con un passo di 1 mm, garantivano uno scorrimento uniforme e senza giochi.
Tecnicamente, la Patent Portable Camera adottava un otturatore a tendina di seta rinforzata, con sincronizzazione massima di 1/60 s e posa “B” per esposizioni lunghe. Il comando di armamento, azionato da un selettore a cremagliera, consentiva di bloccare la tendina in posizione semiaperta per tempi rapidi, minimizzando l’usura del tessuto tramite un sistema di rulli in metallo duro. Il mirino a galeria fissa, dotato di un piccolo prisma di campo, offriva un’inquadratura precisa per fotogrammi fino a 95 % di copertura, cifra elevata per la categoria.
Nel luglio 1887, per ragioni industriali e logistiche, l’officina si trasferì al 101 di Hatton Garden. Contestualmente, l’azienda assunse la nuova ragione sociale Perken, Son & Rayment, con l’ingresso di Arthur Rayment, già fornitore di lanterne magiche tramite il marchio Rayment & Prescott’s patent lamp. Questo rinnovamento societario coincise con l’ampliamento della gamma Optimus, ora declinata in modelli dedicati a usi specifici: dalla Optimus Book Camera, caratterizzata da un meccanismo di apertura a libro e dalla piastra frontale rinforzata per supportare obiettivi con lunghezza focale fino a 12 inch, alla Optimus Reflective Camera, progettata per la fotografia artistica con specchio mobile e diaframmi regolabili tramite ghiera micrometrica.
La registrazione di ulteriori brevetti tra 1887 e 1890 vide Lejeune & Perken brevettare un otturatore ad otturini (Patent diaphragm shutter), in grado di offrire tempi di esposizione fino a 1/125 s, utilizzando lamelle ondulate in ottone stagionato. Questo meccanismo, montato su corpi Reflex-like per scatti sotto banco, rimase in produzione fino al 1910 con minime modifiche, a testimonianza della robustezza del progetto originale.
Cambiamenti societari e sviluppo della gamma Optimus
Il settore fotografico di fine Ottocento era caratterizzato da rapidi cambiamenti tecnologici e dalla nascita di numerose ditte artigiane. In questo contesto, Perken, Son & Rayment seppe differenziarsi grazie all’ampiezza della propria gamma Optimus e alla cura dei dettagli costruttivi. Tra il 1887 e il 1897 furono proposti oltre venti modelli diversi, con formati dal quarto di lastra (3¼ × 4¼ inch) fino al grande formato da 12 × 15 inch. Queste fotocamere, destinate sia al mercato di studio che a quello portatile, univano il calco tradizionale in legno con meccanismi di precisione quali leve di scatto a due stadi e otturatori riflessi, capaci di ricevere pellicole sensibilizzate direttamente da rotoli flessibili.
Analizzando l’evoluzione della denominazione aziendale, nel 1899 Arthur Rayment abbandonò la società e l’impresa assunse il nome di Perken, Son & Co. Ltd.. Questo cambiamento portò a un rallentamento nello sviluppo di nuovi brevetti, ma non nella produzione: per qualche anno furono reintrodotti modelli ottimizzati, come la Optimus Dopfa Magazine Hand Camera del 1903, dotata di un caricatore a tamburo per otto lastre da 3¼ × 4¼ inch, con un avanzamento automatico sincronizzato da un meccanismo a camme interne.
Nel ventennio successivo la concorrenza di brand come Thornton-Pickard e Kodak spinse Perken, Son & Co. Ltd. a perfezionare i soffietti a fisarmonica con materiali termoplastici in sostituzione al cartone, migliorando la resistenza all’umidità e all’usura. Gli otturatori, pur restando basati sui brevetti di fine Ottocento, furono rivisti con lamelle realizzate in acciaio nickelato e molle in acciaio a resilienza controllata, per offrire maggiore regolarità dei tempi e resistenza a oltre 100.000 cicli di scatto.
Una peculiarità della gamma Optimus era l’integrazione di componenti intercambiabili: impugnature laterali, mirini telescopici e obiettivi di terze parti venivano montati su piastra frontale mediante attacchi standardizzati, realizzati con filettature M35 × 1,5 mm, che consentivano di combinare a piacere diversi accessori. Tale modularità era rara per l’epoca e anticipava concetti poi diventati prassi nell’industria fotografica del Novecento.
La produzione nel periodo 1899–1913 rappresenta il culmine dell’attività di Perken, Son & Co. Ltd.; in quegli anni, l’officina impiegava circa cento artigiani specializzati, suddivisi tra la linea di assemblaggio otturatori, il reparto ebanisteria, quello di cerniteria lenti e un laboratorio di galvanotecnica per placcature in nichel e argento. Lo stabilimento di Hatton Garden divenne un punto di riferimento per i cultori della tecnica fotografica, grazie anche a una rete di rivenditori diretti in Europa e negli Stati Uniti.
Analisi tecnica dei modelli più rappresentativi
Tra i modelli emblematici prodotti da Lejeune & Perken emergono alcune fotocamere che incarnano al meglio la filosofia aziendale di eccellenza artigianale e innovazione meccanica. La Optimus Detective Camera, ad esempio, progettata per uso su piastra 3¼ × 4¼ inch, pesava meno di 800 grammi e montava un otturatore centrale con diaframmi preimpostati a lamelle metalliche, offrendo tempi da 1 s a 1/100 s. Il corpo in noce placcato con vernice all’alcool presentava profili in ottone nichelato, mentre il meccanismo di armamento era azionato da una leva a battente smontabile, per adattare la fotocamera a riprese in movimento.
La Optimus Book Camera, studiata per il fotografo viaggiatore, era dotata di un meccanismo di apertura a libro, in cui le due piastre frontali si ribaltavano lateralmente mediante cerniere in ottone, liberando il soffietto interno. Questa soluzione permetteva di ridurre l’ingombro complessivo a meno di 6 cm di spessore da chiusa, facilitando il trasporto nello zaino. L’impostazione di fuoco era gestita da un anello filettato micrometrico con passo 0,5 mm e una scala graduata con tolleranza ±0,2 mm, sufficiente per garantire nitidezza a distanze comprese fra 1 e 10 m.
Per gli sportivi, la Optimus Cyclist’s Camera introduceva un supporto rapido in acciaio calandrato per il montaggio sul manubrio della bicicletta, con ammortizzatori in gomma naturale per assorbire le vibrazioni. Il corpo, parzialmente aperto, esibiva un soffietto corto da 80 mm, sufficiente per obiettivi grandangolari dell’epoca; l’otturatore, di tipo guillotine, offriva un’unica velocità di 1/50 s, adeguata alle riprese in movimento.
Tra le macchine da studio, la Optimus Twin Lens Reflex Camera rappresenta un’eccellenza di meccanica ottica: due lenti a doppietto collato, una per l’inquadratura e una per l’esposizione, montate su un barilotto in ottone tornito. Il passaggio fra mirino e lastre avveniva tramite una leva a camma, che spostava simultaneamente il soffietto frontale da 120 mm. Il blocco del dorso, con lastre da 6½ × 8½ inch, utilizzava molle calibrate per assicurare un perfetto contatto della lastra al piano focale, garantendo una planarità entro ±0,03 mm.
Questi modelli non erano frutto di serie in larga scala, ma di produzioni limitate, numerate e corredate di targa identificativa in ottone incisa al bulino. La cura estrema dei dettagli, dai rivetti in ottone brunito alle rifiniture in madreperla per le manopole di controllo, segnala la natura artigianale di queste fotocamere, oggi tra le più ricercate dai collezionisti.
Processi produttivi interni e organizzazione artigianale
Il successo di Lejeune & Perken si fondava su un modello produttivo che integrava artigianato e precisione industriale. All’interno dell’officina di Hatton Garden, l’area di montaggio otturatori accoglieva artigiani specializzati che saldavano lamelle metalliche con saldatrice a fiamma ossidrica, verificando poi l’elasticità delle molle tramite comparatori a molla. Ogni otturatore era testato per superare almeno 10.000 cicli di scatto in laboratorio, con una variazione dei tempi inferiore al 2 %.
Nel reparti di ebanisteria, le pannellature in noce venivano tornite a mano libera per ottenere spessori uniformi, quindi assemblate con giunti a pettine e incollate con colle animali stagionate. La verniciatura, a più mani, prevedeva l’uso di resine naturali e cere per garantire protezione da umidità e agenti chimici. I corpi macchina, una volta levigati, ricevevano una finitura a tampone con cera d’api e solvente, conferendo un aspetto caldo e una presa antiscivolo.
Il laboratorio di galvanotecnica gestiva placcature in nichel e argento su componenti in ottone, assicurando resistenza alla corrosione e lucentezza duratura. Attraverso un processo di decapaggio, passivazione e immersione in vasche elettrolitiche, veniva depositato uno strato di metallo spesso circa 5 µm, con rugosità inferiore a 0,1 µm Ra. Questo trattamento veniva applicato a piastrine, ghiere, manopole e, in alcuni casi, al telaio interno dei soffietti per proteggere le zone a maggior stress.
La costruzione dei soffietti richiedeva un altro reparto dedicato: qui, il cartone pressato veniva tagliato con una cesoia meccanica, piegato a mano e assemblato con film di gomma naturale. Ogni piega era sagomata con matrici in acciaio temprato, mentre le cuciture venivano eseguite su macchine ad ago singolo, con tensione calibrata per evitare deformazioni. Solo una volta verificata la tenuta alla luce, mediante test in camera oscura, il soffietto veniva incollato al corpo macchina.
Parallelamente, il reparto accessori realizzava treppiedi telescopici in legno di faggio semistagionato, rinforzati da giunti in bronzo e dotati di teste a sfera con frizioni a vite. Questi supporti erano progettati per sostenere fino a 5 kg di peso, con stadi di estensione fino a 1,8 m, e rappresentavano un complemento indispensabile per i fotografi professionisti dell’epoca.
L’organizzazione del lavoro avveniva in officine affiancate lungo stretti corridoi di Hatton Garden, con un piccolo magazzino per le materie prime (legno, ottone, tessuti) e un ufficio tecnico dove venivano disegnati i prototipi su grandi tavoli da disegno, utilizzando squadre, compassi e righelli calibrati. Lo scambio continuo tra falegnami, meccanici e galvanotecnici assicurava un flusso di produzione fluido, pur mantenendo un’impronta artigianale ben riconoscibile in ogni fotocamera uscita dalla porta principale.
Fotocamere Lejeune & Perken nel mercato collezionistico
Oggi, le fotocamere Lejeune & Perken rappresentano veri e propri oggetti da collezione, apprezzati per l’equilibrio tra estetica artigianale e soluzioni tecniche avanzate per la loro epoca. Collezionisti e musei di storia della fotografia ne ricercano esemplari integri, preferibilmente corredati di accessori originali quali ottiche, treppiedi e dorsi intercambiabili. La Optimus Detective Camera e la Optimus Twin Lens Reflex sono particolarmente quotate, con valutazioni che possono superare i 3.000 € per esemplari in condizioni eccellenti.
Il mercato specializzato distingue tra modelli con finiture in ottone lucido e quelli nichelati, mentre le differenze di prezzo emergono in base alla presenza di placcature originali e alla completezza del corredo. La rarità dei soffietti integri, data la fragile natura dei materiali, aumenta ulteriormente il valore delle macchine perfettamente funzionanti. Gli appassionati organizzano raduni e mostre, scambiando dettagli tecnici sui processi di restauro e sulle metodiche di calibrazione originali, attestate da vecchi manuali d’officina ritrovati negli archivi di Hatton Garden.
Nonostante il mercato digitale abbia rivoluzionato la fotografia, l’interesse per le macchine storiche come quelle di Lejeune & Perken rimane vivo. La ricerca del dettaglio ottico, il desiderio di utilizzare formati grandi e la sensoristica in vetro delle lastre spingono un ristretto numero di sperimentatori a riscoprire tecniche di scatto antiche, alimentando una nicchia di praticanti della fotografia analogica. Alcuni workshop contemporanei insegnano ancora le metodologie di assemblaggio dei corpi in legno e la preparazione delle emulsioni, mantenendo viva la tradizione artigianale iniziata più di un secolo fa.